Giusto qualche anno fa, quando il fenomeno Rovazzi era nel pieno del suo splendore, nella sua seconda grande hit Tutto molto interessante c’era una citazione molto familiare: “Faccio cose, vedo gente”. Tra Fabio Rovazzi e Nanni Moretti, mi sembra inutile sottolinearlo, intercorre una distanza generazionale considerevole – oltre che un’evidente lontananza in fatto di forma e contenuto. Eppure, quella frase ormai completamente svuotata dal suo valore originario suona comunque bene nella canzone, richiamando a quello che ormai più che una citazione è un modo di dire. Non so se il cantante/attore/web personality di Andiamo a comandare abbia mai visto Ecce bombo (pare di no), ma non credo nemmeno che sia necessario per il successo del suo pezzo il fatto che conosca o meno il film girato in Super 8 alla fine degli anni ’70. Ciò che invece importa è che abbia scelto di usare le parole del film di Nanni Moretti per descrivere un’attitudine, uno stile di vita, che evidentemente dal suo punto di vista combacia con quello dell’oggetto del suo messaggio, ma che in realtà non coincide con l’immagine del film da quale è tratto. La ragazza che vive la sua vita giorno per giorno facendosi offrire le sigarette e i pranzi, che non si capisce bene cosa faccia per sopravvivere – anche se il sottotesto è che può permettersi questa vita bohémien – non è di certo la stessa di “Selfie a casa, selfie al mare, selfie al ristorante” che annoia Rovazzi con la sua sovraesposizione social.
Eppure, tutti noi (noi maggiorenni, perlomeno, non so se il discorso valga lo stesso per i nati dopo il 2000) quando abbiamo sentito quel “faccio cose, vedo gente” lo abbiamo associato a qualcosa di noto: Nanni Moretti, inconsapevolmente, nel 1978 aveva creato un tormentone, esattamente come Rovazzi. Solo che dal giorno in cui Ecce bombo è uscito nelle sale, l’8 marzo di quell’anno, sono passati quarant’anni. E non vorrei azzardare un’ipotesi affrettata, ma non credo che nel 2058 citeremo Andiamo a comandare con la stessa facilità con cui citiamo il dialogo di una scena che forse non abbiamo nemmeno visto, senza nulla togliere alla canzone.
La controindicazione del tormentone è che spesso, come nel caso di Ecce Bombo – ma anche di molti altri film di Moretti: dal celebre “Continuiamo così, facciamoci del male” di Bianca al “D’Alema di’ una cosa di sinistra” di Aprile fino al “Le parole sono importanti” di Palombella rossa – si tende a ricordare una formula a memoria da citare fuori contesto, snaturandola e trasformandone il messaggio iniziale. Non è per forza un male, sia chiaro, è ciò che succede con tutta la cultura che diventa di dominio pubblico, è un processo linguisticamente democratico. A distanza di quarant’anni da quel film semi-casereccio che ha reso Nanni Moretti il Nanni Moretti che tutti noi oggi conosciamo però, bisognerebbe a mio avviso fare uno sforzo interpretativo e ripartire proprio dalle citazioni più famose per capirne l’importanza epocale: non tanto per salire in cattedra e tirare le orecchie a chi, per citare un altro film di Moretti “Parla di cose che non conosce”, ma piuttosto per non lasciare che il flusso della reinterpetazione cancelli il significato originario.
La centralità di questo film all’interno della nostra storia cinematografica, infatti, non dipende solo dal fatto che qualcuno inserisca a caso in una canzone o in una conversazione uno stralcio di dialogo, ma semmai dalla ragione in partenza per cui queste scene sono diventate così iconiche in quel momento e lo sono rimaste anche oggi. Perché a conti fatti, Ecce bombo sono 103 minuti di citazioni riutilizzabili per post su Facebook o come frasi di circostanza in contesti in cui vogliamo ostentare una certa cultura e fare i simpatici senza sforzi e senza il timore di non venire compresi.
Per rimettere le cose al proprio posto e ricomporre il puzzle di citazioni, è necessario fare un passo indietro per capire qual è il sottobosco da cui provengono Michele Apicella e tutti i suoi compagni di noia urbana. Appena due anni prima, nel 1976, Moretti era diventato molto popolare – all’interno di un circolo piuttosto ristretto, sia chiaro – per via del suo film d’esordio Io sono un autarchico. Recensioni importanti, consenso e stupore per questo nuovo stile di messa in scena resero già da subito la pellicola girata con amici attori di teatro e mezzi di fortuna un piccolo cult. Una puntata del 1977 di Match, la trasmissione di Alberto Arbasino, dà un’immagine molto emblematica della figura di Nanni Moretti in quel momento: messo faccia a faccia con Mario Monicelli – il quale mantiene un aplomb signorile ma subdolamente spietato – appare svogliato, stanco, infastidito. In altre parole, fa lo stronzo. Fa il ventiquattrenne tronfio e polemico che contesta il vecchio sistema, quello della commedia all’italiana: vista da un’ottica contemporanea la sua sbruffonaggine sembra una bestemmia in chiesa, mentre riposizionandola in quel preciso momento storico, la chiave di lettura cambia.
Erano passati quasi dieci anni dal ’68: i giovani cominciavano a tirare le somme delle loro battaglie, in tv si fumava e si discuteva tra femministe, sceneggiatori, vecchi mostri sacri e nuovi talenti di nicchia pronti a diventare di massa. Nanni Moretti, col ciuffo scompigliato e i pantaloni a zampa in perfetto cliché post-sessantottino, dice una cosa importante, ovvero che i registi della grande tradizione all’italiana hanno tolto spazio, ossigeno e soldi ai giovani con film fatti apposta per imboccare il pubblico con quello che sapevano già sarebbe piaciuto, con gli attori che già amavano tutti, con le formule che era scontato avrebbero fatto ridere. Nanni Moretti, in quella trasmissione, sta mettendo le basi per una delle sue battute più celebri (e più incomprese, come dice lui stesso) che andrà in scena appena un anno dopo, con l’uscita di Ecce bombo: “Te lo meriti Alberto Sordi”.
Da quello che racconta il regista di “Spinaceto pensavo peggio”, durante le proiezioni di Ecce bombo la gente rideva un sacco: rideva perché si riconosceva in quella parodia di medio-borghesia annichilita e apatica, o in quelle usanze bislacche che all’epoca sembravano così serie, come i gruppi di autocoscienza. Poi però, arrivati alla battuta su Alberto Sordi, calava il silenzio. Quella che era una critica sottile e pungente al sistema dell’industria culturale italiana di quegli anni che di lì a poco si sarebbe trasformata nella fabbrica dei Lino Banfi e dei Renato Pozzetto vari, venne interpretata come un gesto iconoclasta e insolente nei confronti del volto più rassicurante del cinema italiano, quello di Alberto Sordi.
Eppure quella sfuriata da pazzo al bar conteneva una rappresentazione tanto attuale da risultare inquietante: l’uomo qualunque che si lamenta dell’Italia e degli italiani, “rossi o neri siamo tutti uguali”, e la rabbia di Michele Apicella che molla il suo tramezzino per una rissa contro la classica opinione da bar. Fino a quando poi queste opinioni da bar non si radicano talmente tanto nella coscienza collettiva da diventare di fatto la base per quello che oggi è il primo partito, che con la retorica del “rossi o neri siamo tutti uguali” ci ha fatto il 32%. E Alberto Sordi, il simbolo dell’italianità, del “maccarone m’hai provocato, e mo’ te magno”, ha la sola colpa di essere tanto pacificamente ignavo e incline al compromesso del “volemose bene” da diventare l’emblema di questa predisposizione d’animo che, c’è poco da fare, è ancora viva e vegeta. Tanto viva da sedurre persino Ghali che quarant’anni dopo Ecce bombo canta “ma che politica è questa, qual è la differenza tra sinistra e destra”, giusto per buttare altra carne al fuoco nel dibattito sulla morte delle ideologie. Nanni Moretti, con quel fare violento e provocatorio, voleva proprio sottolineare il fatto che invece la differenza tra sinistra e destra esiste eccome, e direi che esiste persino oggi, considerato che la sinistra è un concetto universale che si basa su valori immutabili. Anzi, andrebbe usata come “arma” proprio contro quel sentimento di sconforto e di scetticismo diffuso.
La battuta su Alberto Sordi, ovviamente, non è nemmeno quella più memorabile di tutto il film, né l’unica ad avere un significato tanto pregno di sfumature da poter essere riutilizzata persino in canzoni pop. La vera forza di Ecce bombo, infatti, sta nella gigantesca presa per il culo che Nanni Moretti fa a se stesso e a tutti i suoi coetanei, a quella generazione che lottava per differenziarsi dai propri genitori e abbatterne le regole ma che finiva per stabilirne di altre – come in una delle tante scene famose, quella in cui Michele Apicella rimprovera sua mamma a tavola, “fica non figa, cacare non cagare, fortunatamente siamo a Roma e non a Milano” – rivelando tutta la componente più ridicola di questa grande battaglia generazionale. O la scena del telefono – del “vengo non vengo” – quella dell’esame di maturità, della macchina e ancora dei gruppi di autocoscienza maschile.
È tutta una lunga e dissacrante rappresentazione di una generazione, di una città, di un quartiere e di una specifica classe sociale con uno specifico orientamento politico, quello di estrema sinistra – come dice Moretti stesso – che sorprendentemente però è riuscita a diventare metafora di un insieme molto più largo. Con un’operazione di disvelamento della ridicolaggine di certe usanze, come una sorta di auto-analisi, l’ironia (in certi casi nemmeno voluta) di Nanni Moretti ha saputo ridere della sinistra e delle sue emanazioni, fino a farlo addirittura additare da qualcuno come regista di destra. E la citazione di Ecce bombo, dopo quarant’anni, al di là del richiamo all’immaginario condiviso che ci mette tutti d’accordo, ci dovremmo sforzare di ricordare anche a cos’altro serviva: a esercitare quella cosa che la sinistra ha il vizio di fare troppo raramente, ridere di se stessa e soprattutto ricordarsi che esiste ancora – al di là delle percentuali – come categoria universale.