Ci sono citazioni cinematografiche che sono diventate frasi comuni sparse nel lessico quotidiano, quasi fossero frutto della saggezza popolare. Diventano dei modi di dire di cui magari in pochi si ricordano l’origine, l’autore o il film da cui quelle frasi sono state tratte. Nella storia del cinema italiano Lina Wertmüller è una delle autrici e registe inconsapevolmente più citate, visto che i titoli e le battute di molti suoi film sono diventati dei veri e propri modi di dire di uso comune. E forse ciò è successo perché lei come autrice è riuscita a fare il contrario: è riuscita a sdoganare il lessico politico degli anni Settanta imprimendo a slogan ed espressioni dell’epoca un’accezione nuova paradossale e sarcastica. “Razza padrona” e “Bottana industriale”, passate alla storia come le battute cult del film Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’Agosto, hanno trasformato i due personaggi protagonisti – Gennarino Carunchio e Raffaella Pavone Lanzetti – nell’emblema della differenza sociale tra il Nord e il Sud, tra classe operaia e aristocrazia industriale. Inoltre, rispetto al cinema politico degli stessi anni, i film di Wertmüller hanno mostrato come la lotta politica, gli ideali e l’emancipazione femminile, potessero essere raccontati in chiave ironica e senza rinunciare ai sentimenti.
Arcangela Felice Assunta Wertmüller von Elgg Spanol von Braueich (questo il nome completo di battesimo) muove i suoi primi passi da aiuto regia al seguito di Federico Fellini, collaborando con lui in due pellicole cult come La dolce vita e 8½. Con Fellini ha in comune l’amore per le donne e uno sguardo diverso da tutti gli altri sul ruolo che hanno nella società. Traccia così, opera dopo opera, un filo narrativo costellato di ruoli femminili che diventano ritratti rivoluzionari della cinematografia, e rompono gli schemi della definizione femminile convenzionale. Come nel 1963, quando per il ruolo di Giannino Stoppani, storico personaggio del romanzo novecentesco di Vamba, Il giornalino di Gian Burrasca, scelse una donna: Rita Pavone. Lo sceneggiato di cui fu autrice e regista andò in onda sulla Rai con i costumi di Piero Tosi e le musiche di Nino Rota dirette da Luis Bacalov.
Nel 1979 Lina Wertmüller decise di mettere in scena al prestigioso Festival dei due mondi di Spoleto, il dramma Amore e magia nella cucina di mamma, ispirato alla vicenda della serial killer Leonarda Cianciulli, passata alla cronaca come “la saponificatrice di Correggio” e interpretato da una giovane e ancora poco affermata Isa Danieli, con un testo che dava corpo e anima a una figura a dir poco controversa. Il titolo, apparentemente innocente, nasconde dietro a parole innocue l’ironia caustica dell’autrice e la sua visionarietà, in grado di trasformare un fatto di cronaca accaduto nell’immediato dopoguerra in una brillante commedia nera. Leonarda Cianciulli aveva infatti una personalità segnata dai traumi e dalla miseria e aveva sviluppato una vera e propria ossessione per proteggere l’unico figlio che le era rimasto – di nove. Decise allora di avvelenare tre sue amiche rimaste sole per impossessarsi dei loro patrimoni, trasformando i loro cadaveri in sapone e diventando una delle prime serial killer della nostra storia.
Nell’opera teatrale Wertmüller decise di rappresentare le due facce di questa donna: la madre che genera e restituisce nuova vita alla miseria e alle cose attraverso la cucina, quale luogo alchemico di trasformazione; e la donna che nascondeva in sé il seme della follia causato dalla disperazione data dalla morte dei figli. La scenografia fu curata da Enrico Job, compagno di vita di Wertmüller, che mise al centro della scena un albero spoglio con radici e ramificazioni contorte, una cucina povera e un cerchio magico, simbolo dei rituale sacrificali di magia nera. Per il ruolo della protagonista Wertmüller si impose per avere Isa Danieli, anche contro il volere della direzione artistica del Festival che puntava, invece, ad avere sul proprio palcoscenico nomi più conosciuti.
Danieli e Wertmüller si erano conosciute qualche anno prima durante il casting per Film d’amore e d’anarchia, nel quale l’attrice aveva dovuto interpretare, improvvisando, una prostituta. Da lì nacque un sodalizio artistico che le portò a lavorare insieme in molti altri progetti, fino ad Amore e magia nella cucina di mamma, che la Wertmüller scrisse proprio su di lei. Wertmüller, infatti, come molti grandi registi, nel corso della sua carriera è sempre riuscita a trasformare i suoi attori in vere e proprie icone del cinema. Inoltre, ha sempre saputo ottenere ciò che voleva e fin dall’inizio della sua carriera ha cercato e lottato per ottenere gli interpreti che riteneva più adatti per incarnare i suoi personaggi, senza rincorrere il volto noto che poteva rendere più appetibile la sua opera ai produttori e al pubblico. Così fu anche per Mariangela Melato per Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare di agosto, del 1974.
Quando Melato incontrò Wertmüller aveva già lavorato con registi del calibro di Luca Ronconi, Giorgio Strehler e Luchino Visconti, ma fu quest’ultima a far emergere la sua forte vena comica, trasformandola nell’indimenticabile Raffaella Pavone Lanzetti, un personaggio femminile iconico, emancipato e indipendente che capovolge tutti i canoni dell’aristocrazia industriale nordica di provenienza. Non la classica moglie di rappresentanza del “bauscia”, ma una donna che si prende la libertà di innamorarsi e manifestare apertamente la sua passione per Gennarino Carunchio, un comunista ruvido e senza cultura, distante anni luce dalla sua classe sociale. La narrazione politica e ideologica del periodo degli scontri di piazza tra operai e “padroni”, assume nella cinematografia di Lina Wertmüller i colori della passione e del sentimento. L’impalcatura ideologica che imponeva tacitamente una distanza intellettuale tra ceti sociali diversi, viene completamente dissacrata con accenti grotteschi, paradossali e perfino erotici. Il testo e il sottotesto delle opere di quegli anni sono presaghe e intrise del monito anarchico divenuto lo slogan urlato dai manifestanti del Sessantotto: “Una risata vi seppellirà”.
I personaggi di Wermüller sono così forti che ricordiamo più facilmente i loro nomi rispetto ai titoli dei film in cui appaiono, anche perché questi titoli sono incredibilmente lunghi. I titoli rappresentano infatti un vero e proprio preludio della storia e suggeriscono un taglio ironico sulle vicende: come ad esempio Film d’amore e d’anarchia – Ovvero “stamattina alla dieci in via dei Fiori nella nota casa di tolleranza, del 1973; oppure Fatto di sangue tra due uomini per causa di una vedova. Si sospettano moventi politici, del 1978. In quest’ultimo, Sofia Loren interpreta un’avvenente e forastica vedova dell’entroterra siciliano, della quale si innamorano perdutamente due uomini diversi: un Marcello Mastroianni nei panni di un ricco feudatario di ritorno nella terra natia e un Giancarlo Giannini nel ruolo dell’immigrato arricchito di ritorno dalle Americhe. Titina Paternò è una vedova matura ancora avvenente che dopo l’uccisione dell’amato marito non vuole più nessuno accanto. Ha lo sguardo profondo e magnetico di un’eretica e il carisma di una ribelle. La sua emancipazione e indipendenza seducono e spaventano. È preda ambita dai maschi dominatori che pretendono di “addomesticarla” per assoggettarla alle regole imperanti della società. La letteratura è ricca di personaggi femminili ribelli e controcorrente, e nella Titina Paternò non si fatica a riconoscere i tratti della Lupa di Verga, ma il merito di Wertmüller è di averci restituito un’interpretazione positiva e vincente di donne che sono state sistematicamente relegate all’appendice delle eccezioni alla regola.
Wertmüller non si interessava soltanto a personaggi alternativi, era attratta da qualsiasi storia che mostrasse possibilità esistenziali alternative a quelle dominanti e imposte dal senso comune. E questa sua intenzione emerge già dal suo primo lungometraggio: I basilischi. Uscito nel 1963, questo film rappresentò la scoperta delle sue radici lucane, da parte di padre. L’idea del film nacque durante un viaggio in Puglia in compagnia del critico cinematografico e sceneggiatore Tullio Kezich. Partirono insieme da Roma per andare a trovare Francesco Rosi sul set di Salvatore Giuliano. Durante il tragitto, Lina volle passare da Palazzo San Gervasio, il paese natale del padre, in provincia di Potenza, per incontrare i suoi parenti.
Non c’era mai stata prima e la vita del Paese che proseguiva lenta come in un tempo sospeso, lontano dal rumore e dai ritmi frenetici della città, tra indolenza e attesa provvidenziale, le fece avere un’illuminazione: bisognava portare sul grande schermo quella fotografia sociale, quel luogo racchiudeva una storia che andava raccontata. Così I basilischi diventò una sceneggiatura scritta in una settimana, e subito dopo, Wertmüller cominciò a cercare il modo di realizzarla, come per soddisfare una necessità impellente. Di soldi ne sarebbero serviti molti di più ma Wertmüller riuscì a girare il film con un budget di 34 milioni di vecchie lire: una parte della troupe era la stessa con la quale aveva lavorato alla produzione di 8½ e il resto del cast era composto da amici e conoscenti. Le musiche, però, furono scritte da Ennio Morricone.
Girato interamente nella Murgia pugliese e nel comune di origine (in provincia di Potenza), I basilischi diventa l’istantanea della vita nel paesino del Sud negli anni Sessanta. Il mondo fuori dal confine dell’antico Regno delle due Sicilie stava cambiando, ma il Sud rimaneva come in attesa di un Godot che non sarebbe mai arrivato. L’amore continuava a essere condizionato dalle logiche di mantenimento della casta sociale, il profumo dell’America, terra d’immigrazione dei propri avi, faceva capolino solo attraverso i primi vinili di jazz che qualche parente emigrato spediva al paese. Qualcuno riusciva pure a salire sulla corriera che portava nella città eterna, sparendo per un pezzo dalla circolazione e alimentando una fatua mitologia sulla fortuna e il successo trovato nella grande città. Ma poi, misteriosamente ritornava, confermando il senso di rassegnazione che pervadeva il Sud. Il film fu presentato per la prima volta al Festival di Locarno, dove vinse La Vela d’Argento. In quella stessa Svizzera che la regista porta con sé nel cognome aristocratico, ereditato dagli avi paterni, che prima di trasferirsi in Meridione vivevano tra le Alpi.
Nel 2020 Wertmüller, a 92 anni, ha preso l’Oscar alla carriera, ma già nel 1977 aveva sfiorato l’ambito riconoscimento ricevendo ben quattro nomination agli Oscar per Pasqualino Settebellezze, interpretato da un grande Giancarlo Giannini. È stata la prima regista a essere candidata agli Oscar, anche se alla fine i possibili premi durante la serata sfumarono. Le nomination le vennero strappate da Rocky di John G. Avildsen e da Quinto potere di Sidney Lumet. Lina Wertmüller, senza battere ciglio, si alzò e salutò l’Academy con un gesto significativo, accompagnato da un incerto inglese, che però fu compreso ugualmente da tutti. La notte stessa prese un volo per raggiungere San Francisco e iniziare a lavorare al suo prossimo film.
Pasqualino Settebellezze fu un clamoroso successo oltreoceano e a Wertmüller venne proposto di seguire la cattedra di cinema alla prestigiosa Università di Berkeley. La cosa divenne oggetto del cinismo del giovane Nanni Moretti – che contestava il cinema di cui Wertmüller e Monicelli in prima linea erano esponenti – che nel suo primo lungometraggio d’esordio, Io sono un autarchico, non mancò di vezzeggiare il successo americano della regista con una battuta caustica affidata al suo personaggio principale interpretato da se stesso. Una sorta di omaggio e dileggio alla regista che era diventa portavoce del cinema italiano negli Stati Uniti, a cui però Wetmüller pare abbia risposto simbolicamente replicando il saluto che aveva dedicato all’Academy.