Entro il 2020, secondo l’Oms, la depressione sarà la malattia cronica più diffusa al mondo. Vertigini, solitudine e incalzante senso di frustrazione sono spesso i comuni denominatori di quella che viene definita depressione clinica. Causata dalla mancanza di endorfine o dall’accumulo di stress, viene frequentemente trattata come un fenomeno esclusivamente chimico, e sedata con pillole di ogni genere. Ci si ammala nelle scuole e nelle fabbriche, dove la socialità è in costante diminuzione e dove la malattia viene descritta come conseguenza di una fragilità latente nell’individuo, colpevolizzato e ridotto a una sorta di strumento meccanico, senza diritto di “incepparsi”.
L’economia capitalista trae profitto dalla nostra paura di sbagliare e di soffrire, vendendoci presunte certezze in pillole per stabilizzare l’umore. Questa pandemia di angoscia e depressione non può essere efficacemente né compresa né curata se venduta come problema personale, da trattare come un imbarazzante disturbo della pelle o un’alitosi particolarmente pesante. È necessario reclamare il proprio diritto a soffrire, a non essere sempre performanti, rifiutando la visione di sé come macchina produttiva a tutti i costi.
Se ci sono casi in cui l’utilizzo di farmaci è necessario, in altri una soluzione al malessere potrebbe essere trovata anche attraverso il filtro dell’arte. Trattare il dolore e la sofferenza significa utilizzare la cultura come strumento di intervento e conoscenza il cui fine ultimo è accettare e successivamente decidere di modificare la realtà. “Amare è essere impegnati, è lavorare, è avere interessi, è creare,” sosteneva la regista Lina Wertmüller. Anche io ho provato ad affidarmi al potere catartico dell’arte, stilando un elenco alla Nick Hornby su cinematografia e dolore.
Amici Miei, Mario Monicelli, 1975
Amici Miei, capolavoro di Mario Monicelli e Pietro Germi mescola amarezza e umorismo crudo tipicamente fiorentino, una risata liberatoria che può redimere da una vita di miseria e difficoltà. Nonostante a essere diventati simboli di Amici Miei siano la supercazzola e gli schiaffi alla stazione, si tratta in realtà, come Monicelli amava ricordare, soprattutto di un film sulla morte e sulla paura di invecchiare di cinque amici. Smascherare le contraddizioni dell’allegria obbligatoria, dove chi devia e mostra sofferenza merita di essere sedato o eliminato dalla pubblica considerazione significa prefigurare la possibilità di un futuro diverso, dove potrebbe non essere necessario essere per forza un sorridente “qualcuno”. “Ma poi, è proprio obbligatorio essere qualcuno?” domanda retorico Ugo Tognazzi in risposta all’accusa della moglie del suo amico Perozzi, appena deceduto, di non essere stato nessuno in vita. Reagisce in questo modo al dolore della perdita, dopo averla accettata, con la consapevolezza e l’irriverenza di una risata liberatoria. Non è chiaro se la vita vada presa come un percorso di carri funebri o come un’eterna burla, ma è esplicita la risposta al dolore di Guido Necchi, Giorgio Perozzi, Rambaldo Melandri, Raffaello Mascetti e Alfeo Sassaroli: stringersi agli amici, planando con leggerezza sulle storture di ogni giorno, facendo del senso dell’umorismo un salvagente e un obiettivo da perseguire.
Se mi lasci ti cancello, Michel Gondry, 2004
In Eternal Sunshine of the Spotless Mind, in italiano Se mi lasci ti cancello, Michel Gondry dipinge la nostra tendenza, esasperata al parossismo, a respingere le sensazioni spiacevoli senza affrontarle, in un mondo in cui è possibile cancellare i ricordi con un’operazione, lasciando la nostra mente candida, priva di rimpianti. È la nostalgia, in questo contesto, il predatore da cui fuggire e di cui possiamo solo dipingerci vittime, dimenticando cosa possiamo imparare dall’esperienza e correndo verso gratificazioni immediate, che ci rassicurano nel loro essere effimere e facilmente sostituibili. Si può affermare che la demonizzazione delle fasi discendenti delle relazioni e della possibilità di soffrire per amore ci porta a desiderare una vita asettica, dove si perde l’occasione catartica che offrono le delusioni, lo smarrimento, i momenti di tristezza profonda. “Che spreco passare tanto tempo con una persona solo per scoprire che è un’estranea,” sussurra il protagonista, raccontando i suoi fallimenti e la sua solitudine, che vorrebbe dimenticare ma che non riesce a lasciare andare. La portata rivoluzionaria dell’accettazione del dolore emerge con chiarezza nell’epilogo del film, quando Clementine e Joel, consapevoli che la loro storia è destinata a finire fra lacrime e rabbia, decidono comunque di riprovarci, di affrontare l’amore, il disamore e la parabola discendente dei sentimenti.
Little Miss Sunshine, Jonathan Dayton e Valerie Faris, 2006
In Little Miss Sunshine viene trattato il delicato tema di come gestire il fallimento e la tristezza in una società votata al culto dell’eccellenza e della produttività attraverso le vicende di una famiglia scapestrata in viaggio verso un concorso di bellezza per bambine. La parabola di Richard Hoover, il padre, impegnato a inseguire meticolosamente l’ossessione della (secondo lui) necessaria combinazione di volontà e successo lascia sorgere dubbi e speranze sulla necessità di mostrarsi per quello che si è, rifiutando di lasciare manipolare i propri limiti personali e gli stati d’animo dagli standard promossi dalla logica di mercato. Questo film ha il grande merito di fornire un suggerimento imperdibile su come sia possibile non sentirsi dei “buoni a nulla” in una società le cui regole sono dettate da una serrata logica della performance, dove il successo è promesso a tutti, ma i mezzi per raggiungerlo vengono forniti a una ristretta élite, che li possiede per diritto di nascita. Accettare il dolore, il fallimento e il mancato conseguimento delle imposizioni esterne e il farne tesoro sono le armi che possiamo (e dobbiamo) imparare ad autofornirci per affrontare le storture della vita, le complicazioni e le difficoltà future. Come racconta lo zio Frank al giovane Dwayne, vittima di una cocente e amara delusione, senza anni di dolore e senso di inadeguatezza, forse Marcel Proust non avrebbe mai scritto la Recherche.
Non essere cattivo, Claudio Caligari, 2015
Non essere cattivo, terzo e ultimo capolavoro di Claudio Caligari, comporta ondate di dolore stratificato, per la consapevolezza che il regista di Amore Tossico e L’odore della notte è venuto a mancare al culmine della sua pienezza artistica, per lo strazio della periferia magistralmente descritto e per il senso di vuoto trasmesso con una precisione da diario personale. Raccontare la droga senza effettuare l’ennesima malriuscita operazione Trainspotting è solo uno dei meriti di questo film, istantanea di come si taglia il cordone ombelicale di un’amicizia che dura da una vita di fronte a un bivio senza ritorno. Cesare e Vittorio trascorrono le loro giornate passeggiando per le strade di Ostia, dove spacciano e accarezzano chiodi arrugginiti e ricordi dolorosi, finché uno dei due non sceglie di salvarsi dal baratro. Non essere cattivo, parabola discendente di un rapporto di fratellanza, incrinato dall’eroina, dalla malattia e dalle diverse scelte di vita, si apre con quella che sembra una scena giocosa, rasserenante: due amici con un cono gelato. Il punto è che, nell’inquadratura dopo, uno dei due lo fa volare per terra con un pugno, un gesto profetico che riassume il senso ultimo del film: l’importanza della scelta personale, spesso tanto difficile da essere lancinante, per la redenzione dal dolore. Come accade in Amore Tossico, ironia e senso di perdita si intrecciano in Non essere cattivo, dove i dialoghi sono preamboli a capitoli nuovi, sempre più dolorosi. “Secondo me sbagli a portartelo dietro,” dichiara perentoria la compagna di Vittorio, annunciando l’inizio della fine per quello dei due che non vuole intraprendere “la retta via”. Il titolo è una sorta di undicesimo comandamento, l’invito a tendere al bene, a rispettare una sorta di giuramento di Ippocrate traslato al quotidiano: non nuocere al prossimo.
Manchester by the Sea, Kenneth Lonergan, 2016
In una Boston cupa e gelida, la sofferenza è il motore che ogni mattina trascina Lee Chandler fuori dal letto. Le giornate di Lee, custode tuttofare in una palazzina altoborghese, sono fatte di proposte sessuali non accettate, elementi di idraulica e giardinaggio, e di un tale richiamo all’autodistruzione da non consentirgli nemmeno di uccidersi, ma solo di umiliarsi e autopunirsi con il vuoto, con il più totale deserto degli affetti e con una vita di solitaria mediocrità. Quando riceve la notizia che suo fratello Joe, gravemente malato di cuore, ha avuto un infarto, lo scontroso Lee si vede costretto a tornare a Manchester, sua città natale e gelido involucro delle sue tragedie.
Arrivato solo dopo la morte del fratello, Lee scopre di essere stato nominato tutore del nipote, come a rimarcare il fatto che è soprattutto quando non ce lo meritiamo e quando siamo certi di arrecare solo delusioni che le persone che ci amano davvero decidono di fidarsi di noi e di salvarci da noi stessi. La vita è più forte della morte, recita un vecchio adagio popolare, ma la morte è inevitabile, suggerisce l’ultima fatica di Kenneth Lonergan. Il dolore è intrecciato all’ilarità, situazioni sguaiate, stridenti, fastidiose ma esilaranti, con il grottesco come cardine necessario. Manchester by the Sea mette in scena tutte le brutture della vita reale, le emozioni crude e violente, le meschinità, le lacrime e l’iperrealismo, affermando che il segreto per soffrire senza scivolare nel melodramma è, banalmente, l’ironia.