Mentre il mondo si sfrega le mani davanti a Stranger Things, vorrebbe picchiare gli sceneggiatori di Game of Thrones, si dispera per il tracollo di Black Mirror ed è pronto a chiamare i figli con il nome di una città – anche se Catanzaro non è la stessa cosa di Rio – c’è una serie tv tedesca firmata Netflix che osserva quasi in disparte le faide tra concorrenti più famosi, conscia di non godere diquell’hype planetario ma di essere probabilmente superiore in tutto. Prendete Les Revenants, Twin Peaks, The Leftovers, la storyline di Faraday in Lost e la Bibbia, mescolate e otterrete Dark, la miglior serie tv in circolazione.
Creata da Baran bo Odar e Jantje Friese, Dark è un puzzle perfetto. Ambientata nella poco ridente cittadina di Winden, dove una centrale nucleare e la Foresta Nera creano un’ambientazione oscura, la serie parte da due fattori scatenanti: un suicidio e la scomparsa di un ragazzo. Da qui ha inizio una fitta rete di misteri, conditi da un costante sentimento di inquietudine. Le atmosfere si fanno più tetre all’insorgere di ogni nuovo elemento della storia, con un’originalità difficilmente riscontrabile in altri lidi.
La particolarità della serie sta infatti nell’eludere le domande basilari del genere umano, come chi siamo, dove siamo, per concentrarsi su un altro interrogativo: quando siamo. I piani temporali di Dark si distinguono infatti dalle classiche trame legate ai viaggi nel tempo grazie all’espediente del mondo di mezzo, quello che sta tra scienza e fantascienza, tra Albert Einstein e Philip K. Dick, e che ha più contatti con filosofia e religione che con una DeLorean volante.
Durante la fase promozionale della prima stagione, nel dicembre del 2017, l’impressione poteva essere quella di un prodotto scopiazzato. In un’epoca in cui tutto viene catalogato con estrema disinvoltura, vedere un trailer con dei ragazzi che corrono nel bosco, in un’atmosfera fantascientifica e con palesi rimandi agli anni Ottanta, ha portato qualche scettico a etichettare Dark come un clone di Stranger Things, mentre in realtà sono due serie nemmeno lontanamente comparabili. In Dark non c’è traccia di ironia e le tematiche sono più adulte e ciniche. Non basta una canzone dei Tear for Fears o un’iconica mantellina gialla per relegare una serie a minestrone in stile eighties, soprattutto quando i riferimenti sono così variegati.
Dark prende in prestito concetti nietzschiani e li inserisce in un contesto malato dove i personaggi – tantissimi, all’inizio si fatica a ricordare i nomi e le parentele – sembrano voler fuggire all’ineluttabile, senza mai riuscirci. È dunque facile ricollegarsi all’Eterno Ritorno, alla frase “Il tempo è un cerchio piatto” che già Rust Cohle-Matthew McConaughey articolava nella prima stagione di True Detective. Quella di Dark non è però una fantascienza fine a se stessa: a innalzare il livello dell’opera sono i sentimenti, le emozioni narrate senza cadere nella retorica, i legami tra i personaggi che combattono contro il miglior villain di sempre: il tempo.
Un padre disperato che va alla ricerca del figlio nel tempo, chiedendosi quando cercarlo, e non dove cercarlo, è l’immagine perfetta per descrivere questa serie tv. Allo stesso tempo, è affascinante assistere agli incontri tra gli stessi personaggi in diverse epoche, e qui risalta in particolar modo il sorprendente lavoro in fase di casting: oltre alla bravura dei singoli attori, a colpire è la somiglianza impressionante tra un personaggio adulto, la sua versione giovane e quella anziana. A volte capita di chiedersi se sia lo stesso attore con parecchio trucco addosso, ma sono persone diverse. Sono proprio i dettagli a far la differenza in Dark. Nulla è lasciato al caso: ogni dialogo o fotogramma ha una coerenza intrinseca che si trascina dietro per tutte le puntate successive; tutto è al suo posto, senza incongruenze o buchi di trama. Mentre molte serie tv vanno a braccio, con gli autori che realizzano una prima stagione e poi costruiscono le altre in base agli ascolti, ai rinnovi e agli umori dei fan, Dark, trilogia con l’ultimo capitolo – già in fase di produzione – in uscita nel 2020, è invece un progetto già definito dall’inizio.
Quando circa un mese fa Netflix ha fatto uscire la seconda stagione, la sensazione è stata quella di assistere a un prodotto coeso, la continuazione naturale della prima parte senza uno stacco, una discontinuità, in quanto tasselli di un unico affresco.
Ci sono serie la cui qualità, dopo una prima stagione ottima, è calata inesorabilmente, nel tentativo di spremere il prodotto fino all’osso, come nel caso di The Walking Dead. Altre invece sono migliorate stagione dopo stagione, come Breaking Bad – a dire il vero una meraviglia già dall’inizio – e altre ancora non sono mai decollate, tanto da arrivare a subire l’onta della cancellazione – è il caso di FlashForward. Dark è invece un prodotto compatto, la cui qualità non subisce oscillazioni di alcun tipo. C’è da dire che gli ascolti sono e resteranno ignoti. Netflix, infatti, salvo rare eccezioni, non comunica i dati d’ascolto sulla sua piattaforma, quindi il successo di una serie viene misurato attraverso altri parametri, come il giudizio degli spettatori e della critica o le recensioni positive in ogni sito specializzato.
Il punto di partenza è però lampante: Dark non è una serie realizzata per cercare il successo e i grandi numeri. Punta più sulla qualità che sulla quantità. Perché altrimenti, secondo la logica del mercato, dovremmo considerare la terza stagione di Twin Peaks un’opera infima – mentre in realtà è un capolavoro, anche se per pochi. Proprio seguendo questa scia Dark non avrà mai i numeri delle serie tv più commerciali, e non mira nemmeno a ottenerli . È già una serie già di culto, per cui conta di più l’apprezzamento della “nicchia” che la segue, piuttosto che il numero di spettatori appassionati. Sappiamo che nessuno la guarda per un guilty pleasure o “solo per vedere dove va a parare” perché tutti gli indici di gradimento dei principali siti la premiano. Su Rotten Tomatoes, Dark ha una percentuale di apprezzamento del 94%, su Imdb arriva al punteggio di 8,7 su 10, mentre risulta su Tvtime tra le serie più seguite in binge watching. Probabilmente l’unico modo per guardarla.
Dark rientra infatti tra le serie tv che non possono essere seguite in modo distratto, mentre si cucina o si cazzeggia su Facebook, e nemmeno guardando “una puntata ogni tanto”, dilantandone nel tempo la visione. La complessità della trama non lo permette: già è cervellotica se seguita con attenzione, figuriamoci in modo superficiale. Vederla in binge watching è anche un modo per esaltare la cura di tutti i dettagli e gli aspetti tecnici, che sono di altissimo livello e rientrano nel perfezionismo voluto e ottenuto dal duo bo Odar-Friese. La regia è impeccabile, la colonna sonora scandisce con cura i passaggi salienti senza invadere la scena ma impreziosendola, la sigla di Apparat è perfetta, colpi di scena e cliffhanger si susseguono senza tentare di stupire gratuitamente il pubblico, mentre la fotografia ha il dono di seguire le diverse epoche differenziandole tra loro, in modo tale da lasciare che sia l’immagine a indicare un salto temporale, e non uno spiegone di basso livello. Ma è soprattutto la sceneggiatura a rendere Dark un’opera stratificata, dai registri mutevoli e mai bidimensionale. L’intuizione più geniale è quella di rendere il caos narrativo un punto di forza. La sua visione labirintica sarebbe piaciuta a Borges, così come il continuo chiedersi “In che anno siamo?” renderebbe fiero Lynch. L’idea di un futuro che influenza il passato è il capovolgimento della clessidra, uno scombussolamento temporale in cui non si individuano un inizio e una fine, perché forse sono la stessa cosa.
È sempre sottile il confine tra opera ambiziosa e opera pretenziosa, ma Dark rientra indiscutibilmente nella prima categoria. Non sono una forzatura nemmeno i rimandi alla Bibbia, i nomi Noah e Adam, la frase Sic Mundus Creatus Est che riemerge in ogni puntata, come un ammonimento a non considerarla solamente una serie tv, ma un contenitore di microuniversi che confluiscono in un’unica materia. Si parla della particella di Dio, dell’energia nucleare, e la dicotomia scienza-religione assume i tratti di una sfida senza giudizio. In Dark infatti non esistono il male assoluto e il bene assoluto, le fazioni sono intercambiabili e hanno sfumature che esulano dalla banalità dei buoni che combattono contro i cattivi. Non siamo in un film della Marvel, e si vede.
Ovviamente, per un giudizio definitivo, e per consacrarla come una delle serie tv migliori di sempre, è necessario assistere al finale. Dalla terza e ultima stagione, prevista per l’anno prossimo, non si aspettano risposte a ogni domanda ma una coerenza narrativa che possa sbrigliare il mindfuck generato in queste due stagioni. È una responsabilità enorme, perché per ora a Dark non manca nulla. Solo il finale, appunto, ed è quasi un peccato che questa serie stia per arrivare all’atto conclusivo. Vorremmo che non finisse mai, rifacendosi alle tematiche presenti sui cicli che si rinnovano, sul tempo che si aggroviglia e riavvolge su se stesso, ripetendosi in eterno. Ma ogni cosa ha una fine, anche una serie tv che lascia intendere il contrario.