Il 2025 si è aperto con l’ambita cerimonia dei Golden Globes, dove nella sezione dedicata alle serie hanno vinto prodotti che negli ultimi anni erano stati capaci di riportare in auge la produzione seriale di qualità, come Hacks, Shogun, The Bear e Baby Reindeer. Tra rivisitazioni di classici, nuove stagioni di serie molto attese e prodotti inediti per il panorama italiano, ecco cosa abbiamo guardato questo mese.
M – Il figlio del secolo (Sky)
L’uscita di una serie televisiva abbondantemente preannunciata e attesa come quella tratta dal romanzo di Antonio Scurati, già vincitore dello Strega, si incasella in un processo per cui tutte le attenzioni si focalizzano ai due poli opposti. In questo caso, con M – Il figlio del secolo abbiamo da un lato chi grida al capolavoro, senza se e senza ma, e con il compito di riportare in auge l’antifascismo o un semplice risveglio di coscienze – come se fossero le serie televisive ad avere questo compito, e non il mondo reale – e dall’altro chi ne ha approfittato per sfoggiare la classica retorica del fascismo come fenomeno morto, sepolto e soprattutto risolto, al punto da ridicolizzare il protagonista Luca Marinelli che ha osato esternare un suo disagio etico nel vestire i panni di Benito Mussolini.
Da un punto di vista “seriale”, se così possiamo dire, il caso di M ha ben poco a che vedere con le polemiche che lo hanno investito. Si tratta infatti di un precedente piuttosto inedito per i prodotti italiani, che già da tempo avevano messo in scena la storia di Mussolini ma mai con uno stile e un investimento in termini tecnici così ambiziosi. M, infatti, si configura come una sorta di iper-rappresentazione della storia del fascismo, una rivisitazione quasi fumettistica e steampunk dei fatti che vanno dal 1919 al 1925. Oltre alla colonna sonora composta da Tom Rowlands, metà dei Chemical Brothers, che conferisce un’atmosfera incalzante e adrenalinica al racconto, tutto in M si muove vorticosamente come nelle rappresentazioni futuriste. Luca Marinelli, fisicamente stravolto per il ruolo e ben allenato all’accento romagnolo, nonché a un modo di parlare che abbiamo imparato a conoscere con i filmati e gli audio dell’epoca, restituisce un’immagine grottesca, esagerata, ridicola, ma anche molto intima e ammiccante del duce. M di Joe Wright ci porta così tanto dentro ai pensieri di Mussolini che la rottura della quarta parete è costante. Dato tutto ciò per assodato, è naturale che, come per ogni cosa che guardiamo che abbia una cifra estetica molto forte e precisa, ci si possa entusiasmare o infastidire, a seconda dei propri gusti.
Bad Sisters – seconda stagione (Apple TV)
Se, come scriveva Tolstoj in uno degli incipit più conosciuti di sempre, tutte le famiglie felici si somigliano mentre ogni famiglia infelice è infelice a modo suo, la serialità ha spesso finito per omologare anche l’infelicità, appiattendosi su cliché narrativi. Bad Sisters, adattamento della serie belga The Out-Laws, aveva già sovvertito questa tendenza fin dai primi minuti della prima stagione, confermandosi anche con la seconda una delle serie più interessanti del panorama attuale, nonché un esempio delle ottime produzioni, seppur sottovalutate, che da anni riesce a creare Apple TV. La scrittura brillante e le interpretazioni impeccabili conferiscono alla serie quella capacità unica di esplorare temi complessi, come la lealtà familiare, il lutto, la genitorialità, la colpa, senza mai scivolare nella banalità, ma anche mescolando con disinvoltura humor nero e dramma familiare, per quanto nei nuovi episodi quest’ultimo prevalga in maniera più incisiva sul primo.
Uno degli elementi di spicco di questa stagione è la capacità di approfondire ulteriormente la psicologia delle cinque sorelle Garvey, regalando momenti di introspezione che aggiungono spessore alla narrazione. Le loro vicende sono rese strane, malinconiche e divertenti in un modo così umano che riesce a colmare anche i piccoli aspetti più problematici della serie – un intreccio eccessivo, alcuni snodi narrativi aperti e poi dimenticati. Nonostante la prima stagione sembrasse puntare a un lieto fine, infatti, nulla resta a lungo felice per le sorelle Garvey, che questa volta si trovano a dover fare i conti anche con le conseguenze dell’arrivo di un bugiardo manipolatore, mentre cercano ancora di nascondere le tracce di un omicidio. Nonostante una seconda stagione riuscita, però, Bad Sisters sembra arrivata a un bivio: chiudere felicemente la serie senza un’ulteriore stagione o cedere all’imperativo di sfruttare quanto più possibile le storie di successo. La speranza è che vinca la prima opzione.
Il conte di Montecristo (RaiPlay)
Quando tra il 1844 e il 1846 Il conte di Montecristo venne pubblicato a puntate su Le Journal des Débats, fu un successo immediato. Secondo molti critici letterari, la vendetta da cui è mosso il suo protagonista Edmond Dantès era la stessa che Alexandre Dumas cercava all’interno della società parigina, dove aveva subito discriminazioni e attacchi personali a causa delle origini dominicane della nonna. Da allora, il romanzo ha influenzato ogni arte possibile, dal teatro ai videogiochi, arrivando a totalizzare circa quattordici adattamenti cinematografici e televisivi. L’ultima serie dedicata al capolavoro di Dumas, diretta da Bill August e scritta a quattro mani da Greg Latter e Sandro Petraglia, riporta in vita il classico della letteratura con un approccio moderno e una regia che mescola eleganza e tensione narrativa.
Ne Il conte di Montecristo – risultato di una produzione internazionale che coinvolge anche l’Italia –, la storia di Edmond Dantès, il giovane marinaio ingiustamente imprigionato e assetato di vendetta, sfrutta la struttura seriale per andare oltre il percorso di riscatto del protagonista, scavando per motivarne e farne comprendere ogni mossa. Se da un lato la serie riesce a mantenere intatta la potenza della storia originale, dall’altro introduce alcune libertà narrative che, seppur audaci e pensate per arricchire il contesto, non sempre risultano necessarie. Il conte di Montecristo si fa così omaggio a un romanzo complesso e articolato, in tutta la sua epicità, arricchendo il viaggio di Dantès nel suo percorso di vendetta nei confronti degli uomini che gli hanno rubato venti anni di vita e il suo unico vero amore.
Cent’anni di solitudine (Netflix)
Macondo non è un luogo, è uno stato mentale. Per chi ha amato l’indimenticabile romanzo di Gabriel García Márquez, l’adattamento in formato seriale di Cent’anni di solitudine riporta sullo schermo tutta la poesia, il realismo magico e il portato emotivo che hanno reso questo capolavoro uno dei capisaldi letterari del Novecento. Ambientata nell’immaginario villaggio di Macondo, Cent’anni di solitudine racconta le vicende di sette generazioni dei Buendía, tra amori, ossessioni, tragedie e momenti sospesi di puro incanto. I Buendía non sono solo una famiglia: sono la metafora di tutto ciò che è umano, dal caos dell’amore, fino alle maledizioni tramandate come vecchi mobili ormai inutili.
La serie – visivamente di grande impatto – non è solo una trasposizione, ma un viaggio in un mondo in cui il tempo non è lineare, i fantasmi fanno parte del quotidiano, e la magia popola ogni aspetto dell’esistenza, mescolandosi in maniera dolce-amara all’inevitabilità della vita. Girata in Colombia, con un cast interamente latinoamericano e l’intento dichiarato di mantenere vivo lo spirito del romanzo, per evitare operazioni di appropriazione culturale, la produzione si è impegnata per dar vita a un vero e proprio tributo della cultura sudamericana, rispettando il più possibile l’eredità lasciataci da García Márquez.
Per chi ha amato il libro, capace di mescolare quotidiano e surreale, la grandiosità e la fragilità, questo prodotto – anche se ovviamente offre un tipo di esperienza diversa – risulta tutt’altro che deludente, con immagini mozzafiato e personaggi indimenticabili (grazie al cast azzeccatissimo di grandi attori). Per chi invece non l’ha letto è un ottimo modo per scoprire una delle vicende più affascinanti del novecento, che sicuramente farà venire la voglia di iniziare a leggere anche il romanzo, una storia che ci parla di umanità, ciclicità della vita e del tempo, ma anche di emozioni universali che attraversano ogni epoca.
Scissione 2 (Apple TV)
A voler trovare un comun denominatore ai cambiamenti sociali dell’ultimo anno, non si fatica a evidenziare lo scarto significativo che il valore del lavoro sta assumendo per sempre più persone, dovuto anche alla messa in discussione della cultura del sacrificio su cui si tuttora si fonda e il peso dell’occupazione nel definire la nostra identità e il nostro valore. Sembra quindi che la seconda stagione di Scissione, la serie di Apple TV creata da Dan Erickson e diretta da Ben Stiller e Aoife McArdle su un gruppo di dipendenti che scelgono di dividere chirurgicamente i propri ricordi personali da quelli professionali, esca al momento giusto, dopo una produzione lunga e travagliata, anche a causa degli scioperi dell’industry. I nuovi episodi confermano la natura sperimentale e unica del progetto, riportandoci dritti dentro gli uffici asfissianti e asettici della Lumon Industries.
Finora la serie, vincitrice di due Emmy nel 2022 e diretta Ben Stiller, si riconferma tra le più originali della storia recente: un misto tra thriller, sci-fi e office romance, con una punta di ironia e surrealismo. La nuova stagione introduce infatti alcuni personaggi intriganti, tra cui una misteriosa bambina-capufficio, che contribuiscono a dare un elemento di irrealtà e remota comicità.
Tra vicende che coinvolgono “interni” ed “esterni”, continua l’esplorazione delle complesse dinamiche tra vita lavorativa e personale, quelle che rendono la serie molto più vicina al quotidiano di quanto possa sembrare. Ma ciò che rende efficace Scissione va oltre la chiara metafora dell’equilibrio vita-lavoro e della “company culture” portata agli estremi.
Nonostante il ritmo non propriamente serrato, infatti, la serie sa regalare colpi di scena in momenti inaspettati. La narrazione, inoltre, ha la rara capacità di intrecciare suspense e riflessioni profonde sul sé e sulla memoria.