Mi piace pensare a Charlie Kaufman che si sveglia alla mattina e ha una sua routine fatta di piccoli gesti insignificanti che lui reputa importantissimi. Mi immagino che la sua casa non sia affatto come quella di uno sceneggiatore di Hollywood, perché non se la può permettere, non più. Charlie si alza e va in macchina al suo nuovo lavoro: scrivere come terzo sceneggiatore un film d’azione distopico di Doug Liman (il regista che ha iniziato la saga di Jason Bourne) tratto dal libro di Patrick Ness “Chaos Walking”, che Charlie, per primo, ha adattato. Quando Liman è entrato nel progetto ha voluto affiancare un altro sceneggiatore a Kaufman perché, alcune malelingue dicono, i producer non si fidavano fino in fondo. Mi immagino Charlie in una writers’ room (la stanza dove gli sceneggiatori si riuniscono e “creano”), lui che ha sempre scritto da solo, lui sì un vero “creatore”. Finita la giornata rientra a casa, un po’ più pelato, un po’ più sconfitto e quello che mi chiedo è se Charlie, prima di dormire, chiuda gli occhi e pensi non a quello che poteva essere, ma a quello che avrebbe meritato di essere. Ci pensi Charlie? Ti ricordi di quando tutti, a Hollywood, ti chiamavano genio?
La notizia è piccola e la uso solo come pretesto: Anomalisa è approdato su Netflix. Il film del 2015 in stop motion scritto e diretto da Charlie, in Italia è rimasto nelle sale pochissimo e le persone che lo hanno visto sono meno di quelle che venivano ai miei compleanni alle medie. E di amici, io, non ne ho mai avuti tanti. È quindi una buona occasione per vedere questo prezioso e struggente lavoro animato che è stato realizzato solo grazie a una campagna di crowdfounding su kickstarter e che, comunque, ha vinto il Gran Premio della giuria a Venezia, il Golden Globe ed è stato nominato agli Oscar. E da questa contraddizione in termini dovrebbe nascervi spontanea una domanda: com’è possibile che un film candidato all’Oscar e vincitore a Venezia, diretto da uno degli sceneggiatori più quotati di Hollywood, sia stato reso possibile solo grazie a una campagna di crowdfounding?
La risposta è tanto semplice, quanto orribile: nessuno vuole più Charlie Kaufman. E se n’è accorto anche lui. In un’intervista per l’uscita del film ha riflettuto su questo tema con molta onestà: “People want to be associated with things that they think are cool, and the business — the indie business, especially — is built on that. I wonder if it’s not cool or sexy to be in business with me. […] I feel like I fuckin blew it”. Ma cosa è successo? Com’è possibile essere arrivati a questo punto? Com’è possibile che lo sceneggiatore che tutti chiamavano genio, si ritrovi a fare l’elemosina per poter mettere in scena la sua visione? Nello stesso periodo in cui è uscito Anomalisa, Kaufman stava lavorando a una serie HBO ma, senza addurre particolari ragioni, la serie è stata sospesa, congelata. Solo dopo due anni d’inattività Kaufman è riuscito ad avere la possibilità di lavorare al progetto Chaos Walking. La gente però, andrà al cinema a vedere un film di Doug Liman, non di Charlie.
Ok, forse sto dando per scontate un po’ di cose, come ad esempio, chi sia Charlie Kaufman.
Charlie Kaufman è lo sceneggiatore del film d’amore più hipster, postato e commentato degli ultimi vent’anni: Eternal Sunshine of the Spotless Mind, in italiano Se mi lasci ti cancello (2004, Michel Gondry). L’idea di poter cancellare con una macchina l’esistenza della persona che ci ha lasciati è uscita dalla mente di Kaufman, suo è il modo più fantasioso e – allo stesso tempo “vero” – di raccontare la distruzione che nasce da un qualsiasi rapporto di coppia, la quotidiana agonia del non capirsi, del farsi male a vicenda senza volerlo, fino alla sofferenza dell’essere lasciati quando ancora, in fondo, si pensava di poter fare qualcosa, di poter avere una seconda possibilità. Sicuramente Gondry ci ha messo del suo rendendo il film visivamente stupendo e sicuramente Jim Carrey è perfetto, ma ogni singola parola detta da quei due, ogni singolo doloroso ricordo di Clementine e Joel, è uscito dalla penna di Kaufman.
Charlie Kaufman, che ha da poco compiuto 49 anni, è diventato famoso grazie alla sceneggiatura di Essere John Malkovich (Spike Jonze, 1999). Il film fu un successo di pubblico e soprattutto di critica. Non capitava tutti i giorni, vent’anni fa, di ritrovarsi in sala a vedere un film dove un aspirante marionettista, innamorato e non ricambiato da una donna d’affari, scova una piccola porta che gli permette di entrare nel cervello di John Malkovich (basta rileggere questa frase per chiedersi: eh?) e, acquisito il potere di comandarlo, non decide di vivere la vita di un attore famoso, ma di conquistare il cuore della donna che ama.
Proprio come in Se mi lasci ti cancello, dove il centro del film non era una macchina capace di cancellare i ricordi, ma la storia circolare di una coppia incapace di amarsi, anche in Essere John Malkovich il cuore del film non sta nella possibilità fantastica di poter entrare nella testa di un attore famoso, bensì nella storia di un sentimento non corrisposto e delle conseguenze a cui questo può spingere un uomo vile. Charlie non è uno scrittore di fantascienza, è uno scrittore che usa la fantasia per raccontare quello che tutti noi vediamo e per cui tutti noi soffriamo e gioiamo. Uno scrittore che, posto di fronte ad una fotografia del reale, è capace di disegnarci sopra un secondo strato, più lucido e colorato, che ci permette di capire meglio la fotografia stessa, che ci permette di emozionarci, come se in quella fotografia ci fossimo proprio noi.
Dopo Essere John Malkovich, Charlie ha scritto Human Nature (2001), sempre di Gondry, film meno riuscito dove la riflessione si concentra sugli istinti primordiali dell’uomo e su come la loro perdita l’abbia reso meno onesto, più codardo e infelice. Solo un anno dopo esce Il ladro di orchidee (2002, Spike Jonze), ricordato da tutti come il film dove Nicholas Cage interpreta due gemelli. Questo è il manifesto programmatico della poetica di Charlie Kaufman. Titolo originale: Adaptation. Mettendo in scena se stesso, Charlie ci mostra che incredibile sofferenza sia per lui trovare un’idea che sia originale, lontana da quella classica di cinema americano. Per farci capire quanto sarebbe facile per lui avere successo, si inventa di avere un gemello tonto e sempliciotto che, pur non essendo uno sceneggiatore, scrive un thriller che viene opzionato dagli Studios. Adaptation è meraviglioso. Fatevi un favore: una sera, al posto di vedervi una puntata di una serie a caso, guardatevelo su Netflix. Troverete una lucida riflessione su cosa significhi essere uno scrittore, tante piccole storie d’amore di persone un po’ tristi e sole, e un film che usa la sua stessa genesi come elemento della propria trama. Ci sono degli squarci di tenerezza che aprono il cuore in questo film e, nonostante si parli di fiori, ci si ritrova a sentire, a provare, ad essere mossi per questi strani personaggi. E tutto quello che succede nel film viene spiegato da un punto di vista di grammatica filmica dallo stesso Charlie. Ci sono tanti livelli di lettura nel film e ci si potrebbe perdere tra le fantasie di Charlie, i flashback darwiniani, eppure tutto è tenuto insieme dalla voce dolente di Nicholas Cage che ci mostra come Charlie viva una vita di indecisioni e fragilità. Forse a chi non frega niente del cinema questo film può non piacere ma, per quanto mi riguarda, io lo metto seduto accanto ad 8 ½ di Fellini, l’unico altro film che mostra in modo onesto il processo creativo.
Sempre nel 2002 esce Confessioni di una mente pericolosa, esordio alla regia di George Clooney, film sottovalutatissimo e splendida variazione sul tema spionistico. È poi il turno di Se mi lasci ti cancello, per cui Kaufman vince un Oscar per la sceneggiatura, come forse ho già detto. Da qui iniziano i problemi. Kaufman avrebbe dovuto scrivere una serie per FX, How and Why ma non si sa per quale motivo FX la mette on hold – la blocca, diremo – e la cosa si arena. Kaufman, allora, si concentra sul suo progetto da regista, il film più complesso di tutta la sua filmografia, Synecdoche, New York (2008). La prima volta che l’ho visto non ci ho capito niente. Philipp Seymour Hoffman interpreta un regista teatrale, chiaro alter ego di Kaufman, che cerca di mettere in piedi il suo spettacolo più complesso, uno spettacolo che racchiuda in sé tutta la vita di New York, o meglio, che ne sia la sua sineddoche, la parte per il tutto. La seconda volta che l’ho visto ho notato una bambina, la figlia di Hoffman che si ricorda del padre che la vestiva da fatina; i tatuaggi floreali che appassiscono sulla pelle della stessa figlia, ormai invecchiata; la donna che vive in una casa sempre in fiamme; l’uomo che, nella vita, non ha fatto altro che prendere appunti sull’esistenza del regista. La terza visione, poi, mi ha fatto capire che il gigantesco teatro di posa costruito per lo spettacolo teatrale non doveva contenere uno spettacolo, né New York, doveva contenere Charlie e la sua vita. La vita di un uomo che, ogni volta che appoggia un dito su un tasto, ogni volta che scrive una parola, ogni volta che esprime la sua arte lo fa alla ricerca di un modo di rappresentare la propria vita e di conseguenza la nostra. Il film incassa qualcosa come cinque milioni di dollari. Niente. Un completo fallimento. Piace a me e ad altre dieci persone.
Dopo Synecdoche diventa difficile per Charlie trovare qualcuno che investa su di lui, perché non vuole più rinunciare alla sua visione, al suo modo di scrivere. Vuole avere il controllo totale sulla sua opera. E così arriviamo a oggi e ad Anomalisa realizzato solo grazie ai nostri soldi e al film d’azione di Doug Liman.
Non ho una vera spiegazione per quello che sta succedendo a Charlie Kaufman. Quello che mi sono detto è che sono arrivate le serie TV e che queste, una puntata alla volta, hanno cambiato per sempre il panorama cinematografico americano e non solo. Si va così poco in sala che gli Studios ormai investono solo quando hanno delle certezze, dei ritorni che non siano esclusivamente economici. Largo ai franchise, come quello Marvel e Star Wars, largo ai film che sono semplici puntate di serie TV travestite da lungometraggi. In questo scenario Charlie non è quel che si dice una sicurezza. Anzi. E far scrivere una intera serie a lui implicherebbe un costo in fiducia che, credo, nessuno Studio si può o vuole permettere. Oggi il 90% dei film americani sono remake o sequel o prequel o spin off. Anche i film indie sono diventati una specie di saga formattizzata dello sfigato, del perdente. Una saga che non ha niente a che vedere con i personaggi di Kaufman. E quindi?
Quindi aspettiamo. Aspettiamo che al cinema finisca il tempo dei facili supereroi e degli indie tutti uguali, il tempo in cui la ricerca forsennata di contenuti delle nuove piattaforme incontri il cammino artistico di Charlie. Aspettiamo che qualcuno si accorga che uno dei migliori sceneggiatori del mondo sta seduto in panchina, le mani pronte sui tasti. Perché mi piace pensare che, nonostante tutto, nonostante le domande che Charlie si fa prima di dormire, nessuno gli toglierà mai la voglia di scrivere.