Più vado al cinema e guardo serie, più mi convinco che è il vomito la nuova ossessione del nostro presente. Se penso a quello che ho visto negli ultimi mesi, posso affermare con discreta approssimazione che l’interesse degli sceneggiatori per tutto ciò che accade tra stomaco e intestino è aumentato esponenzialmente. Nella seconda stagione di Euphoria, uscita circa un anno fa, per esempio, una delle protagoniste viene ripresa in primo piano mentre vomita con l’aplomb di Linda Blair svariati drink in una jacuzzi piena di gente. Ana de Armas, nel film Blonde, si rivolge addirittura alla macchina da presa strafatta di psicofarmaci per vomitare direttamente addosso a chi la sta guardando. Ancora, l’orgia di fluidi corporei che si consuma in Triangle of Saddness lo ha consacrato a film con più vomito dello scorso anno, e in Babylon, l’ultimo di Damien Chazelle, la scena dove l’aspirante attrice interpretata da Margot Robbie si ingozza di cibo fino a vomitarlo, viene tirata lunga, oltre il necessario.
Da un lato, mi sento di imputare l’attuale attenzione per il vomito a una più generale rivalutazione del disgusto – non solo del brutto in senso ampio, ma proprio della sua specifica componente ripugnante – che di recente sembra aver trovato spazio anche nel mercato del lusso. Lo testimoniano prodotti di fascia alta come la busta di letame propiziatorio, da 75 dollari, lanciato da Goop, l’azienda di Gwyneth Paltrow, definito anche “the finest poop in LA” (la migliore merda di Los Angeles); o i sacchi della spazzatura firmati Balenciaga, che invece ne valgono quasi 1800. Dall’altro, invece, credo si tratti semplicemente della variante più in voga del genere “eat-the-rich”, che comprende tutti i racconti in cui personaggi belli e facoltosi – come quelli elencati sopra – vengono distrutti da avvenimenti umilianti su cui non hanno alcun controllo. Al di là del variare delle tendenze e delle ipotesi sulle loro presunte origini, però, sono rari i casi in cui un prodotto – di consumo o di intrattenimento che sia – ha il coraggio di vomitare davvero in faccia ai ricchi, alle storture del conformismo e alle idiosincrasie della società capitalista e del benessere. Carnage, film del 2011 diretto da Roman Polanski, è uno di questi.
Lo scenario costruito dal regista polacco, in un appartamento di Brooklyn dall’arredamento raffinato, mi è sempre sembrato il luogo perfetto per osservare in vitro cosa si cela non solo dietro agli standard di comunicazione socialmente accettati, o alle convenzioni ipocrite a cui tutti, in un modo o nell’altro, ci assoggettiamo. Carnage, infatti, descrive con grande precisione le perversioni materialiste – ognuno di noi ha la sua, a giudicare dalle evoluzioni sempre più assurde del mercato – ed egoriferite a cui i protagonisti rimangono attaccati una volta che tutte le dimensioni del vivere comune, anche quelle minime come la famiglia e la coppia, sono crollate: un telefono che rappresenta il successo lavorativo, un pretenzioso libro d’arte che allude alla ricercatezza dei gusti, un liquore molto invecchiato che testimonia la propria condizione di privilegio. Queste forme di nevrosi postmoderne definiscono i personaggi e permettono loro di distrarsi dagli individui “medi” che sono, come se allo “stato di natura” elaborato da tanta filosofia si fosse sostituito un nuovo istinto primordiale che punta alla prevaricazione passando per oggetti costosi e capaci di validare un certo status. Per questo, tutte le volte in cui mi trovo davanti all’ennesima scena di vomito, la prima immagine che mi viene in mente è l’espressione nauseata di una delle protagoniste, Nancy (Kate Winslet) – una donna abbastanza à la page da poter davvero avere in wishlist il concime brandizzato Goop. Dopo essersi scoperta capace di una ferocia che ha sempre ritenuto disumana, la donna è infatti costretta, tra un conato e l’altro, a sospettare della sua mediocrità.
Le due coppie di genitori ritratte da Polanski – da una parte Nancy e Alan (Cristoph Waltz), dall’altra Michael (John C. Reilly) e Penelope (una straordinaria Jodie Foster) – trasformano il momento del loro incontro, che doveva risolvere una scazzottata tra i rispettivi figli, in una discesa agli inferi che li porta a un livello di brutalità profondamente inibito, che non viola soltanto le convenzioni sociali, ma tutti i riferimenti etici a cui siamo sempre stati educati – tra cui il non urlare a sconosciuti “Con i tuoi diritti umani mi ci pulisco il culo” – tanto che a vederlo sullo schermo ci riesce difficile pensare di poterlo raggiungere. La strage promessa dal regista si manifesta così in una decostruzione impietosa dell’occidentale medio: benestante, solo dichiaratamente progressista e schiavo di consuetudini che ha completamente interiorizzato – Michael, infatti, non smette mai di offrire caffè ai suoi ospiti, anche nei momenti in cui i livelli di tensione non escludono di passare alle mani. Il film annichilisce soprattutto il narcisismo con cui i protagonisti si ostinano ad alimentare l’inconsistenza del loro microscopico universo, anche quando l’impeto della lite non lo rende più credibile, alternando goffamente agli insulti abitudini da famiglia Mulino Bianco, o discorsi più o meno impegnati sulle atrocità del presente.
Il “dio del massacro” – titolo della pièce teatrale della scrittrice francese Yasmina Reza da cui l’opera è tratta – che si manifesta in tutti i loro comportamenti è dunque questo vile culto dell’ego, coltivato con la pretesa di elevarsi al di sopra della massa. La passione di Michael per Ivanhoe e John Wayne, che secondo lui sarebbero “figure complementari”; il feticismo di Nancy per la sua borsa, più efficace di un sex toy nell’appagarla, dato che le basta esibirla; la prontezza quasi compulsiva con cui Alan, avvocato famoso, risponde al BlackBerry non oltre il secondo squillo, per poi indicare al suo interlocutore le precise scelte lessicali che serviranno a scagionare una casa farmaceutica e continuare a fottere i pazienti con gli effetti collaterali dei suoi prodotti sono tutti simboli di un orizzonte esistenziale limitato al possesso e allo stereotipo, che prosciuga qualsiasi altro valore e si riduce all’autoaffermazione, al consumismo e al surrogato di vittoria che deriva dalla truffa. Penelope, più di tutti gli altri, incarna la presunzione di chi si sente un’eccezione alla mediocrità, perché ha costruito nel dettaglio la sua immagine di Simone de Beauvoir mantenuta – intellettualmente brillante e avversa alle ingiustizie, ma senza tutti quei capricci rivoluzionari dell’originale – smettendo di vederne le deformità. A differenza di Alan che riconosce di – ma soprattutto vuole – essere egoista e disonesto come qualsiasi altro essere umano, Penelope non ha dubbi sul fatto che quella pochezza non le appartenga. Le ricerche per un libro sui profughi sudanesi e la passione per l’espressionismo austriaco – rappresentata proprio dal catalogo di Oskar Kokoschka su cui Nancy finisce per vomitare – le bastano per sentirsi immune alle pulsioni più basse, anche quando diventa evidente che quella dei figli, per lei, sia una questione di vendetta personale e non un tentativo di ristabilire la pace; o quando prova ad aggredire fisicamente il marito che ha osato contraddirla.
L’elemento di rottura, che mi ha impedito fin da subito di associare questo film a qualsiasi altra commedia “mangia ricchi”, per quanto feroce e sarcastica, è il fatto che i personaggi non vengono coinvolti in una spirale di decadenza su cui non hanno potere. Ognuno di loro, infatti, è artefice della sua stessa mortificazione e complice del movimento per cui la conversazione ingessata e falsamente cordiale dell’inizio – “Di cosa si occupa?”, “Che bella casa”, “Mi permetta di offrirle una fetta di clafoutis alle pere” – muta in un groviglio di urla, colpi bassi e bicchieri di scotch bevuti alla goccia.
A partire da pretesti minuscoli e apparentemente irrilevanti, che vanno dal tentativo di difendere i figli, alle frustrazioni celate in ciascuno dei due matrimoni, ogni scena si configura come un campo di forze sempre diverso dal precedente, dove i personaggi si attraggono e si respingono a vicenda secondo combinazioni imprevedibili, che dipendono soltanto dall’andamento dei dialoghi e non dai legami personali che dovrebbero unirli, sopravvivendo alla collera del momento. La conversazione è convulsa, disordinata, incapace di trovare un equilibrio per più di qualche secondo. Alan attacca Penelope sulla sua mancanza di senso dell’umorismo, poi fa lo stesso con Michael. Nancy gli intima di posare il telefono che tiene sempre in mano. Penelope rimarca quanto sia becero mescolare Jane Fonda e il Ku Klux Klan in una battuta e un attimo dopo i due mariti si scambiano uno sguardo, divertiti dalla sua rabbia, lasciandola così in minoranza. Alan non ha posato il telefono nemmeno per mezzo secondo. L’emotività descritta da Polanski è mercenaria, ridotta al risentimento di quattro “figli di puttana con un brutto carattere”, come si definisce Michael con una punta di orgoglio, che non sopportano di essere toccati nelle loro certezze di borghesi piccoli piccoli.
Con questo film il regista approfondisce la sua riflessione sull’impossibilità di costruire un ordine morale comune e sull’insufficienza delle norme sociali e giuridiche nel contenere le nostre pulsioni ataviche, che nella visione del regista – che estende la sua antropologia pessimistica anche ai legami più stretti e alle relazioni affettive – appaiono essenzialmente egoiste e aggressive. Un esempio di questa assenza di empatia è il trattamento riservato da Michael a Culetto, il criceto rumoroso a cui la figlia, secondo lui, ha pure dato “un nome da fr*cio”, che viene abbandonato sulle strade di New York senza alcun rimorso o senso di colpa per l’inevitabile delusione della bambina.
Lo stesso conflitto in cui i protagonisti sono coinvolti da ore rimane un’esperienza che si esaurisce senza generare alcuna trasformazione in loro. L’accaduto, infatti, non modifica le prospettive esistenziali dei personaggi, se non per un dettaglio: constatare che alla fine dei figli non importa loro poi molto. Nessun gesto davvero estremo, nessuna parvenza di riconciliazione – a fare pace, nell’ultima scena, saranno invece i due ragazzi, senza bisogno dell’aiuto dei genitori. Quello che rimane di queste presentazioni inusuali è solo la sagoma dell’homo homini lupus, la cui ferocia è stata ormai irrimediabilmente viziata dai decenni di cattività in una vita alto-borghese. Forse solo Nancy, mentre esce dall’appartamento sbronza di scotch e sempre incollata alla sua borsa, pensa per un attimo che la sua violenza non è così diversa da quella che viene commessa all’esterno dell’occidente “civilizzato”, ma soltanto più celata e meschina. Un attimo dopo, però, è in ascensore a litigare con Alan che continua a stare sempre al telefono.