Siamo perfettamente abituati a parlare di serie tv mettendole alla pari dei film, o addirittura in certi casi a considerarle qualitativamente superiori al cinema. Ma come tutti sappiamo bene non è sempre stato così. Quando a dettare legge erano i palinsesti Mediaset, quando il download illegale era ancora una pratica acerba, quando Netflix non era nemmeno lontanamente immaginabile per nessuno di noi e, soprattutto, quando le produzioni non investivano così tanto in questo genere, gli show televisivi erano perlopiù prodotti per famiglie, sit-com, telenovelas e Genitori in blue jeans. Negli anni Novanta poi, si è capito che la televisione poteva mirare direttamente a fasce precise, scavalcando l’idea di bollino “per tutte le età” e rivolgersi ai teenager in cerca di storie con cui placare le proprie turbe adolescenziali, e così si fecero largo i teen-drama. Ma si tratta comunque di prodotti piuttosto leggeri, dei quali al massimo oggi si può rivendicare una fruizione affettiva o ironica: nessuno avrebbe il coraggio di parlare seriamente di Beverly Hills 90210 e se Friends ha creato le regole del gioco per quanto riguarda le sit-com si tratta comunquue di una produzione destinata alla visione veloce, disimpegnata, non minimamente paragonabile al coinvolgimento che si sarebbe provato dieci anni dopo con show del calibro di Breaking Bad. In questo panorama acerbo e inesplorato, delle eccezioni hanno fatto la storia delle serie televisive, sfidando per prime certe leggi di consumo in favore di una sperimentazione narrativa. Dando per scontata la grandezza e l’importanza de I Sopranos, l’altro nome fondamentale per la formazione della serie tv come la conosciamo oggi, sembra sempre un po’ strano dirlo, è Buffy l’ammazzavampiri, che ultimamente è tornata al centro del dibattito per via dell’annunciazione di un suo prossimo reboot.
Capisco perfettamente quale possa essere il pregiudizio legato a quello che a prima vista sembra un universo in cui Brenda Walsh combina la vita da liceale californiana con le atmosfere di un pessimo B-movie, e in effetti in un certo senso è ciò di cui tratta questa serie. Quando in seconda media Italia Uno decise di ritrasmettere le repliche, fomentata dalle conversazioni dei miei coetanei su questa serie “horror” mi sintonizzavo quotidianamente sulla rete per non perdermi una singola puntata e provavo tanto imbarazzo da cambiare subito canale non appena qualcuno entrava in cucina. Per non parlare poi di quando ormai adulta ho dovuto giustificare in qualche modo la presenza di una quindicina di cofanetti originali di Buffy the Vampire Slayer nella mia libreria. L’idea che si trattasse di un pessimo teen-drama con i vampiri e i mostri che fanno incursioni al prom non è così facile da sradicare: negli anni in cui qualsiasi adolescente occidentale si perdeva nelle infinite trame di case sul lago e cotte tragiche, Buffy sembrava appartenere proprio a quel genere televisivo e la sua totale noncuranza rispetto alla forma palesemente low budget non faceva altro che accentuare le critiche. A distanza di un bel po’ di anni però (precisamente ventuno, visto che la prima puntata è stata trasmessa nel 1997), e vedendo altre tonnellate di show con cui poter fare un paragone, mi sembra giusto restituire alla cacciatrice di vampiri la sua dignità e riconoscere i grandi meriti di Joss Whedon, il suo creatore, per aver dato vita a una delle prime grandi serie tv della storia. Un’opinione apparentemente azzardata ma che pochi anni fa è stata sdoganata persino da una critica premio Pulitzer come Emily Nussbaum.
La prima cosa da notare in Buffy è la sua struttura narrativa. L’idea di serialità che ci ha portati fino agli eccessi bulimici del binge-watching, infatti, un tempo non era vista come una qualità necessaria: dal momento che le serie televisive si guardavano, appunto, in televisione, bisognava frammentare il più possibile gli episodi, in modo da consentire anche a chi non seguiva tutto il filo della trama di riagganciarsi con quello che stava succedendo. Buffy combatteva più o meno un mostro diverso a puntata, ma la vera svolta della serie è stata introdurre un grande nemico per stagione, creando un arco narrativo che andasse oltre la semplice rappresentazione di avventure isolate. Questo modello – che prendeva spunto da quello di XFiles, accentuando però la continuità degli episodi che conduceva fino al gran finale – è stato poi utilizzato da molte altre serie televisive, da Lost a The Walking Dead, e deriva dall’impostazione fumettistica di Joss Whedon, il quale non poteva sapere che di lì a pochi anni avrebbe preso piede proprio questo modo di intendere la serialità. Ma oltre a costruire un piano narrativo che consentisse alla serie di svolgersi su più livelli, un altro merito di Whedon sta nell’aver tessuto una fitta rete di relazioni approfondite, basate su un altrettanto complesso schema di personaggi.
Quello che rovescia completamente l’idea di classico teen-drama è infatti la caratterizzazione dei personaggi attraverso una rappresentazione duplice: nessuno di loro è rinchiuso in un ruolo rigido e inflessibile, ognuno ha esperienza dei suoi lati positivi ma soprattutto di quelli più oscuri. Buffy è una ragazzina californiana col lucidalabbra e le mollette colorate, ma è anche attirata dalla sofferenza e dall’autolesionismo in modo morboso; è coraggiosa, forte, intelligente, ma è anche violenta verso chi le vuole bene, e tende a cadere in un baratro di depressione. Willow è una sfigata nerd del liceo, insicura, chiusa, premurosa e dolce ma è anche capace di trasformarsi in una vendicatrice spietata, è capace di mettere tutti in pericolo con le sue dipendenze e fino a voler distruggere la terra per poter trovare giustizia. Xander è l’amico simpatico, ma è anche vigliacco, egoista, immaturo. Spike, il vampiro maligno come il diavolo in persona ha anche un lato umano che lo spinge ad agire contro la sua natura cattiva. E così, tutti i personaggi si muovono in una dimensione in cui la morale non deve necessariamente fare da spartiacque tra bene e male, nonostante il tema sia esattamente questo: la cacciatrice che deve salvare il mondo dalle tenebre dell’inferno. Eppure, la storia si articola con un costante dialogo tra queste due realtà, non solo quelle posticce e caricaturali dei vari mostri, ma anche con quelle interiori di ogni essere umano che prende parte a questa lotta.
Oltre alla caratterizzazione di ogni singolo personaggio che evita di cadere in banali manicheismi, e che dà spazio anche alle ambiguità e ai difetti di ciascuno di loro – cosa decisamente poco compatibile con i teen-drama coevi di Buffy – anche il modo in cui questi si relazionano tra di loro è molto interessante. Che ci siano degli intrecci sentimentali tra i protagonisti di una serie televisiva che ha come pubblico principalmente liceali con i poster in camera, è piuttosto scontato. Che il romanticismo stucchevole e poco plausibile rispetto al vero corso degli eventi nella vita emotiva di una persona reale prenda il sopravvento anche. Tutto ciò in Buffy non succede, anzi, sempre grazie all’espediente del paranormale e del fantastico, ogni situazione relazionale viene arricchita dalla metafora horror: da un lato hai la trama dei mostri che va avanti saziando l’esigenza di intrattenimento più basico, dall’altro hai quella individuale e introspettiva che si intreccia senza prendere vie molto più inverosimili dell’esistenza di un vampiro. Tutte le storie che riguardano Buffy in prima persona – escludendo la noiosa ma necessaria parentesi di stallo con Riley – sono complicate e contraddittorie, tutt’altro che melense rappresentazioni di amori adolescenziali.
Quando Buffy si trova nella famosa puntata d’obbligo di tutti i teen-drama, quella de “la prima volta”, non ci sono cuoricini e rose rosse che riempiono l’animo della protagonista, che al contrario vive il dramma – quello sì da teen ma non per questo privo di valore – di un uomo che dopo aver consumato il rapporto la tratta come un oggetto da buttare via. Nella serie la cosa è spiegata con la maledizione che colpisce Angel, il primo amore di Buffy che guarda caso è proprio un vampiro e che però ha riottenuto l’anima a patto di non provare mai un momento di felicità vero. Angel si trasforma immediatamente in uno stronzo epocale, e Buffy si trova addirittura a doverlo combattere, scegliendo di sacrificare il suo sentimento per il bene comune. La storia con Spike, altro vampiro nemico da eliminare, diventa un mix di contraddizioni interne nell’animo combattuto della cacciatrice di vampiri quando non riesce ad accettare il fatto di poter essere attratta da una creatura che disprezza. Ma l’attrazione non funziona come un calcolo matematico e la spiegazione razionale a molte cose non esiste, nemmeno quando Spike arriva a violentare Buffy e a odiarsi talmente tanto per le sue azioni da sparire dalla sua vita, cercando in qualche modo una redenzione che troverà solo sacrificandosi per impedire la fine del mondo nell’ultima puntata dell’ultima stagione. Anche la relazione omosessuale di Willow e Tara è strutturata su basi tutt’altro che banali o caricaturali, come spesso invece in quegli anni venivano rappresentate le relazioni tra persone dello stesso sesso: il loro rapporto è spontaneo, naturale, e viene accolto con la giusta dose di stupore e sorpresa che non sfocia in una parodia del tema. Loro sono prima di tutto due personaggi della serie, e il fatto che siano due ragazze lesbiche in una relazione non cambia in alcun modo la percezione che noi spettatori possiamo avere di loro.
L’atmosfera dozzinale da horror di ultimo ordine è solo un contorno a tutta la realtà variegata e intensa di cui è fatto Buffy The Vampire Slayer, e quell’imbarazzo dettato dalla bassa qualità della sua estetica può tranquillamente essere sostituito da un sincero interesse per l’opera di Joss Whedon. Anzi, forse è proprio questa ambientazione così naïf e scadente che crea un contrasto ancora più particolare tra il contenuto denso di questa serie e la forma ingenua che la caratterizzano. Buffy è stata una delle prime e delle più incisive eroine ad apparire in televisione che non fosse un personaggio donna sprovveduto e in balia delle sue emozioni ma un esempio solido e sano di femminilità. Non è né una forzatura di qualche narrazione “al femminile” né una classica svampita da teen-drama senza spina dorsale: è forte, autonoma ma anche fragile. Buffy insegna che per essere donna non bisogna sacrificare i propri aspetti più sensibili e umani in favore di un adattamento alle caratteristiche stereotipate degli eroi maschili, ma che una protagonista può essere rappresentativa di entrambi i generi, non solo un poster per femminucce o una bonazza per maschietti. Che gli autori di questa serie abbiano deciso di continuarne la storia con un reboot o un sequel è certo un’arma a doppio taglio: il timore che una prosecuzione possa rovinare il già perfetto mondo di Sunnydale con tutte le sue sottotrame è molto forte. Personalmente non sono una fan dei sequel, credo che una volta che una storia sia finita meriti di rimanere conclusa così com’è e che l’apertura del seguito rimanga solo nella testa di chi l’ha vista o letta, come una sorta di diritto alla fantasia. Non voglio sapere cosa è diventata Buffy a quarant’anni, né come sta la bocca dell’inferno. Ma se dovesse davvero uscire questa nuova versione spero non tradisca i presupposti di una delle serie a mio parere meglio riuscite – e ora non mi vergogno più a dirlo.