"Bestiari, Erbari, Lapidari” è un film imponente, un omaggio ai mondi di animali, piante e minerali - THE VISION

Alzi la mano chi da bambino non è mai stato affascinato, anche solo per un breve ma intenso periodo della sua vita, dagli elenchi, che poi altro non sono che la base della catalogazione e per esteso della collezione. La raccolta della varietà da sempre ci affascina e agisce una forte attrazione sul nostro desiderio di appropriazione e di comprensione del mondo che ci circonda. È in questo solco che si innesta l’ultima opera di 206 minuti divisa in tre atti di Massimo D’Anolfi e Martina Parenti, Bestiari, Erbari, Lapidari, che verrà proiettato al Cinema Godard di Fondazione Prada sabato 5 ottobre alle 16:30 con una pausa di 15 minuti tra il secondo atto, Erbari, e il terzo, Lapidari, e a cui seguirà una conversazione tra i registi e Paolo Moretti, curatore della programmazione del cinema.

Bestiari, Erbari, Lapidari vuole essere un viaggio sentimentale tra cultura, scienza e arte europee, un omaggio a quei mondi sconosciuti e per certi versi davvero “alieni”, fatti di animali, vegetali e minerali, che costituiscono una parte essenziale della nostra esistenza sul pianeta Terra e con cui dovremmo trovare il coraggio di aprire un reale e intimo dialogo, invece che limitarci per abitudine a oggettificarli e sfruttarli. Presentato all’ultima edizione della Mostra del Cinema di Venezia, questo è un film imponente, come imponente è ogni archivio, ogni collezione appunto, che riflette in maniera perfettamente lucida sul presente, attraverso la lente di un cinema che non smette di approfondire e di ricercare le proprie coordinate nelle pieghe della storia. Alternando immagini d’archivio e documentario d’osservazione, anche stavolta D’Anolfi e Parenti realizzano un’opera evocativa, intrisa di misticismo – loro cifra distintiva – capace di parlare dei rapporti tra l’essere umano e il mondo con il rigore scientifico di un compendio enciclopedico e tutto il lirismo di una favola ancestrale allo stesso tempo.

Strettamente collegati tra loro, i tre atti del film disegnano uno sviluppo drammaturgico attraverso diversi dispositivi di messa in scena. Ogni atto è infatti un omaggio a uno specifico genere del cinema documentario: “Bestiari” è un found-footage su come e perché il cinema ha ossessivamente rappresentato gli animali; “Erbari” è un documentario d’osservazione all’interno del magnifico Orto Botanico di Padova; infine, “Lapidari” è una sorta di film industriale sulla trasformazione della pietra in “memoria collettiva”.

Il sottotitolo di “Bestiari” è: “il cinema inventa nuove gabbie”. E come ghost della sezione (e di tutto il film) c’è il filmato di una Rx in cui un neonato succhia il latte: in contrasto – per via dello stesso metodo di acquisizione dell’immagine – il liquido bianco diventa nero, e scende nella gabbia toracica del bambino, che ricorda un uccello. Seguono riprese nell’archivio della Humboldt Universität di Berlino: filmati scientifici, raccolti per studiare il funzionamento del nostro sistema muscolo-scheletrico. Una donna si toglie e si mette un anello. Un gesto vezzoso che pure assume contorni stranianti (perché sempre in Rx). Una tigre in incubatrice piange come un bambino. Con lo stesso grido straziante che suscita reazioni di sgomento negli altri animali adulti ricoverati nella stessa clinica, generando quell’angoscia ancestrale che qualsiasi mammifero conosce. “Un tempo il mondo era di chi dormiva più a lungo, / perché chi più dormiva più sognava. / E i sogni erano la sola materia di cui era fatto il cosmo. […] / Tutti gli animali si muovevano e si incontravano nei sogni altrui”. I signori del creato erano gli animali più pigri, difendevano la dimensione del sogno. Poi qualcosa si è inceppato, almeno per un momento, con il nostro evolverci.

Attraverso il collage di materiali scientifici d’archivio D’Anolfi e Parenti creano una poesia. Fatta di ossa e di organi, di corpi abbandonati, di cose che non dovremmo vedere, radiografie che sembrano sogni. E che ci impongono di pensare alla prima volta in cui si è fatta della radiografia poesia. Ovvero ne La montagna incantata di Thomas Mann. In cui il protagonista, Hans Castorp, conserva come una preziosa lettera d’amore la piccola foto della radiografia che è stata fatta ai polmoni malati di Claudia Chauchat, come una sorta di icona erotica. Il famosissimo video del cavallo al trotto che poi è diventato copertina dei due volumi del saggio di Gils Deleuze L’immagine-movimento e che informa fin dalle fondamenta anche la visione di questo documentario. E dopo il cavallo il gatto. Il cane. Il coniglio. Ipnotici. Non sono video ma serie di foto. La tassonomia cinematica di Deleuze, che si appoggia ai ragionamenti sviluppati da Henri Bergson in Materia e memoria, identifica tre tipi di immagine-movimento cinematografica: immagine-percezione, ciò che vedo; immagine-affezione, i sentimenti che suscita; e immagine azione, che si focalizza invece sulla durata dell’azione che mostra. Deleuze prosegue poi ad associare queste immagini a determinate scelte tecniche e stilistiche ma a noi penso interessi la parte prima, ovvero quella che si innesta su Bergson e che a sua volta affonda in filoni di pensiero ben più antichi, almeno di un paio di migliaia di anni, e al buddhismo. Il malanno dell’umano, il punto da cui origina il suo dolore, e lo dice anche Patañjali, è la visione, e il linguaggio, perché nell’essere umano queste due competenze si sono mescolate fino a confondersi, diventando uno strumento potentissimo ma anche estremamente dannoso quando usato male. Si parte dalla concezione di un corpo umano avviluppato nel mondo della materia (da qui il lungo discorso sul sogno affrontato in maniera lirica ed evocativa dai registi in tutta la prima parte del film), le percezioni generano affezioni (e afflizioni) che a loro volta causano le nostre azioni.

Si apre quindi una riflessione sul valore degli archivi. Gli animali sono il prototipo di una moltitudine. Non sono mai considerati nella loro individualità, a cui segue quella sull’obbedienza. Sulle tecniche per educare gli animali per usarli in guerra, usate poi anche sugli stessi esseri umani per addestrarli. Milioni di cavalli e cani uccisi, o usati come cavie per gli addestramenti. I cani non possono raccontare la loro storia, non possono scrivere dei memoir. E noi ce ne siamo dimenticati di tutti quegli animali. Li abbiamo usati, e continuiamo a farlo, per i nostri scopi, per le nostre ricerche, perché continuiamo a confondere la forma e l’entità di quel famoso velo di Maya di cui parlava Schopenhauer che abbiamo davanti agli occhi. Così più che discernere e disvelare, vogliamo scarnificare e vivisezionare. Sfatare ogni mistero. In primis quello del movimento, così complesso ed effimero. Abbiamo sempre voluto carpirne il segreto, e il cinema ci ha aiutato a farlo ci dicono i due registi. Questi video, infatti, sono fatti per essere fermati, bloccati. Analizzati, così come viene analizzato il corpo.

Vediamo l’operazione di un cane. Il corpo come macchina. Revisionabile. Aggiustabile, finanche. Mentre la vita per un attimo si ferma, il sonno è dato dall’anestesia. I medici avvitano zampe. Controllano che si pieghino. Che funzionino a dovere. Alla carne si mescolano le viti, i bulloni, il fil di ferro. Scoprirete che non vi farà particolare impressione vedere il corpo di un cane aperto in sala operatoria, anche se vi fa senso il sangue. Perché lo percepiamo come “altro”, come carne. Come si sente dire nella seconda sezione del film, “Erbari”, noi ci chiamiamo animali perché ci “animiamo”, non perché siamo dotati di “anima”, ma di “movimento”. Ecco la qualità della vita che sentiamo più vicina. Ecco perché i corpi anestetizzati ci fanno immediatamente pensare alla morte. Ed ecco perché pensiamo di poter usare questi animali a nostro piacimento, solo perché ci siamo convinti che il nostro movimento, invece che dalle immagini (e quindi dai fantasmi del nostro cervello), venga da un’anima.

La sezione sulla cattura, in cui viene mostrata la violenza primaria che possiamo esercitare su qualsiasi altro corpo, quella di catturarlo, immobilizzarlo e magari rinchiuderlo in gabbia ricorda un altro documentario di D’Anolfi e Parenti che lascia, anche se in maniera diversa, ampio spazio all’esperienza animale, Materia oscura, film del 2013 girato in Sardegna a Salto di Quirra, sede di un tristemente famoso poligono sperimentale di addestramento forze, in cui pecore e pastori continuano ad ammalarsi di cancro. Anche riprendere immagini è una sorta di caccia. L’obiettivo è simile a un fucile. Ci appropriamo di questi animali, dei loro corpi, delle loro immagini, così come ci appropriamo delle storie. Il modo in cui l’animale una volta preso si arrende ha qualcosa di incredibile. Nel video viene etichettato come “Ausbrecher”, fuggitivo, riportato all’ordine, ed è impossibile non empatizzare con quella visone. Anche in questo caso è interessante cogliere l’etimo di questa parola, “aus” è il fuori, il movimento dall’interno all’esterno, ma “brecher” soprattutto ci mostra la semantica del frangente, dell’onda, dell’uscire grazie al proprio peso, infrangendosi contro qualcosa. Ausbrecher è colui che non si adatta e che tenta lo scampo. Anche i pitoni catturano, certo, non siamo gli unici. “Le leggi di natura non sono altro che un rapporto di potere che non è discutibile, o evitabile”, si sente dire. Il coniglio è vivo, e subito dopo non lo è più. Il coniglio è destinato a essere mangiato dal pitone. Il film ci mostra questo. Il cinema è una visione spassionata. Se intervieni non potrai far altro che rispondere alle leggi della morale. Eppure al tempo stesso il cinema è complice di linguaggio e visione, dobbiamo esserne consapevoli. D’Anolfi e Parenti hanno liberato questi archivi, sono andati a ficcare il naso in queste antiche scatole di Pandora, ricchissime e quiete, dimenticate, in attesa di essere risvegliate da qualcuno e interrogate, quasi come semi, o ancora meglio, spore. Si passa così a “Erbari”, sottotitolo, “la cura”.

L’orto botanico di Padova, costruito nel 1545 è stato il primo orto botanico del mondo, e rappresenta la perfetta simbiosi tra natura e cultura. In questa sezione in gran parte silenziosa, l’essere umano è colui che pota, che taglia, pulisce: che regola, dando un ordine a ciò che almeno in apparenza non lo ha. Questa sezione mostra quanto lavoro sia necessario alla manutenzione di un archivio, ancor più se vivente, come può essere appunto un orto botanico. Qui veniamo riportati alla ragione. La quiete del giardino è inframezzata dalla voce fuori campo di quello che potrebbe essere uno studioso, un professore universitario particolarmente illuminato, incorporeo quasi, che ricorda la voce che abita L’Iris selvatico, della poetessa Premio Nobel per la letteratura Louise Glück, in cui un demiurgo si rivolge alle piante di un giardino: noi pensiamo di esserci, ma non ci siamo, il 99,7% della biomassa del pianeta è fatto di piante. Noi siamo parte del resto. La nostra realtà non è assolutamente oggettiva. Noi siamo ininfluenti. Non elimineremo la vita dal pianeta, al massimo elimineremo noi stessi, e qualche altra specie. La vita sul pianeta è molto più forte di noi. Si cambia rapidamente prospettiva, come durante un salto carpiato. Le cose stanno diversamente da quanto pensiamo. Noi immaginiamo la fine del nostro mondo. Non del mondo tout-court, solo che la nostra identità è talmente affamata da sovrapporsi a tutto il nostro habitat. Il tempo, poi, è relativo. Quello delle piante è molto diverso dal nostro. Seguono tutto un altro ritmo, che a noi non è dato scorgere. Possono forse comprendere un po’ meglio la vita delle piante gli insetti, ben più anziani di noi, e non a caso in stretta simbiosi con queste ultime.

Quando viene annaffiata la palma, nella sua enorme casa di vetro, il giardiniere, piccolissimo, sembra proprio il Piccolo Principe con la sua rosa. Non è una palma qualsiasi, in effetti, è la palma di Goethe, che la studiò a lungo per le sue ricerche. Ci sono invece palme che vengono spostate, al pari di grandi statue, monumentali. In genere, però, questa sezione, con le sue inquadrature, sembra mostrarci che la terra sta. Quanto potremmo sopravvivere noi fermi in una foresta? Pochissimo. La pianta non è mai un individuo (in-diviso perché se no morto), la pianta è divisibile. Possono essere spezzettate in migliaia di pezzi. Hanno diffuso sul loro corpo ciò che noi abbiamo concentrato negli organi. Gli animali hanno una struttura gerarchica, le piante ce l’hanno distribuita. Le piante sono modelli fatti per risolvere problemi, ma anche ricordi, amuleti lasciati tra le pagine dei libri e dei giornali. Così con delicatezza si passa dal loro regno a quello delle pietre, dei minerali, e lo si fa attraverso il concetto di morte intesa come “ritorno alla natura”, dislegamento, e di lapide, etimologicamente la pietra ridotta a qualche forma regolare e destinata a qualche uso, su cui spesso noi esseri umani scriviamo sopra – si arriva alla sezione “Lapidari”, il cui sottotitolo è “I fossili del futuro” – e ancora una volta torna questa malattia del linguaggio che non ci lascia sognare, della parola, della nostra capacità fisiologica di articolarla con lingua, corde vocali e laringe, che ci ha fatti credere meglio di tutti gli altri, quando siamo piccolissimi, pochissimi e miopi.

“Crediamo che il nostro compito sia quello di ‘re-inventare’ una visione e una rappresentazione del reale e cercare di instaurare relazioni vitali fra gli elementi che compongono le inquadrature dell’opera. Così facendo, non cerchiamo il ‘reale’, ma la rappresentatività del reale e l’occasione per raccogliere i racconti, le storie, le riflessioni su noi umani. A ogni spettatore il compito di arricchire il film con il proprio bagaglio di esperienze, interessi, letture o visioni cinematografiche,” hanno dichiarato D’Anolfi e Parenti. Una poetica dunque che lavora come un tensore tra il reincantare il mondo del filosofo Bernard Stiegler e le segrete corrispondenze del poeta Charles Baudelaire. D’Anolfi e Parenti aprono uno spazio di significati possibili davanti allo spettatore, punti di una mappa che possono essere trasformati nei vertici di una figura, un animale, una foglia, o un cristallo. Non so perché, anzi lo so, per quel meccanismo innescato dal fare cinema di questi due grandi registi, mi viene in mente il capolavoro di Theodore Sturgeon Cristalli sognanti, definito da Jo Walton “So much more than the sum of its tropes”. Tropo, dal greco trópos, derivato da trépo, “trasferisco”. Un tropo è una traslazione o deviazione di significato, essenzialmente una figura retorica. Un tropo infatti è una metafora, ma è anche una sineddoche, una litote, un’iperbole (e molte altre figure retoriche); nella teoria musicale antica “tropo” è anche la trasposizione di una scala dal modo originario a un altro, e nella musica medievale l’inserzione di una melodia con un testo originale in un brano liturgico ufficiale, l’inserzione di un testo su una melodia preesistente. Ecco cosa innesca la visione di queste immagini, qualcosa in più delle loro parti, un dialogo tra attitudini e prospettive diverse, per cui a volte è necessario il sogno, l’uscita dal proprio corpo, dalla propria visione, dalla propria coscienza, che spesso si trasforma in trappola, e da cui bisogna trovare il coraggio di saltare fuori, come facevano un tempo gli sciamani.

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