“Anatomia di una caduta” mette profondamente in crisi la nostra capacità di definire ciò che è reale - THE VISION

Uno dei temi più dibattuti riguardo la narrazione – subito dopo all’effettiva utilità delle scuole di scrittura – è quello sulla veridicità, soprattutto nell’epoca dell’auto-fiction e del memoir, che tanto indigna alcuni buffi puristi dell’immaginazione, come se qualsiasi narrazione non prendesse spunto per forza di cose dall’esperienza e come se i fatti che segnano la nostra esistenza non si ripetessero di continuo in contesti, epoche e latitudini diverse. È proprio questa domanda che accorda fin dall’inizio Anatomia di una caduta, film di Justine Triet disponibile su MUBI a partire da oggi 22 marzo che ha vinto l’Oscar per la miglior sceneggiatura originale (che Triet ha scritto insieme al compagno Arthur Harari), ma anche la Palma d’oro al 76º Festival di Cannes, un BAFTA, sei César e sei premi European Film Awards.

Sandra è una scrittrice, che vive col figlio dodicenne e ipovedente Daniel (un incredibile Milo Machado Graner), il cane pastore Snoop (interpretato dal border collie Messi, ormai diventato virale e vincitore del Palm Dog a Cannes) e il marito Samuel in una baita sulle Alpi francesi, non troppo distante da Grenoble. Sandra è abituata a raccontare storie, se con questa locuzione intendiamo mischiare realtà e finzione, o ancora meglio a prendere la realtà come spunto per l’immaginazione. L’intervistatrice che sembra averle fatto improvvisamente visita all’inizio le ricorda proprio che il lettore, come lo spettatore (al pari di un giudice si direbbe col senno di poi), vuole sapere cos’è vero da cosa non lo è, e la accusa in maniera piuttosto diretta proprio di impedire di capirlo, mescolando due ambiti che secondo qualcuno dovrebbero restare separati, incontaminati. In realtà, questo bisogno è uno sconfinamento di campo nell’arte, di una visione burocratica e scientifica della vita reale. Il solito desiderio di capire dell’umano, a qualsiasi costo, anche se per farlo è necessario appiattire, ridurre, semplificare, separare a colpi d’accetta. È nei tribunali infatti che si cerca di raggiungere la verità, una verità circoscritta e oggettiva come può essere quella legata a un crimine di vario tipo; non nell’arte. All’arte al massimo può premere di essere verosimile, niente di più.

Come in tutti i legal drama in cui mancano prove o testimoni, quando si scopre della morte di Samuel, si apre quindi una voragine tra accusa e assoluzione, tanto che anche i due sceneggiatori hanno dichiarato di avere due impressioni diametralmente opposte sull’innocenza di Sandra, cosa che contribuisce ad arricchire ulteriormente la sceneggiatura. Mano a mano che la storia si dipana si apre uno scenario ambiguo, in cui per forza di cose viene chiesto allo spettatore di osservare e ascoltare, ma soprattutto lo si costringe a mettersi in discussione, facendo vacillare le sue credenze e i suoi pregiudizi, mostrandogli quanto la verità possa essere ineffabile e complicata, e facendolo oscillare costantemente tra due poli. Da un lato ci si sente assetati di giustizia, spinti dalla curiosità di scoprire la verità, inchiodando il – anzi, la – colpevole, come in una sorta di gara d’astuzia, la stessa che genera quella sorta di tensione erotica di certi noir, tra killer e detective, preda e cacciatore; dall’altro, però, ci si sente costantemente in colpa, colpevoli a propria volta, proprio per avere assecondato quella voglia di farsi giustizia, di confermare le proprie aspettative. Questo movimento scardina un minuto alla volta l’immagine solida che ci siamo fatti del mondo, dei principi e delle forze che lo governano.

Il meccanismo che tiene in piedi Anatomia di una caduta ricorda non a caso quello de Il dubbio, film del 2008 di John Patrick Shanley, tratto dall’omonima pièce teatrale. Guardando questo film non si sa se credere o meno a Padre Flynn, accusato di pedofilia, perché ciò che dice genera in noi una profonda dissonanza cognitiva. Ci si chiede come possa una persona così “giusta” essere colpevole di un crimine e al tempo stesso, per cercare di tenere insieme il nostro metro di valori, ci diciamo che magari è tutto finto, così finto da sembrare vero, e così via, in quello che rischia di diventare un loop senza fine. Questo personaggio appare come Catilina secondo la descrizione che ne fece Sallustio: simulator ac dissimulator. Personaggio carismatico in grado di far credere agli altri il falso, spacciandolo per vero, e al tempo stesso abile nell’occultare la verità. Eppure, per quanto riguarda un personaggio femmiline, anche il modo di entrarci in relazione dello spettatore cambia – e sicuramente Sandra non è conturbante come poteva essere Sharon Stone in Basic Instinct, ma assume tratti molto diversi, pur partendo da assunti simili. Sandra è fredda, freddissima. Rende la sua storia come un cadavere sul tavolo di un obitorio, la sua personale verità incomprensibile ai più, forse anche perché Sandra appartiene a un’altra cultura, è tedesca. Ogni sfumatura apparentemente incomprensibile della relazione tra lei e il marito viene giudicata, attraverso luoghi comuni, stereotipi, automatismi e frasi fatte, ricondotta al senso comune, a quel buon senso che appiattisce l’unicità di qualsiasi persona.

Sicuramente ciò che Sandra non si presta di fare è però di vendere una storia semplificata per sembrare innocente. Sandra, da brava scrittrice quale è, restituisce la sua realtà per quello che è, con tutte le difficoltà, il dolore, e le incongruenze del caso. In inglese, in riferimento a situazioni in cui in mancanza di prove o testimoni non si riesce a raggiungere una verità condivisa ma si continua ad oscillare tra due versioni dei fatti, si usa l’espressione “he said, she said”, vale nel caso di un’accusa di molestie magari avvenuta in passato, ma anche della più banale rottura di un fidanzamento. A chiunque di noi è capitato: ci si lascia, e gli amici non sanno da che parte stare. Forse perché a volte prendere una parte è impossibile, e comunque non dovrebbe spettare a loro, eppure la tentazione è forte. Anche in questo caso, pur trattandosi di qualcosa di ben più grave, a essere messa sotto i riflettori è la caduta non tanto letterale della vittima, ma quella metaforica della coppia, il modo in cui cambiano le persone, e insieme a loro le loro relazioni, cosa accade fisiologicamente ai vari elementi del sistema. Si cerca allora di vivisezionare le storie per cercare di comprenderne le dinamiche, smembrarle senza capire che l’insieme è sempre più grande delle parti che lo compongono.

A ciò si aggiunge il fatto che la voce delle donne, a differenza di quella degli uomini, viene costantemente messa in discussione – ancor più nei tribunali, ma anche nei commissariati e così via. E qui l’unica voce rimasta è quella di Sandra, e poi di Daniel, un bambino, forse categoria che nell’attuale gerarchia sociale è ancor più dimenticata e inascoltata. Infine l’ultimo testimone è il cane, che però non può parlare. La donna, per una costituzione culturale strutturata da secoli e secoli in cui è stata sistematicamente screditata, è una testimone poco attendibile, bugiarda per sua natura, anche quando vittima. Facciamo più fatica a credere alle donne, sospettiamo di loro. Pensiamo al famosissimo Pazza, con Barbara Streisand, Sotto accusa, con Jodie Foster o, ancora, Unbelievable, serie tratta da un caso di cronaca giudiziaria avvenuto nel 2008 a Lynnwood, nello stato di Washington, in cui la vittima è finita paradossalmente per ritrovarsi sul banco degli imputati. Se le donne non vengono credute nemmeno quando denunciano una violenza, figuriamoci quando sono accusate di essere colpevoli di qualcosa. Il film, inoltre, sembra dialogare anche con Testimone d’accusa, adattamento cinematografico del 1957 di Billy Wilder dell’omonima commedia di Agatha Christie, in cui Marlene Dietrich recitava il ruolo di Christina Helm, fingendo diversi accenti e ordendo una trama assolutamente brillante per scagionare il marito, salvo poi “giustiziarlo” davanti a tutti. Proprio come Dietrich, Sandra nel paese straniero in cui vive parla in inglese, ma in tribunale deve deporre in francese. Così, nel passaggio da una lingua all’altra qualcosa si perde, o meglio muta, accadono cose, avviene una continua reinterpretazione dell’identità, del ricordo e dell’esperienza, attraverso la narrazione, a partire dalla scelta dei termini, dei costrutti sintattici.

Il film ci pone – insieme a chi giudica Sandra – di fronte a una complessa elaborazione cognitiva che impesta l’esistenza umana in cui credenze, nozioni e opinioni su un tema si trovano in contrasto funzionale tra loro, mettendo profondamente in crisi la nostra sicurezza, e in un certo senso anche l’esame di realtà. Per questo tendiamo automaticamente a eliminare o a ridurre il forte disagio che questo stato comporta in noi, minando profondamente la nostra autostima. Il problema è che spesso lo facciamo a discapito delle vittime, per il nostro innato desiderio di trovare un capro espiatorio, del male del mondo, della nostra insoddisfazione, delle nostre paure. Triet, con questo film, ci mostra ancora una volta quanto i due strumenti principali dell’agire e del percepirsi umano siano limitati, se non del tutto inutili o controproducenti: il nostro sguardo infatti è fallace, ed è ben lungi dall’essere uno strumento scientifico e affidabile; e il nostro linguaggio, allo stesso modo, invece che aiutarci a comprendere e a discernere nella maggior parte dei casi non fa che generare un rumore di fondo insostenibile, allontanandoci ancora di più dalla realtà delle cose, facendoci credere che la nostra interpretazione della realtà sia la realtà, sia la verità e non semplicemente “una cosa vera”.

Non a caso è da più di duemila anni che gli esseri umani delle più svariate culture e a varie latitudini del mondo cercano di sviluppare cure e metodi per interrompere questa nostra deleteria tendenza, che confonde il linguaggio per qualcosa di altro da noi, e in parallelo confonde la nostra identità con la nostra capacità di vedere. Nel bel mezzo di questa nebbia, Triet, come aveva fatto nel suo film precedente La bataille de Solférino, lascia spazio allo sguardo del cane, che fa da guida a Daniel. Gli animali infatti – al pari dei bambini nelle famiglie – sono spesso testimoni silenziosi delle bassezze e della violenza degli adulti, così come dei loro comportamenti più assurdi, ma anche della vita quotidiana, del loro modo di parlare, di muoversi, di trattare cose e persone entrandoci in relazione. Spesso si sente dire: “Se solo potesse parlare!”. In Anatomia di una caduta, allo sguardo animale viene riconosciuto un ruolo profondamente significativo. Questo legame semiotico è dichiarato fin dalla prima immagine con cui si apre la storia: una palla da tennis che cade dalle scale, Snoop – che vuol dire ficcanaso – che la riacciuffa.

Snoop, col suo sguardo libero da pregiudizi, allora, sembra guidarci insieme al figlio di Sandra verso il difficile esercizio di una nuova sensibilità, intesa proprio come percezione più acuta, che scavalchi la nostra stessa educazione, liberandosi delle spinte sociali che ci contengono e ci intrappolano, spesso causando costante sofferenza. Si dice che i cani sanno fiutare il cancro e le persone buone, non ci sono ancora particolari evidenze scientifiche, a dire il vero non sappiamo nemmeno cosa intendere davvero con la parola “buone”. Eppure chiunque abbia un cane lo sa. Così, Daniel, sopraffatto dall’essere l’unico possibile testimone (non oculare), capisce che deve scegliere cosa vedere, scegliere cosa capire e in che cosa credere, creare la sua intima verità, al riparo dal chiacchiericcio del mondo. E se il detto toscano dice che un bambino potrebbe far condannare anche un innocente, in questo caso il bambino è ben consapevole del potere che ha la sua voce.


“Anatomia di una caduta” è disponibile in streaming su MUBI. Iscriviti qui per guardarlo gratis e ottieni 30 giorni di prova. 

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