“L’Amica Geniale” ci mostra cosa accade quando l’amore non è corrisposto
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La prima volta che ho letto i libri di Elena Ferrante da cui è tratta la serie L’amica geniale, mi sono maledetta. Per non averli letti prima. Ero sicura, infatti, che se avessi avuto la fortuna di dare un’occhiata alla storia di Lila e Lenù alla pubblicazione del primo volume – che risale al 2011 –  seguendola mano a mano che vi si aggiungevano gli altri tre libri fino al 2014, avrei visto per tempo il burrone esistenziale in cui, invece, sono caduta. Non dico che l’avrei evitato, no, ma sicuramente, tenendo gli occhi sulla storia raccontata da Ferrante, avrei visto e capito meglio la mia, quella che mi raccontavo da sola o che mi facevo raccontare. È il potere che hanno i romanzi, i film, le serie tv quando sono fatte bene: “allargare i confini del nostro visibile”, come scriveva Pierre Sorlin in Introduzione a una sociologia del cinema, insegnarci qualcosa senza costringerci a uno sforzo immane di consapevolezza e disciplina, come confermato dagli studi sullo sviluppo umano. 

Intrattenendoci, lasciandoci emozionare e immedesimare, la tetralogia ferrantiana ci ha permesso di identificarci con le due protagoniste e le loro storie. E data la quantità di dispiaceri, tormenti, problemi e battaglie che Lila e Lenù affrontano nel corso della loro esistenza letteraria, sono davvero tantissimi gli insegnamenti da cui possiamo trarre spunto. Da questa prospettiva, la serie italo-statunitense tratta dai romanzi e diretta da Saverio Costanzo offre un rapido compendio: la seconda stagione de L’amica geniale è, in pratica, un corso accelerato sulle relazioni umane con focus specifico su come è possibile reagire in maniera produttiva alle sofferenze sentimentali, che si tratti di tradimenti, rapporti infelici o, più semplicemente, casi di amore non corrisposto. La lezione ha fatto effetto se, almeno una volta durante la visione, vi siete chiesti se Lenù sia o meno un po’ ingenua.

Nella prima stagione, il fulcro della narrazione riguardava l’amicizia bambina e fortissima tra Elena Greco e Raffaella Cerullo, fonte di emancipazione dalla povertà e dalla violenza del mondo degli adulti. Più che una morale, era possibile riconoscere una traccia importante nella loro storia: le potenzialità dell’infanzia, dell’istruzione e della fantasia, come discrimine tra chi avrà l’opportunità e la forza di ribellarsi e chi no. Resistere e combattere sono le due azioni-specchio delle protagoniste, ma il “genio” è quello di chi studia per sapere o quello di chi sa anche senza studiare? Dipende dagli ambiti con cui ci si confronta. L’amicizia poco pacifica tra Lenù che resta tra i banchi con la testa china sui libri, e Lila che la scuola è costretta a lasciarla per imparare il governo dell’universo periferico e insieme, magmatico, del rione, ci insegna che, qualunque sia la nostra scelta e condizione, avremo bisogno di stimoli ad andare avanti molto più che di un conforto. Sono le situazioni poco piacevoli, frustranti e dolorose, che temprano il nostro carattere molto più dei momenti belli, perché ci spingono a delle risoluzioni testando la nostra capacità di reazione. La lezione è che, per quanto ci auguriamo che vada tutto bene e che al nostro fianco ci siano alleati sul cui supporto e sostegno possiamo contare sempre, è possibile anzi, doveroso, saper andare avanti anche in circostanze sfavorevoli e da soli: l’importante è non smettere mai di imparare, far funzionare la testa e ricordare che anche l’affetto può tendere una trappola. La vera amicizia è, allora, quella capace di non sottrarsi né ai litigi né alla dialettica del conflitto, facendosi certezza nell’esercizio continuo di vicinanza e intimità, anche quando non è semplice né dovuto.

La seconda stagione, corrispondente a Storia del nuovo cognome, il secondo volume della tetralogia, è incentrata su un tempo che ha molte meno risorse e assai più obblighi. Lila e Lenù, ormai adolescenti, sempre amiche, vedono, ognuna alla propria maniera, lo smorzarsi degli insaziabili appetiti per la conoscenza. Provate dalla fatica del crescere in una realtà patriarcale e arretrata, smettono più o meno consapevolmente di immaginare un futuro migliore, ma continuano a risplendere negli ambienti e nei contesti più oscuri. I compagni di scuola dell’infanzia sono diventati giovani adulti, abbattuti e impoveriti. Persino Lila, da sempre feroce, coraggiosa e indomabile, si piega alle circostanze di un matrimonio che si rivela una sorta di crudele settimo sigillo, mentre Lenuccia, nonostante i risultati scolastici, continua a sentirsi inadatta alla vita e resta cauta, riservata e incapace di prendere le sue stesse difese. A cambiarle sarà l’amore. Per lo stesso ragazzo, Nino Sarratore.

È interessante notare come Nino, presentatoci come giovane uomo dinoccolato e intelligente, serio e occhialuto, abbia, per Lila e Lenù, la stessa funzione che nella prima stagione avevano la conoscenza e la cultura. Nino è una sorta di libro di testo fatto carne: entrambe vorrebbero leggerlo, e per entrambe fa da pungolo alla scoperta di un nuovo universo maschile lontano dalla ferocia e dalla violenza dei ragazzi del rione. È Nino a riavvicinare Lila alla lettura e alla vita immaginata a partire dai libri; è Nino a portare Lenuccia a credere nel valore della sua cultura e capacità di scrittura, questo malgrado qualsiasi cosa accadrà in seguito.

Che il ragazzo di cui siamo innamorate preferisca la nostra migliore amica è uno schema ricorrente ben oltre le pagine e lo schermo, ma la Sarratore experience non è solo questo, quanto il riconoscimento di una grande verità: la cultura di un uomo non indica necessariamente il suo valore come persona, anzi. Quanti di noi hanno conosciuto qualcuno che, nella teoria, aveva tutte le qualità, le sensibilità e le conoscenze giuste per farne una persona attenta, e nella pratica si rivelava un doloroso bluff? Nino, giovane uomo serio, acculturato, carico di pensieri difficilissimi, di libri, citazioni e ideali, tradisce ogni aspettativa che pure aveva contribuito a creare, mostrandosi come uno scostante maestro di mediocrità quando si tratta di sentimenti. La cultura, insomma, non lo rende più consapevole delle sue azioni, né gli permette di approcciare le fragilità e le vulnerabilità altrui in maniera rispettosa: è ambivalente con Lenuccia nel suo presentarsi, alternativamente, come molto interessato e completamente indifferente, e fa di peggio con Lila, esponendola prima a rischi importanti, e diventando poi capace, con pochissime parole e atteggiamenti distaccati, di farle male quanto e forse più dei ragazzi del rione che minacciano in maniera scomposta, picchiano e violentano. Nino si sottrae, scappa, recalcitra, appena si sente sotto pressione. Ma se alla prevaricazione chiara e manifesta ci si può ribellare anche quando la società la dà per scontata, la sua forma di prepotenza è assai più sottile e crudele: domina nascosta dietro il silenzio e le buone maniere.

È impossibile dire, senza fare spoiler, come e perché il personaggio del giovane Sarratore finirà per fare da emblema della conoscenza senza coscienza, arrivando a farci rivalutare suo padre – l’atteggiamento viscido e assai più spudorato da cui è possibile prendere le distanze cogliendone il ridicolo – ma possiamo dire che Elena Ferrante, nel creare il suo personaggio, ha dichiarato di “voler mostrare gli effetti della superficialità quando sono combinati con una buona istruzione e una moderata intelligenza”.  “Nino,” ha spiegato la misteriosa scrittrice, “è un uomo intelligente ma superficiale, un tipo di uomo che conosco molto bene”. Eppure, anche da ciò che succede a Lila e Lenù quando si confrontano con lui, possiamo imparare.

Più precisamente, è Lenuccia con il suo amore non vissuto, non corrisposto eppure tradito, a insegnarci come è possibile reagire in maniera produttiva al rifiuto e alla frustrazione sentimentale. La prima lezione è: non sempre vi è un rapporto di causa-effetto tra ciò che siamo e ciò che fanno gli altri. Quando qualcuno si comporta da stronzo, insomma, non è sempre colpa nostra. “Perché Nino si era comportato a quel modo. Baciava Nadia, baciava me, baciava Lila. Come poteva essere la stessa persona che amavo, così seria, così carica di pensieri. Passarono le ore, ma mi fu impossibile accettare che fosse tanto profondo nell’affrontare i grandi problemi del mondo, quanto superficiale nei sentimenti d’amore. Cominciai a mettere in questione me stessa”.

Il secondo insegnamento importante arriva quando Lenuccia decide, in maniera consapevole, di sospendere il ruolo di muta osservatrice della storia d’amore tra Lila e Nino e, per la prima volta, pensare a se stessa con cognizione di causa: “Mi dicevo ogni giorno: sono quello che sono e non posso fare altro che accettarmi; sono nata così, in questa città, con questo dialetto, senza soldi; darò quello che posso dare, mi prenderò quello che posso prendere, sopporterò ciò che c’è da sopportare”.

In un’epoca in cui, grazie ai social, siamo continuamente nella posizione di sapere tutto, ma proprio tutto, di chi ci ha spezzato il cuore, deluso, tradito e ingannato, potremmo pensare al micro-mondo del rione come una sorta di facebook. Il vero, primo gesto di ribellione di Elena Greco, Lenù, è, allora, chiudere, almeno per un po’, l’account: riprendere, se non a vivere, almeno a studiare, invece di stare a guardare. 

“Mi imposi una disciplina ferrea, molto più dura di quella che mi ero data fin dall’infanzia. Tempo scandito, una linea retta che andava dall’alba fino a notte fonda. In passato c’era stata Lila, una continua felice deviazione verso territori sorprendenti. Ora tutto ciò che ero volevo ricavarlo da me. Avevo quasi diciannove anni, non sarei mai più dipesa da nessuno, e di nessuno avrei mai più sentito la mancanza”.

C’è, infine, un’ultima indicazione, consegnataci da Elena Ferrante e portata sullo schermo dalla serie tv prodotta da Wildside e Fandango in collaborazione con Rai Fiction, TIMVision, Umedia ed HBO. Ed è forse la più importante di tutte: la forza e il potere sono degli inganni e sono, soprattutto, situazioni momentanee. La vera risorsa è la pazienza e la costanza. È per questo che, in confronto a Nino e ai suoi inganni ben argomentati, le fughe davanti alle responsabilità scusate da una biblioteca di sociologia, a brillare alla fine della stagione, è un personaggio mite al punto da esser stato considerato stupido: Enzo Scanno. Il bambino con il cappello da asino che vende frutta e verdura, è ora un uomo capace di far ciò che è giusto e non solo quel che conviene, vedere, dietro la risata di Lila e le sue battute, un segno di malessere e riuscire in quello in cui tutti, fino a quel momento, avevano miseramente fallito: prendersi cura della fragilità senza approfittarne. È a chi è capace di questo al di là di libri, diplomi e ritorni personali, che dovrebbe andare, non solo la nostra stima, ma anche la nostra attenzione. E forse oltre a “Fuck Nino Sarratore”, la seconda stagione dell’Amica geniale ci insegna che dovremmo cominciare a dire “Find your own Enzo Scanno”.

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