Erano dieci anni che non riascoltavo il quintetto di Schubert – intendo il quintetto per archi in do maggiore op. 163, D. 956 (e lo specifico perché non lo confondiate con “La Trota”). Non lo riascoltavo per scelta. Immaginatevi quindi la mia sorpresa appena ho sentito la prima nota, inconfondibile, dell’Adagio, quel si ripetuto del primo violino che si fa strada come indugiando, ma con una certa insistenza, mentre mi passavano sotto gli occhi le enormi muraglie di grattacieli residenziali di Gentrification, realizzato nel 2014 da Alberto Mielgo, tra i cortometraggi del regista e direttore artistico spagnolo che verranno proiettati in sua presenza sabato 14 settembre alle 16:30 al Cinema Godard di Fondazione Prada a Milano, nella sezione di proiezioni #Studio, un percorso che esplora le contaminazioni più inedite tra cinema e linguaggi visivi.
Non avrebbe quindi dovuto stupirmi questo incrocio d’elezione tra orecchie e immagini. Unico tratto capace di alleviare l’austerità della forma di infinite e inscalfibili – e forse vuote – unità residenziali uno stormo di uccelli neri, particolari (nel senso di non-compatti), capaci di muoversi nel vuoto con leggerezza e creando un brutale stacco con l’accumulo architettonico, con la proliferazione urbana dell’umano. Ecco, quella nota, quel si, è inconfondibile perché sembra tagliarti il cuore in due con un filo di nylon, e poi trascinarlo lontanissimo, insieme allo stormo che vola e rende impossibile non pensare a “Campo di grano con volo di corvi” di Vincent van Gogh, anche se in maniera straniante, del tutto diversa, quasi accogliente, consolante. È così che inizia – e finisce – Gentrification.
Ho evitato con cura di ascoltare il quintetto di Schubert per tutti questi anni come si evitano tutte le cose che ci infrangono, che ci mettono in pericolo, per quanto in maniera figurata – ed è proprio questo che l’arte dovrebbe fare. Ho evitato di ascoltarlo perché è doloroso, ma chi lo conosce si riconosce. O meglio riconosce un sistema di sensibilità e percezioni tuttora valido, a 196 anni dalla sua creazione, e probabilmente già esistente molto prima, aspettava solo che una mente gli desse una forma linguistica, traducibile e riproducibile. Il quintetto per archi dura circa 53 minuti, è un viaggio; e se per ascoltarlo serve molto coraggio, o incoscienza, per usarlo come “colonna sonora”, ne serve ancora di più. Ovviamente Mielgo non lo usa come tale, la musica fin dall’inizio ha la stessa consistenza e presenza dell’immagine, cosa ben poco scontata, che dimostra l’enorme capacità del regista – vincitore dell’Oscar per il miglior cortometraggio d’animazione per The Windshield Wiper nel 2022, che verrà sempre proiettato al Cinema Godard – di ibridare linguaggi entrando a pieno titolo nel territorio dell’arte visiva. Non a caso Mielgo opera nel campo dell’arte digitale e dell’animazione, spaziando dalla musica (all’inizio della carriera si occupava delle esibizioni live dei Gorillaz) al game design, The Beatles: Rock Band e la serie Tron: Uprising, per cui ha vinto un Emmy e un Annie Award, e nel 2018 lavora come scenografo e consulente visivo per Spider-Man: un nuovo universo, che si aggiudica un Oscar come miglior film di animazione. Insomma, dove mette piede Mielgo si fa notare.
Oltre a Gentrification e a The Windshield Wiper, al Cinema Godard si potranno vedere proiettati sul grande schermo Ubisoft’s Watch Dogs Legion (2020) il trailer del sequel di Watch Dogs 2 della Ubisoft, The Witness (2019) realizzato per la prima stagione dell’acclamata serie animata Love, Death & Robots, che ottiene tre Emmy e un Annie Award; Pill (2010); e Jibaro, il suo lavoro più recente realizzato nel 2022 stavolta per la terza stagione di Love, Death & Robots, e che si è aggiudicato due Emmy Award, consolidando ulteriormente la reputazione di Mielgo come figura di spicco dell’industria dell’animazione contemporanea.
I corti di Mielgo hanno il respiro dei lungometraggi. Anche se durano pochi minuti. E la sua poetica attinge a piene mani dall’universo della street art, ma anche dei fumetti e del gaming. In Watch Dogs: Legion, Mielgo affonda nell’estetica underground del videogame (una vera e propria ucronia londinese) un personaggio simile a un goblin della subcultura, immerso nel mondo dei graffiti, che appare come una scheggia impazzita, un elemento sociale singolo ma in grado di far impazzire il sistema, creando uno stato di tossicità fino a farsi espellere, e trascinando con sé un taxista. “Reclaim your future” è lo slogan che appare alla fine, quasi in una schermata di hacking. La critica è al sistema, di potere e dei media. Essere parte della società – soprattutto tanto violenta e controllata – significa stare al sicuro ma paradossalmente non esserlo affatto, contribuire alla fine del mondo.
Il gioco è ambientato in una Londra distopica e segue le vicende dei membri del sindacato di hacker DedSec mentre cercano di ripulire i propri nomi dopo essere stati incastrati per una serie di attentati terroristici. Durante la ricerca dei colpevoli, DedSec tenta anche di liberare i cittadini di Londra dal controllo di Albion, una compagnia militare privata oppressiva che ha trasformato la città in uno stato di sorveglianza dopo gli attentati. Mielgo si è lasciato ispirare da questo setting per sviluppare una riflessione sulla nostra ormai dipendenza consustanziale e continua dalla tecnologia: abbiamo bisogno di strumenti digitali per compiere quasi tutte le azioni della nostra vita quotidiana, in primis banalmente per spostarci da un punto all’altro di una città, altrimenti siamo persi. Questa dipendenza, se da un lato ci potenzia ed è estremamente comoda ed efficace, dall’altro ci rende una specie estremamente vulnerabile secondo il regista (e non solo), per questo la sua attenzione è stata attratta dai vecchi cab londinesi, che per certi aspetti appaiono nella Londra contemporanea quasi come degli elementi anacronistici, dei simboli appunto, è così che ha affidato la storia alla figura di un taxista, un personaggio che non ha bisogno della tecnologia per orientarsi, che padroneggia la mappa e il territorio. E quindi è libero, è l’antitesi perfetta del mondo in cui vive, l’unico possibile eroe.
Anche Pill riprende questa riflessione pur declinandola in maniera diversa e con una resa grafica molto diversa, al pari delle tecnologie digitali, infatti, anche le pillole, che possono essere intese come droghe, ma anche come farmaci, sono strumenti capaci di potenziarci, o comunque elementi al nostro servizio, ma anche in questo caso nascondono ciò che le filosofie asiatiche chiamavano il “seme”, ovvero un nucleo di dipendenza che se da un lato ci permette di uscire da una condizione dolorosa dall’altro resta comunque un oggetto che la sostituisce, mantenendoci comunque in una situazione di giogo. E impedendoci di essere realmente liberi.
In The Windshield Wiper (“Il tergicristallo”) per certi aspetti ci sono degli elementi che ricordano l’opera di un altro grande regista Richard Linklater, affine a Mielgo anche per quanto riguarda alcuni di questi temi (come la solitudine, l’inconscio, l’esplorazione dei meandri della cognizione umana e gli amori disattesi), eppure nel giro di un quarto d’ora la realtà si svela e si ribalta, come una vera e propria epifania. Ad accompagnare la canzone, come un battito cardiaco, il famoso ritmo incalzante del cavallo quando torna a casa, dal titolo a dir poco evocativo “We Might Be Dead By Tomorrow” dei SOKO: “So let’s love fully and let’s love loud / And let’s love now / ‘Cause soon enough we’ll die”. Il corto appare come un vero e proprio manifesto politico dell’amore, e ancora una volta si interseca all’eredità delle altre esperienze artistiche di Mielgo, per quanto parlando un linguaggio estremamente diverso.
La persona che mi fece sentire per la prima volta il quintetto di Schubert diceva anche che se incontri più volte per strada la stessa persona che non conosci deve avere per forza un messaggio per te. Quel messaggio, qualunque esso sia, quella forma che assume il caso, andrebbe colta, anche secondo Mielgo, che appare talmente sicuro della sua visione da non ammettere compromessi, da trascinarti nel suo mondo e in questo caso aprire un dialogo con un’altro grande artista, Jimmy Liao. In The Windshield Wiper in particolare sembrano infatti confluire alcuni titoli famosissimi dell’illustratore taiwanese, come Libero come un pesce e Incontri disincontri; ma anche The Eternal Sunshine of the Spotless Mind. Mielgo ha la capacità di trasferire l’alchimia della sua visione in ogni stile estetico e compositivo che frequenta, di condensare eredità e visioni, come ogni grande artista.
La critica all’individualismo, alla disattenzione e alla disabituazione alla relazione contemporanea all’inizio è feroce, quasi ricorda l’indimenticabile discorso di David Foster Wallace “This Is Water”. Una coppia che fuma in silenzio davanti al mare, un manager, le uniche tracce d’eros trasformate in marketing e pornografia, stickers, un barbone che in una lingua quasi incomprensibile parla a un manichino di donna in una vetrina scintillante, di là da un vetro, la implora di guardarlo, di rispondergli quasi, di dirgli qualcosa (come nel Manfred di Schumann, tratto dall’opera di Lord Byron, “parlami” supplica l’antieroe romantico per eccellenza a una donna fantasma, la sua amata sorella Atarte). Mielgo impietoso ci porta sotto gli occhi una carrellata di solitudini, un suicidio in una megalopoli crea scalpore per un istante e poi tutto torna come prima, un’amore non colto senza nessuna buona ragione, messaggi ribattuti nello spazio siderale da un satellite, un uomo e una donna che scrollano tinder davanti al banco frigo di un supermercato rischiando di sfiorarsi, ma senza farlo mai, nemmeno quando a pochi centimetri di distanza si matchano, la scarica di dopamina data dallo scroll infinito e la forza dell’abitudine innescata dal vuoto e dalla noia (che tutti noi ben conosciamo) è più forte, entrabi vanno avanti. L’amore è messo in stand by, caduto nel vuoto, ogni tentativo reciso. Ma a Berlino qualcosa si muove, o meglio, cambia direzione, sceglie di farlo. Così, come in portoghese – lingua di uno dei tanti spezzoni di storie che vanno a comporre il corto – pare ancora possibile amarsi, vedere e distinguere dei colori, piano piano la dissociazione virtuale dell’affetto ritrova un corpo. Che cos’è l’amore si chiede il personaggio che pare aver ricordato, o immaginato tutto questo. L’amore è una società segreta. Ecco cosa ci dicono le opere di Mielgo, e direi che non sia necessario aggiungere altro.