Nello stilare una classifica dei miei personalissimi migliori film del 2017 non posso che partire da due dati di fatto. Il primo è che viviamo in un paese che, a livello di distribuzione nelle sale, è a dir poco in ritardo rispetto al resto del mondo.
Basta leggere un po’ su internet classifiche varie dei migliori film del 2017 per rendersi conto che molti dei titoli inseriti in Italia non si vedranno fino al 2018 inoltrato. Lady Bird, il primo film ad aver ottenuto un clamoroso 100% su rottentomatoes – poi fatto scendere al 99% – da noi uscirà il 19 aprile, quasi cinque mesi in ritardo rispetto agli States. Ci sono poi Killing of a Sacred Deer di Lanthimos, The Shape Of Water di Del Toro, The Florida Project di Sean Baker che, addirittura, una data di uscita ancora non ce l’ha. E allora mi chiedo, com’è possibile? Ci saranno sicuramente delle logiche legate al nostro mercato ma, essendo il nostro mercato in conclamata crisi da non so quanti anni, bisogna veramente continuare a seguirle queste logiche?
Il secondo dato di fatto è che ho visto meno film. E, come me, credo anche voi. Con l’avvicinarsi della fine dell’anno, mi sono reso conto che molti tasselli mi mancavano, che dovevo correre per recuperarli. Troppo tempo avevo dedicato alle serie tv, troppo tempo ai documentari o alle serie documentarie (ditemi, vi prego, che avete visto Wormwood di Errol Morris). Nel recuperare i film che mi mancavano mi sono anche reso conto che, ormai, il mio fisico faceva fatica a tenere le due ore del film. Avevo bisogno in mezzo di una pausa, di uno spuntino, di qualcosa che interrompesse la visione, indicativamente intorno ai cinquanta minuti. Tutto sta cambiando e il cinema deve prendere una posizione forte rispetto a questo cambiamento, non si può continuare a fare finta di niente.
Ma veniamo alla classifica in cui, specifico, non ho inserito i film distribuiti in Italia nel 2017, ma prodotti in America nel 2016. Quelli sono film del 2016, capito distributori?
THE MEYEROWITZ STORIES di Noah Baumbach
È un piacere vedere Noah Baumbach tornare a casa, a film incentrati sulla famiglia, e abbandonare il terreno scivoloso dell’hipsteria che aveva contraddistinto le sue ultime due produzioni, While we were Young (2014) e Mistress America (2015). Siamo tornati nei territori di uno dei suoi primi e, a mio parere più riuscito, film, The Squid and the Whale (2005), meraviglioso e intimo ritratto di una famiglia benestante newyorkese con un Jeff Daniels superbo e una regia degli attori che, all’epoca, ci aveva fatto gridare alla nascita di un bravissimo e nuovo regista. Invece poi Noah si era un po’ perso. Sì, Frances Ha (2012) era carino, ma niente di più – e dire carino ad un film, spesso rasenta l’offesa più che il complimento – Greenberg (2010) poi era proprio brutto. Invece il ritorno ad un focolare ha portato bene a Baumbach e questo The Meyerowitz stories funziona, nonostante la lunghezza, nonostante la famiglia raccontata non sia effettivamente attorno allo stesso focolare. Dustin Hoffman è un padre fallito e pieno di rimorsi, come tanta letteratura americana contemporanea ci ha abituato a leggere, e riversa sui suoi figli tutta la sua accidia e il suo rimpianto. I figli, come sempre, fanno quello che possono per sopravvivere al peso di un padre ingombrante. Bellissimi dialoghi, scritti come soltanto uno sceneggiatore da Oscar può scrivere, ritraggono personaggi vivi, interpretati da attori che ritrovano lustro dopo tante performance mediocri, vedi Adam Sandler e Ben Stiller. Nota finale, che vale la pena citare, questo insieme ad Okja è uno dei film prodotti e distribuiti da Netflix che tanto ha fatto scalpore al festival di Cannes di quest’anno, con buona pace di Pedro Almodovar.
THE BIG SICK di Michael Showalter, ma soprattutto scritto da Emily Gordon e Kumail Nanjiani
Eh non c’è niente da fare, io le RomCom me lo godo proprio. So che questa posizione farà storcere il naso ai duri e puri della critica cinematografica (ma come! Dove sta The Beguilled di Sofia Coppola!) ma a me questo film ha fatto fare tutto quello che un film dovrebbe indurre a fare: ridere e piangere. La storia vera della nascita dell’amore tra Emily e Kumal, prodotta da quel furbacchione di Judd Apatow, si inserisce a gamba tesa nel filone di commedie romantiche gravitanti intorno al mondo della stand up comedy. Il filone, inaugurato dell’ei fu Louis CK, è ormai diventato un genere cinematografico e televisivo a sé stante che, a dirla tutta, ha pure un po’ rotto. Eppure, in The Big Sick, qualcosa succede, ed è la stessa cosa che succedeva nella serie Louie: entra il dramma. Succede qualcosa che nessuno si aspetta da una commedia e, senza che tu te ne possa rendere conto, gli angoli della bocca si sono chinati dall’alto verso il basso, e ti ritrovi a piangere, guardandoti in giro, sperando che nessuno se ne accorga. Troppo spesso il rischio, negli stand up movies (l’ho inventato io? Ho appena inventato un genere?) è di ritrovarsi davanti a delle macchiette, dei personaggi che guadagnano il centro dello schermo cinematografico solo perché comedians con un microfono davanti. Kumal, invece, sembra una persona vera. Così come lo sembrano i genitori di Emily, tratteggiati con delicatezza nella fragilità del momento emotivo che si ritrovano costretti a vivere. Insomma, The Big Sick è una delle commedie più riuscite degli ultimi anni sulla diversità razziale in America, oggi.
GET OUT di Jordan Peele
Non sono un grande fan dei film Horror. Il mio grosso problema è che mi fanno veramente paura. Nonostante riesca a prevedere alla perfezione i tempi dello spavento, del BU! dell’anta dell’armadietto dei medicinali che si chiude e dietro c’è sempre una faccia spaventosa, nonostante tutto questo, non riesco a evitare urletti isterici e mani davanti agli occhi per tre quarti della proiezione. Ma l’esordio alla regia dell’attore e sceneggiatore afro americano Jordan Peele è molto più di un semplice Horror. Get Out è una satira sociale acuta e divertente sull’America razzista. Come dice il regista, “è un film per Obama, scritto alla Tarantino”. Un giovane ragazzo di colore sta insieme a una bella ragazza bianca. È il momento di conoscere i genitori di lei e lui si interroga su come reagiranno scoprendo il colore della sua pelle. Lei sgrana gli occhi: “ma come? I miei genitori sono molto più progressisti di quello tu pensi!”. E invece, nella casa di campagna dei genitori, tutto succede tranne che il progresso. Sì, nonostante caschi sotto il cappello dell’Horror, non definirei Get Out un film dell’orrore, se non per la straordinaria capacità che ha avuto spesso questo genere di riflettere tensioni e paure della società americana. Non erano forse gli zombie di Romero una meravigliosa metafora del diverso, del comunista, dello straniero che si rialza per mangiare il capitale americano? Il terrore, nei film horror americani, è spesso e volentieri maschera di una paura o di una fobia molto reale. E Get Out non fa ovviamente eccezione. Scritto ben prima dell’epoca Trump, il film esce alla perfezione in un periodo di White Supremacism e di muro contro i messicani. Se non lo avete visto recuperatelo, e se non volete cogliere il lato sociale, perché non vi interessa o non è roba vostra, guardatelo e basta divertendovi. Se ci sono riuscito io senza mettermi le mani davanti alla faccia, potete riuscirci anche voi.
THE KILLING OF A SACRED DEER di Yorgos Lanthimos
Sì, lo so, ho detto che in Italia deve ancora uscire, ma io l’ho visto lo stesso. E l’ho visto pochi giorni dopo aver visto Mother! di Aronofsky. Tanto ho amato Lanthimos, quanto ho odiato Aronofsky. Mi sento di avvicinarli perché partono da un presupposto di base abbastanza simile, ovvero mettere di fronte lo spettatore ad una storia che non trova risposte, ma parte da un assunto folle che deve essere considerato come un dato di fatto. In Mother! questo assunto è che, da quando Ed Harris entra in casa di Jennifer Lawrence, tutto va in miseria nel peggiori dei modi, senza motivo, senza criterio. In TKOASD l’assunto è che Colin Farrel ha commesso un tremendo errore. È quindi normale che qualcosa di molto simile a una piaga biblica si abbatta su di lui. Questi due film non sono i primi a usare un simile stratagemma: si veda ad esempio Funny Games di Haneke. La differenza sta, credo, nel piacere della visione. Mentre guardavo Mother! continuavo a non capire nulla di quanto stesse succedendo. Ho dovuto interpellare Wikipedia successivamente per apprendere che quello a cui stavo assistendo era una allegoria della creazione. Bizzaro, perché a me sembrava la storia di una casalinga che voleva a tutti i costi mantenere la casa in ordine, pulita, contro una schiera di maleducati che entravano e le pisciavano sul parquet. In TKOASD, invece, ho goduto di ogni minuto nonostante non capissi il perché succedessero molte delle cose che avvenivano sullo schermo. Lanthimos, nell’assurdità del suo universo cinematografico (non dimentichiamoci le trasformazioni in aragoste del suo precedente The Lobster), rispetta sempre lo spettatore, offrendogli divertimento indipendentemente dalla riuscita del messaggio. L’universo strano di TKOASD, è un mondo dove dei veri personaggi subiscono vere pene, per veri crimini. E se si riesce a sospendere per un attimo la propria incredulità, si crede che certo, è normale che ai figli di Farrel sanguino gli occhi, perché lui è un colpevole e va punito.
DUNKIRK di Christopher Nolan
È il film di cui si è parlato di più quest’anno e sì, io sono tra quelli che hanno gridato al capolavoro, al contrario di chi invece non lo ha affatto gradito. Ho gustato ogni secondo di quest’opera, ci sono cascato dentro dal primo minuto. E mentre in molti storcevano il naso di fronte ai cartelli “una settimana” “un’ora” etc, io ero già su quella spiaggia e mi dovevo salvare dai nazi. Dunkirk è tutto quello che chiedo a un film, ed è esattamente quello che voglio quando spendo dodici euro e più di due ore del mio tempo seduto vicino ad altri esseri umani. Spingere il film ai confini del documentario, così come Errol Morris ha spinto il documentario ai confini del film, è credo l’operazione più moderna e contemporanea che un regista possa fare oggi giorno. Nolan scompare, e lascia che la vita dei personaggi che sceglie di raccontare ci investa in 70mm, ovvero più reale del reale. Che è esattamente quello che il cinema dovrebbe fare: portarci in un mondo che non ci appartiene e farcelo vivere in prima persona. Avvicinare Dunkirk alla logica dei role play è un’assurdità. Non stiamo giocando con le vite delle persone, non c’è un punteggio ogni qual volta un nazista viene colpito o un suo aereo affonda nell’oceano. Non abbiamo mai noi il potere di comandare gli aerei alleati. Tutto quello che noi possiamo fare è scegliere se guardare o non guardare. A Roma, quando qualcosa non interessa, non colpisce, si usa l’inflazionato esticazzi. In molti sono usciti dalla sala dicendo “esticazzi”, chiedendosi cioè a cosa avessero assistito, quale fosse lo scopo della visione, che messaggio Nolan avesse voluto lasciarci. Io credo nessuno. Non credo ci fosse un messaggio da leggere tra le righe di Dunkirk. Nolan è l’ultimo grande demiurgo e, come tale, ci pone di fronte a degli spiragli di vita. Cosa fare con quegli spiragli è responsabilità esclusivamente nostra.