Quando penso agli Emirati Arabi Uniti mi viene in mente Criminali da strapazzo, il film di Woody Allen del 2000 in cui una coppia proletaria – Ray (Allen) e Frenchy (Tracey Ullman) – diventa milionaria da un giorno all’altro e va a vivere in un super appartamento di Manhattan, stracolmo di preziosa chincaglieria kitsch e in cui vengono invitati a cena membri dell’alta società. A una di queste cene Frenchy ascolta gli ospiti prenderli in giro per il loro cattivo gusto, la scarsa cultura e la totale mancanza di sofisticatezza: decide così di frequentare un gentleman acculturato – interpretato da Hugh Grant – per alzare i suoi standard e imparare a vivere come i veri ricchi.
Ecco, Abu Dhabi ha fatto un’operazione simile aprendo una succursale del Louvre, che assomiglia piuttosto a un incrocio tra un hammam futuristico e la casa di qualche cattivo di James Bond, base missilistica segreta compresa. Hanno acquistato il “marchio”, come si potrebbe comprare un coccodrillo verde di stoffa da cucire sulla propria polo in fibre di petrolio: è costato agli emiri ben 520 milioni di dollari, per l’utilizzo del nome per i prossimi trent’anni, più altri 747 per consulenze future e prestiti di opere d’arte dalla sede originaria di rue de Rivoli. La Francia ci inoltre ha guadagnato anche l’ordine di quaranta aerei Airbus. Così il Louvre del Medio Oriente è stato inaugurato il novembre scorso da un sorridente Emmanuel Macron, circondato da eminenze in Thawb che sembravano uscite da Tintin nel Paese dell’Oro Nero.
Il piano prevede di comprare anche il marchio Guggenheim e di aprirne una sede disegnata da Frank O. Gehry, per poi realizzare una succursale della New York University e un museo marittimo disegnato da Tadao Ando. L’idea è quella di costruire un polo culturale da fare invidia a tutte le stratificazioni medievali delle città europee e al cash di Paul Getty, ma trattandolo come fosse un centro commerciale in cui si aprono boutique di Benetton e di Accessorize. E chi è stato l’acquirente del quadro più caro del mondo, il Salvator Mundi di Leonardo, andato all’asta per 450 milioni di dollari? Bader bin Abdullah bin Farhan al-Saud, che lo presterà per esporlo proprio al Louvre di Abu Dhabi. Spendi spandi effendi.
Anche Dubai, altra città degli Emirati, ha deciso di costruirsi un pezzo di cultura, ma invece di prendere in prestito un Monet gli sceicchi hanno deciso di far erigere una gigantesca cornice, ovviamente d’oro e con luci al led integrate. “The greatest framework of the world”, l’hanno subito ribattezzata, ma ricorda piuttosto un arco di St. Louis in versione spigolosa o una versione XL di un regalo da prima comunione fatto da qualcuno che non ti conosce bene. Il rettangolo, alto 150 metri e lungo 93, è stato costruito dall’azienda tedesca di ascensori ThyssenKrupp e dalla municipalità di Dubai, ed è stato disegnata dieci anni fa dall’architetto Fernando Donis. Sulla paternità del progetto si è scatenata una polemica, perché (insieme a un premio di 100mila dollari) e ha poi ricevuto un contratto in cui veniva menzionato come semplice consulente, e in cui c’era scritto che non avrebbe potuto visitare il cantiere né promuovere come sua proprietà intellettuale l’opera finita; lui non ha firmato il contratto e loro hanno iniziato a costruire the Frame senza di lui. E hanno reso il tutto più appariscente rispetto al disegno , come passare da una cornice Ikea a uno specchio di un hookah bar.
Come tanti elementi architettonici del golfo, the Frame non è bellissima, ma è potente. Non serve scomodare né il Saggio sul gusto di Montesquieu, che Diderot pubblicò sull’Enciyclopédie per sottolineare la relatività di ciò che possiamo considerare bello, né i proverbi della nonna: “Ciascuno fabbrica il suo nido come gli sembra meglio”. Ma per chi è cresciuto a pane e Bernini, un rettangolone di glasso laminato dorato e luminoso sembra la rappresentazione fisica della ubris del selfie-stick.
The Frame incornicia da un lato la nuova Dubai e dall’altro la vecchia, la città di Deira, vecchio porto per la pesca di perle. È quella nuova che però interessa a tutti, non ci sono dubbi: quella foresta di fallicismo architettonico, il risultato di una partita a SimCity giocata usando i trucchi, tra cui svetta il Burj Khalifa, il grattacielo più alto della storia – quasi un chilometro di altezza. E poi la collezione di isole artificiali (le due Palme, Jebel Ali e Jumeirah) e The World, che ricreano un mappamondo su mare e hanno come acquirenti miliardari e star di Hollywood e Bollywood – tra i vari si dice ci siano anche Brad e Angelina Pitt (prima della separazione), che avevano scelto quella che rappresenterebbe l’Etiopia, in linea forse con la loro anima Unicef, e poi Michael Schumacher e David Beckham.
Sul pavimento trasparente di the Frame ci si può passeggiare, cosa che già il giorno dell’apertura, il primo gennaio 2018, ha fatto impazzire gli utenti di Instagram, invaso da video girati in verticale di Nike che calpestano plexiglass. #wow. #daquisivededovehoparcheggiato. All’interno c’è un museo che racconta la storia di Dubai, “da villaggio di pescatori a metropoli”, grazie a strumenti “uditivi, visuali e olfattivi”. Chissà se mostra com’è possibile passare in tutti gli Emirati da appena un milione di abitanti (anno 1980) a dieci milioni e a un prodotto interno lordo che nel 1990 era di 50 miliardi di dollari e oggi supera i 350 – ma forse basterebbe il disegno di un barile di petrolio. Dopo aver goduto della vista sulla città si arriva a un mezzanino: in un tunnel video in 3D mostrano il futuro di Dubai: “L’idea è quella di creare l’illusione del viaggio nel tempo, attraverso un percorso di distorsione turbinante, e arrivare nella città tra cinquant’anni nel futuro”. La struttura, infatti, riprende sulla superficie la trama a cerchi che sarà il simbolo di Expo Dubai 2020.
Già dieci anni fa il Guardian si chiedeva: quanto può durare il boom di Dubai? In futuro gli sceicchi, con la loro economia basata sul petrolio, dovranno trovare nuove entrate, visto lo spettro del riscaldamento globale, il calo del prezzo al greggio e Mr.Musk pronto a inondare il mondo di Tesla elettriche auto-guidanti, che ci avvicineranno sempre di più all’indipendenza dai combustibili fossili. Ed è proprio sul turismo e sulla cultura che gli emiri stanno puntando da anni, con parchi divertimento, montagne innevate al coperto, spiagge con l’aria condizionata, acquari, shopping district dappertutto – ma anche con il tentativo di diventare un nuovo polo per le transazioni finanziarie, che rimpiazzi piano piano lo stock exchange di New York e Londra grazie anche a tassazioni più limitate.
Un primo passo verso una maggiore responsabilità – un po’ come il diciottenne che si apre il primo conto in banca – arriva dallo sceicco Mohammed bin Rashid, chiamato “Big Mo” dai suoi sostenitori, primo ministro dei sette Emirati ed emiro sovrano di Dubai, che ha inaugurato lo scorso novembre la prima fabbrica di produzione di banconote dell’unione di monarchie assolute. Prima i soldi venivano comprati dalla Francia, dall’Inghilterra (le banconote) e dal Canada (le monete). “Nessun uomo è abbastanza ricco da ricomprarsi il proprio passato”, diceva Oscar Wilde. Ma il proprio futuro sembrerebbe di sì.