Il crollo del Ponte Morandi e la sua ricostruzione hanno riportato all’ordine del giorno il rapporto malato che ha l’Italia con le infrastrutture. E un raffinato progetto di ingegneria che implode su se stesso è l’ennesima eccezione – spesso catastrofica – con cui il nostro Paese viene tristemente associato.
Ma c’è anche un altro ponte che rappresenta bene ciò che l’Italia è diventata e ciò che invece avrebbe potuto essere: quello sullo Stretto di Messina.
Nell’Europa del Ventunesimo secolo, un attraversamento stabile dello Stretto tra Scilla e Cariddi sarebbe più che opportuno, a patto che sia un progetto realizzabile in tempi umani e a costi sostenibili, accompagnato da una serie di miglioramenti delle reti viarie e ferroviarie sia sull’isola che sul continente, come coronamento a Sud dell’ambizioso corridoio scandinavo-mediterraneo che dovrebbe essere ultimato entro il 2030 nella rete TEN-T del progetto infrastrutturale paneuropeo CORE. Ma pur essendo in Europa – sperando di restarci – viviamo in Italia, il Paese con la più bassa percentuale di opere pubbliche completate nei tempi e nei budget stabiliti in zona Euro, e anche la più alta incidenza di varianti in corso d’opera e di incompiute. È probabile che i nostri problemi rappresentino soluzioni per qualcun altro, ma per noi sicuramente fruttano più studi, più commissioni, più gare, più subappalti, più penali o cambiali elettorali da incassare, o far incassare.
Uno degli aspetti più inquietanti emersi per il Ponte e leggibile attraverso la cortina della propaganda non è di carattere burocratico, ma tecnico. E dato che – ancor più a questi livelli – qualsiasi scelta tecnica viene sancita da una serie di fattori politico-economici – è utile contestualizzarlo, ricordando i principali avvenimenti che hanno fortemente condizionato la sua storia travagliata.
L’impegno di realizzare il Ponte sullo Stretto nasce cinquant’anni fa, nel 1969: ancora non era in voga accettare progetti gratuiti per grandi opere come questa, per cui si invitarono i migliori strutturisti internazionali in un concorso di idee bandito dal Ministero dei Lavori Pubblici. In tanti intuirono già allora che la soluzione a campata unica sospesa era da evitare per le particolari condizioni geologiche e dinamiche che caratterizzano lo Stretto. Che, a dispetto del nome, è un tratto di mare dalle dimensioni ragguardevoli – 3,2 km di ampiezza – per cui servono accorgimenti tecnici e strutturali particolari. Di 143 progetti presentati ne vinsero ex-aequo sei primi e sei secondi, il che equivale a dire che non vinse nessuno – forse, a pensar male, perché non poteva vincere il “predestinato”, evidentemente inferiore a molti altri.
Nel 1971 viene sancita con la Legge 1158 la costituzione della Stretto di Messina S.p.A. – la futura concessionaria, avviata nel 1981 con capitali Italstat (IRI) al 51% e Ferrovie dello Stato, ANAS, Regione Sicilia e Regione Calabria con il 12,25% ciascuna – e viene affidato al Gruppo Ponte di Messina S.p.A. – uno dei vincitori del primo premio che non si era certo distinto per innovazione, con una banale soluzione a tre campate – un “rapporto di fattibilità” per il futuro ponte, con buona pace degli altri vincitori. Questo gruppo non è composto però da un manipolo di sprovveduti: è stato costituito con chiaroveggenza già nel 1955, quattordici anni prima del concorso, da Finsider (gruppo IRI), Italstrade (controllata al 100% da Iritecna SpA, holding del Gruppo IRI), Fiat, Italcementi, Pirelli, e caso volle che nel frattempo IRI aveva in dote il 51% della società concessionaria e committente.
Nessuno allora nota il conflitto d’interesse, e dopo svariati governi il ponte riaffiora in un convegno organizzato nel luglio 1978 dall’Accademia dei Lincei: il progetto ha subìto una metamorfosi, e rispetto a quello firmato per il concorso dallo stesso gruppo sfoggia una ipertrofica campata unica di 3.300m, una lunghezza ancora oggi insuperata.
Nel frattempo ENI sponsorizza una opzione alternativa, anch’essa tra i primi premi ex-aequo nel concorso del 1969: firmata dagli inglesi Grant+Partners, propone una sezione di tre tubi incamiciati in cemento (ferroviario al centro e stradale ai lati), sommersa a circa 20 metri dalla superficie, strallata sul fondo marino e sostenuta per contrasto dalla spinta di Archimede. È il primo esempio di soluzione SFT (Submerged Floating Tunnel) nella storia dell’ingegneria, un vero e proprio uovo di Colombo che usa a proprio vantaggio forze fisiche gratuite mantenendosi invisibile in superficie. Ma ha un problema: ENI conta meno di IRI.
Seguono altri cambi di governi e nel 1988 la soluzione a ponte sospeso viene confermata, costituendo la base tecnica per tutta la successiva storia – e mancata realizzazione – di questa grande opera. Nel 1992 viene presentato con modifiche marginali il “Progetto di massima definitivo” (un ossimoro già nel nome) con opere per tre miliardi di euro. Ma poi c’è Tangentopoli e le Delegazioni di Alta Sorveglianza istituite all’interno degli enti interessati – ANAS, Ferrovie dello Stato e Ministero dei Lavori Pubblici – analizzano le carte ed esprimono severi dubbi sulla soluzione. E nonostante tutto, nell’ottobre 1997 il Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici (primo Governo Prodi) approva all’unanimità il progetto di massima, autorizzando a procedere.
Nel febbraio 1999 il CIPE, con delibera firmata dall’allora premier Massimo D’Alema, affida una serie di consulenze tecniche e finanziarie sull’opera ad advisor indipendenti per gli aspetti territoriali, ambientali, economici e finanziari. E nel frattempo Silvio Berlusconi, in campagna elettorale nel dicembre del 2000, ospite di Bruno Vespa a Porta a Porta, traccia sulla cartina d’Italia le grandi opere da realizzare, tra le quali il ponte sullo Stretto a suo dire “immobilizzato dalla Sinistra”.
Berlusconi vince le elezioni nell’aprile del 2001, contro Francesco Rutelli, anche lui con il Ponte in programma elettorale. Ad appena diciassette giorni dall’avvio del governo si vara la Legge Obiettivo 443/2001, nota come “Legge Lunardi” dal nome dell’allora Ministro delle Infrastrutture e il ponte diventa “infrastruttura strategica” da inserire tra gli interventi prioritari. Nel 2002 Fintecna – spin off dell’IRI nel 1993, la acquisirà nel 2002 – diventa maggior azionista della concessionaria con il 55.5%, sostituendo IRI e acquisendo quote ANAS. Alla presidenza arriva l’ex parlamentare Giuseppe Zamberletti, già ministro con Spadolini, Craxi e Fanfani e “inventore” della Protezione Civile, mentre l’incarico di AD viene conferito a Pietro Ciucci, già direttore generale dell’IRI, dove seguì la privatizzazione di tutte le principali aziende del Gruppo.
Il 2003 vede ulteriori affinamenti al progetto preliminare – sempre lo stesso, con campata unica sospesa di 3.300m – per l’appalto imminente. Nell’aprile 2004 viene pubblicato in Gazzetta Ufficiale il bando internazionale per la selezione del General Contractor cui sarà affidata dallo Stato la progettazione definitiva e la successiva costruzione del Ponte.
Le cordate finaliste sono cinque, tra cui l’ATI guidata dalla Astaldi, il consorzio Eurolink e il consorzio Risalto, accomunate dalla partecipazione nell’IGI (Istituto Grandi Infrastrutture), un ente che raccoglie i più grandi costruttori italiani e alcuni istituti bancari, presieduto da Giuseppe Zamberletti – che è anche presidente della Stretto di Messina S.p.A., per cui il cerchio si chiude facilmente. Inoltre molte delle ATI partecipanti hanno in comune la consulenza della Rocksoil, società che appartiene all’allora ministro Lunardi, e nei gruppi spuntano alcuni tra gli “advisor indipendenti” del governo, oltre che sospetti di infiltrazione mafiosa per riciclaggio di grandi quantità di denaro nelle future opere.
Sarà l’Eurolink di Impregilo ad aggiudicarsi la gara, con impegno di realizzare l’opera in settanta mesi. Nonostante un brusco stop col secondo fugace Governo Prodi – che quasi riesce a ritirare l’appalto (se non fosse per il voto contrario di Di Pietro e Italia dei Valori), annullare il contratto con Impregilo e a chiudere la Società Stretto di Messina – con Berlusconi tornato premier nel 2008 il suo “governo del fare” si riconferma l’impegno a realizzare il ponte, i cui lavori dovrebbero iniziare nel 2010 per concludersi nel 2016. Vengono inaugurati il 23 dicembre 2009, panettone alla mano, i primi cantieri sulla costa calabrese. Il 21 dicembre 2010 la concessionaria riceve da Eurolink il progetto definitivo del ponte sullo Stretto e delle opere accessorie e compensative, con la firma di fior di consulenti privati e istituzionali a suffragare la causa. In realtà l’AD del contractor Impregilo, Alberto Rubegni, durante la presentazione nel marzo 2010 del bilancio del gruppo, conferma sì che “il progetto definitivo comprende sia il piano di espropri che tutte le opere di mitigazione ambientale’’, ma poi continua con un sibillino “se poi si faranno solo le opere propedeutiche o anche il ponte, questo non lo so. Noi abbiamo un contratto, aspettiamo di vedere cosa succede”.
Tutti gli italiani aspettano ancora oggi di vedere cosa succederà, perché a parte l’effimera parentesi di Renzi, che ha rispolverato l’ipotesi della realizzazione del ponte a un evento di Impregilo nel settembre 2016, il problema tecnico del ponte è un limite conclamato alla sua realizzazione: l’opera sperpera inutilmente risorse per la sua impossibile verifica di fattibilità.
Esistono due scuole di pensiero per la realizzazione dei ponti a grande luce: quella dell’impalcato aerodinamicamente trasparente, a sezione alare, più efficiente contro le raffiche trasversali del vento, come il ponte Store Belt in Danimarca, completato nel 1998 con luce di 1.624 metri; e quella dell’impalcato ad elevatissima rigidezza, come il ponte Akashi Kaikyo in Giappone, sempre del 1998, con luce di 1.990 metri, ancora oggi record mondiale per ponti stradali. Questi due ponti vennero presentati in anteprima nel 1992 all’ISALB (International Symposium on Aerodynamics of Large Bridges), in cui tra gli altri c’era anche un terzo ospite illustre, il nostro Ponte sullo Stretto. E sorprendemmo gli esperti non tanto per l’arditezza del progetto, quanto per la sua conclamata inverosimiglianza: il ponte applicava il concetto di sezione alare aerodinamica dello Store Belt (1.624m) su una luce libera più che doppia, peraltro più lunga di 1,3 km rispetto al primato dell’Akashi Kaikyo (1.990m).
Ma il termine di paragone più appropriato sarebbe un altro. A oggi, il ponte stradale e ferroviario come quello che dovrà essere sullo Stretto più lungo mai costruito si trova sul Bosforo: è il Yavuz Sultan Selim Bridge, completato nel 2016, con una luce pari a 1.408 metri. Con le stesse condizioni di carico, il Ponte sullo Stretto con i suoi 3.300 metri sarebbe 2.3 volte più esteso del ponte carrabile e ferroviario più lungo del mondo. E in ingegneria non si è mai visto un progresso di questo genere in così pochi anni, considerando che i materiali da costruzione sono quelli che già conosciamo.
La storia tecnica dei ponti procede per piccoli incrementi, leggibili nel rapporto tra l’altezza (h) della sezione strutturale del ponte e la sua luce libera (L), finora mai spinta oltre i 1.990m. Questo rapporto h/L è detto anche snellezza: esaminando i ponti dei record sopra citati, l’Akashi Kaikyo ha una snellezza di 1/150; lo Store Belt arriva a 1/350; il recentissimo Yavuz Sultan Selim Bridge, progettato con materiali oggi allo stato dell’arte, 1/260. Come si giudica allora la snellezza proposta per il Ponte sullo Stretto, che ha un valore inaudito di 1/1.320? Come potrà mai conciliarsi una sezione tanto esile con la stabilità e la rigidezza richieste da un ponte ferroviario, tanto più in un’area storicamente tra le più sismiche d’Italia e con complicazioni geologiche uniche al mondo? I conti non tornano, e anche per questo all’ISALB ci risero in faccia.
È chiaro che, sullo sfondo dei conflitti d’interesse sopra citati, l’Italia ha investito sul fronte del progetto – il presupposto tecnico perché quest’opera venga effettivamente realizzata – centinaia di milioni di Euro invano, per una sorta di “accanimento analitico” su una soluzione impossibile. Eppure saremmo stati capacissimi di costruirlo, il Ponte sullo Stretto. Le condizioni tecniche ed economiche c’erano fin dal concorso del 1969. Le nostre aziende – magari le stesse che nel Sistema Italia vengono coinvolte e impastoiate in infiniti arabeschi burocratici e clientelari, in corsie preferenziali contrattate sottobanco o in più che sospetti conflitti d’interesse tra controllori e controllati – all’estero sono in prima linea nella realizzazione nei tempi e nei costi stabiliti di infrastrutture all’avanguardia. Saremmo stati capacissimi, con un progetto diverso da quello ostinatamente finanziato per cinque decenni, più concreto, o anche più rivoluzionario, come quello a tunnel di Archimede. Ma non ci siamo riusciti.
Non è facile capire se l’assurda storia del Ponte sullo Stretto sia il frutto di un preciso e raffinato piano cinquantennale perpetrato nell’ombra a carico degli italiani, o un tragico mix di ingenuità e megalomania, ma è chiaro che la crisi delle infrastrutture italiane – e il corollario di assegni in bianco ai soggetti concessionari, o le modalità di selezione e appalto delle strutture di emergenza nelle aree terremotate, o la scarsa attitudine a un’azione sistematica di prevenzione dei rischi idrogeologici – trova le sue ragioni nella cinquantennale crisi dello Stato come soggetto committente di quelle stesse opere strategiche.
Le opere straordinarie – e le grandi infrastrutture lo sono per antonomasia – non nascono per caso: sono sì il frutto di un progetto eccezionale, ma ancor prima nascono nell’idea di futuro e di interesse pubblico di una committenza competente, responsabile e con le mani libere da qualsiasi conflitto d’interesse. l’Italia dovrebbe impegnarsi una buona volta a ricostruire, oltre che le infrastrutture e gli edifici in rovina, prima di tutto una sua visione del futuro, e una sua integrità.