Passeggiando per il quartiere di Batignolles, nella zona nord ovest di Parigi, si intravede verso nord una serie gru. In fondo ad avenue de Clichy spunta da monumentali cantieri un grattacielo formato da tre parallelepipedi coperti di vetro (diventerà uno degli edifici più alti della capitale francese, terzo dopo la Tour Eiffel e la Tour Montparnasse – se non si considera la Défense). «Stanno rivalutando tutta questa zona», mi dicono. «Diventerà la cité judiciare. Quello sarà il nuovo tribunale di Parigi. Le terrazze verranno coperte da cinquecento alberi e tutto verrà inondato di luce naturale. Costa quasi tre miliardi».
«E chi l’ha disegnato?».
«Renzo Piano».
«E lì invece?», chiedo indicando un altro palazzo coperto di vetro.
«La maison dell’ordine degli avvocati»
«E chi l’ha progettata?»
«Sempre Renzo Piano».
Ma quante cose sta facendo Renzo Piano? Tante, ho scoperto.
Zaha Hadid è morta, Oscar Nyemeier è morto, l’architetto genovese è invece nel pieno della sua produttività. Solo nel 2017 il Renzo Piano Building Workshop ha sfornato (dopo sette anni di lavori) il Centro Botìn a Santander, uno spazio espositivo nel vigneto del Château La Coste, vicino ad Aix-en-Provence, e un nuovo centro per le arti a Manhattan della Columbia University, per cui l’anno precedente aveva progettato il centro di ricerca di neuroscienza all’interno di un gigantesco progetto per il nuovo campus urbano dell’università Ivy League. Sempre a New York, nel 2016 Piano ha lavorato al suo primo progetto residenziale per la città, la 565 Broome Soho Tower, un mini-grattacielo di trenta piani con appartamenti circondati da pareti vetrate cielo-terra (quelli ancora disponibili vanno dai sei ai quattordici milioni di dollari). Poi il centro culturale Stavros Niarchos nel vecchio porto di Atene, la piazza dedicata al compaesano Fabrizio De André a Tempio Pausania, e altri progetti ancora in corso, come il museo dell’Academy of Motion Pictures a Los Angeles, un grattacielo a San Francisco, la sede centrale della catena di stazioni di servizio Kum & Go in Iowa.
E questo solo negli ultimi due anni, senza dover tirare dentro lavori precedenti come lo Shard di Londra, il porto di Genova, l’aeroporto di Osaka o l’ala moderna dell’Art Institute di Chicago. Da quando lo studio Renzo Piano Building Workshop è stato fondato (con sedi a Genova, Parigi e New York) nel 1981, sono stati portati a termine più di 120 progetti che spesso hanno cambiato lo skyline delle città, la fruizione dell’arte o l’identità di un quartiere. Ma torniamo quindi a Parigi, la città che lo ha trasformato in una celebrità quando quarant’anni fa fu inaugurato il Centre Pompidou (il suo studio è a pochi passi dal suo museo “rivoluzionario” – “un progetto sessantottino”, lo aveva definito). È proprio lì che il genovese sembra combattere la sua crociata per la riqualificazione delle periferie. «La parola “periferia” è sempre associata all’aggettivo degradato. Lontana, abbandonata, triste, eccetera eccetera… e questo non è immaginabile, perché è lì che le città hanno il loro futuro, [questa] è la grande scommessa. La prima cosa ovviamente da fare è non crearne di nuove, per la semplice ragione che sono insostenibili». Ha detto nel 2015.
Le costruzioni del tribunale a Clichy e del campus a Saclay potrebbero trasformare queste zone in quartieri, quindi farle passare da aree mono- a poli-funzionali. «Bisogna crescere per implosione, non per esplosione. Non facendo altre periferie, ma completando il tessuto che già esiste, costruendo sul costruito». Riempire quei vuoti di origine industriale o ferroviaria con edifici a uso pubblico. Queste frasi avevano attirato le critiche dell’architetto nuvolaro Massimiliano Fuksas, che su La7 sempre nel 2015 lo accusò di “ipocrisia” – attenzione – perché “vive bene… ha la barca”, dandogli del “D’Alema delle archistar”.
Ma le accuse del collega romano fanno acqua, come fanno acqua i facili accostamenti pasoliniani che possono essere tirati fuori dal discorso sull’”estetica della periferia”. Perché se per il poeta friulano i luoghi marginali erano belli proprio perché degradati, carichi di un disincanto di un sottoproletariato che passeggia nella sera “tra casette / abusive ai margini del monte, o in mezzo / a palazzi, quasi a mondi , dei ragazzi / leggeri come stracci giocano alla brezza / non più fredda, primaverile”, per Piano il degrado è ciò che può essere superato modificandole, mantenendone i lati positivi, come ad esempio il verde che manca nei centri storici, ma liberandosi dei blocchi di cemento che spuntano nei campetti di calcio fangosi dove giocavano i ragazzi di vita. «Le periferie sono state costruite senza affetto, spesso con disprezzo, e nonostante ciò vi è una bellezza che riesce a spuntar fuori», ha detto l’architetto, «è l’opera del rammendo che è importante, l’opera di intervento».
Quando Giorgio Napolitano, nel 2013, ha nominato Piano senatore a vita, insieme a Rubbia, Abbado e Cattaneo, era iniziato il solito rigurgito bilioso tra le file della destra anti-intelletuale. «La nomina è una presa per il culo per gli italiani che fanno sacrifici», aveva detto Salvini, e Daniela Santanché si era detta «profondamente dispiaciuta per l’unico che doveva essere nominato senatore a vita» e che non lo era stato, «ovvero Silvio Berlusconi. Sarebbe stato il migliore e la persona con più titoli e più meriti». Le testate destrorse, Giornale & Co., magari si stavano preparando ad attaccare Piano per lo stipendio che avrebbe percepito da senatore, ma lui aveva già deciso di destinarlo, insieme al suo ufficio, al progetto G124, pensato proprio per la riqualificazione delle periferie italiane, formato da giovani architetti e urbanisti, raccogliendo pure il plauso di Saviano che su Repubblica scriveva: “Le periferie sono orrende, si dirà, eppure la bruttezza dei luoghi può diventar fascino attraverso la partecipazione e la cura”.
Eppure nella sua “retorica buonista” direbbero quelli sopra – che lo hanno anche attaccato perché vota in Francia, e per Macron – e nella sua ossessione per il recupero della periferia, soluzione infallibile per migliorare le città – e quindi il Mondo e la Società, «politica viene da polis», ricorda in un’intervista – l’architetto non trova risposta davanti al grande dubbio urbano del nostro Paese: «Perché Milano va a avanti e Roma rimane in letargo, congelata in questo ritardo?», gli chiede un giornalista.
«Ah, questo non lo so mica, mi fa una domanda troppo difficile».