Tanti amano Le Corbusier, o meglio, tanti amano il razionalismo architettonico. Anche nel 2018, la stragrande maggioranza degli architetti e dei designer tendenzialmente aborrano il decorativismo tipico dell’architettura modernista ed esaltano il minimalismo di scuola razionalista. Questi fan dell’asetticità della dimensione domestica, della pulizia delle linee e dei concetti, vedono nell’architetto svizzero naturalizzato francese il padre di una corrente architettonica che ha permesso l’urbanizzazione ordinata del dopoguerra, trasformando in realtà il sogno della “casa per tutti”.
Le innovazioni strutturali teorizzate da Le Corbusier sono riassumibili in cinque punti e prevedono l’introduzione di nuove fondamenta, i pilotis, pilastri che sollevano da terra l’edificio e la conseguente abolizione dei muri portanti, che permette all’architetto di sperimentare sulla pianta e sulla facciata, entrambe libere dalle precedenti costrizioni, realizzando finestre a nastro che permettono un’ottima illuminazione degli interni. L’ultimo punto è il tetto-giardino, che dovrebbe restituire all’uomo il verde, proprio come a Scampia. Questi canoni vengono tradotti in realtà da Le Corbusier in una villa nei dintorni di Parigi, la Villa Savoye a Poissy, peccato che la loro applicazione nell’edilizia popolare non abbia ottenuto esattamente lo stesso successo. Forse perché al verde sui tetti, i costruttori hanno preferito l’amianto? Non esattamente.
Il razionalismo, in filosofia, è quella dottrina che vede la ragione – e di conseguenza la mente umana – come strumento essenziale per la conoscenza, contrapposta all’egemonia dei sensi o dell’esperienza. In sostanza, secondo i razionalisti, è possibile giungere a una qualsiasi forma di conoscenza tangibile attraverso postulati che, partendo da leggi generali come quelle della geometria, della matematica e della fisica, riescano a spiegare fenomeni particolari. Il processo attraverso il quale il postulato generale diventa “legge” è il metodo deduttivo, che mediante varie concatenazioni logiche, dall’iniziale idea intuitiva o sperimentale, permette di creare regole universali che hanno riscontri concreti nella realtà tangibile.
L’impatto di Le Corbusier sull’architettura moderna si basa su questo metodo, ovvero sulla creazione di una scala di proporzioni che, partendo dalla tradizione vitruviana, mette l’uomo al centro della propria casa. Già dagli anni Venti, Le Corbusier iniziò a teorizzare il suo corrispettivo dell’Uomo vitruviano di Leonardo Da Vinci, il Modulor. Per il suo Uomo, Le Corbusier prende le proporzioni del corpo umano contenute nel trattato De architectura di Vitruvio, disegna una figura umana e la inscrive nelle due forme considerate perfette da Platone, il cerchio e il quadrato. Il cerchio rappresenta l’Universo, il quadrato la Terra. In questo modo, secondo Da Vinci, l’essere umano entra in contatto con le forze divine e terrene della creazione, diventando parte del tutto. Allo stesso modo, a partire dagli anni Venti del secolo scorso, Le Corbusier sviluppa intorno al suo uomo una scala di proporzioni, un modulo abitativo per l’appunto, che può essere potenzialmente riprodotto all’infinito. Questa teorizzazione, basata sulla regola aurea – un rapporto di proporzioni noto già agli antichi greci – secondo Le Corbusier doveva essere utilizzata anche per progettare le parti interne dell’abitazione, come gli accessi e i ripiani, affinché fossero proporzionati all’uomo. Anche Albert Einstein elogiò questa intuizione di Le Corbusier affermando: “È una scala di proporzioni che rende il male difficile e il bene facile”.
Partendo dal principio secondo il quale “solo l’utente ha la parola”, le Corbusier edifica la prima delle sue “Unités d’Habitation” a Marsiglia tra il 1945 e il 1952. È un edificio-città per il proletariato, sviluppato su diciassette piani, che ospita più di trecento appartamenti, in cui i negozi sono all’interno dell’edificio. Nella casa del modulo d’oro, tutto è ridotto all’osso: uno sgabello è alto 27 cm, una seduta 43, un tavolo 70 cm. Questo rapporto di proporzioni, che mirava a ottimizzare gli sprechi architettonici con l’obiettivo della “casa per tutti”, fu ispirato, a detta dello stesso Le Corbusier, da una visita alla Certosa di Firenze, un complesso monastico dove i frati vivevano in celle che permettevano un isolamento totale. Non a caso gli abitanti francesi delle case ispirate all’Unité d’Habitation di Marsiglia progettata da Le Corbusier, definivano i propri appartamentini gabbie per conigli.
“L’alloggio è lo specchio della coscienza di un popolo. Saper abitare è il grande problema, e alla gente nessuno lo insegna,” affermava Le Corbusier, ma gli ideali umanistici dell’architetto svizzero non furono sempre lineari come le sue intuizioni progettuali. Le Corbusier era notoriamente antisemita e per tutta la sua carriera tentò di entrare nelle grazie di Mussolini, figura da cui era profondamente affascinato, il quale considerava però i suoi progetti troppo avanguardisti. Colui che apparentemente sognava “la casa per tutti”, in privato scriveva alla madre: “Il denaro, gli ebrei, la massoneria, tutto questo subirà la giusta legge.”
Già nel 1922, nel progetto sulla Città per Tre Milioni d’Abitanti, Le Corbusier illustrava il punto saliente della sua visione urbanistica: la gerarchizzazione degli spazi. Nel 1933, queste sue idee vengono applicate nel progetto della Ville Radieuse, “La città di domani, dove sarà ristabilito il rapporto uomo-natura!”. Le Corbusier ha finalmente l’occasione di mettere in pratica le sue ricerche teoriche nel 1951, quando il primo ministro indiano lo chiama a progettare la capitale del Punjab, Chandigarh, la “città d’argento”. La divisione degli spazi segue idealmente quella del corpo umano: gli edifici governativi e amministrativi alla punta della piramide (la testa), le strutture produttive ed industriali alla base. E come potrebbe essere altrimenti? L’organizzazione gerarchica del piano regolatore altro non fa che riproporre la rigida suddivisione in caste tipica della società indiana.
In realtà, dal punto di vista politico-filosofico, Le Corbusier era affascinato tanto dai dittatori di destra quanto da Lenin. Nel corso della sua carriera, costruì alcuni dei suoi progetti più imponenti nell’Unione Sovietica degli anni Trenta. In sostanza, il più importante esponente del razionalismo, ancora oggi osannato da esteti, intellettuali e ricchi amanti del modernismo, traeva i suoi ideali “umanistici” non solo dalla figura umana ma soprattutto dai totalitarismi dell’epoca. Questa tendenza alla separazione e quindi all’isolamento, sia architettonico che individuale, ispirata per l’appunto allo stile di vita dei monaci certosini, negli anni è stata abilmente mascherata dalla ricerca teorica di una cosiddetta “giustizia sociale” attraverso l’architettura e la costruzioni di unità abitative a basso costo, ovvero di edilizia popolare.
Non è necessario leggere libri come “Un Corbusier” di François Chaslin, “Le Corbusier, un fascisme français” di Xavier de Jarcy, e “Le Corbusier, une vision froide du monde” di Marc Perelman per intuire i veri ideali dell’architetto: tutti i suoi progetti miravano all’isolamento degli individui, così come vuole l’economia industriale capitalista che si sarebbe definitivamente affermata dopo la Seconda Guerra mondiale. Non è un caso se l’ordine certosino è noto per la dedizione dei confratelli al lavoro. In Francia, in occasione del centenario della nascita dell’architetto, il Centre Pompidou ha organizzato una mostra intitolata “Le Corbusier. Mesures de l’homme”, che taceva completamente le sue imbarazzanti simpatie politiche, ma nel 2018, con il fallimento dell’utopia razionalista e la crisi delle periferie – che nei casi migliori riguarda semplicemente il degrado e nei peggiori sfocia in veri e propri episodi di guerriglia urbana – Le Corbusier non sembra più così innocente dal punto di vista ideologico.
Il Modulor, da questo punto di vista, altro non è che un sistema che ripropone il concetto della catena di montaggio applicato alla casa, in cui, grazie a una formula matematica, queste unità abitative possono essere potenzialmente riprodotte all’infinito. Prendiamo le periferie italiane. I costruttori, dagli anni ’60 in poi, hanno edificato case su case, dimenticandosi il più delle volte strade e servizi, ma soprattutto piazze e luoghi di aggregazione. Ciò che poteva generare un miglioramento delle condizioni di vita degli operai che si riversavano nelle città italiane, per ragioni puramente individualiste legate alla speculazione edilizia, ha trasformato questi quartieri in semplici satelliti del centro. Mentre i primi villaggi operai erano invece nati come entità a sé stanti, frutto dell’atteggiamento paternalistico degli imprenditori e della loro volontà di migliorare le condizioni di vita dei propri operai non solo per ragioni etiche, ma per accrescerne la produttività.
La connessione tra evoluzione architettonica, politica e industriale è naturale e inevitabile: l’architettura dà forma alla società e allo stesso tempo ne è diretta rappresentazione. Ma agli albori di questo secondo millennio – come la fisica quantistica ha trasformato in un misero rudere quel monumentale palazzo concettuale edificato in Germania all’inizio del ‘900 che è la teoria della relatività – dati i tristi esiti sociali dell’utopia razionalista frutto della corsa al capitalismo, che ci vuole tutti uguali e omologati, forse è arrivato il momento di iniziare ad apprezzare anche gli interni ricchi di stucchi, colori, ori e decorazioni delle case di Scampia. D’altronde, l’atto di decorare cos’è se non un modo per riappropriarsi di uno spazio asettico e standardizzato così da renderlo proprio, personale? A Scampia, ad esempio, decorano le loro piccole celle razionaliste con stucchi e dettagli dorati, come fossero piccoli palazzi barocchi. Così, anche se le decorazioni risultano di scarso valore economico e artistico, gli abitanti non sono costretti a un ascetismo monacale e omologato imposto dall’alto, ovvero dal capitalismo. Sono piccoli escamotage per contrastare la spersonalizzazione dell’individuo, che nel sistema produttivo conta al pari di un numero. È un po’ come vedere un muro bianco in strada e farci una tag per sottolineare il proprio passaggio, ma senza la connotazione vandalica, perché quello spazio, per quanto piccolo possa essere, è loro di diritto.