In Dogman, l’ultimo film di Matteo Garrone, i veri protagonisti sono gli spunzoni di metallo arrugginito che fuoriescono dal cemento dei palazzi, le lacrime di ruggine che arrivano fino al marciapiedi divelto, sporco di sabbia e detriti, i casermoni abbandonati da cui crollano calcinacci. Questo teatro delle sopraffazioni, vendette, meschinità e bullismo sotto-proletario di una certa Roma periferica, sembra poggiarsi sulla kalokagathia tanto cara ai greci del V secolo a.C. Però qui non solo l’uomo bello è anche buono, ma la città bella è una città buona, e quindi il suo opposto, il luogo brutto è terreno di azioni brutte.
Garrone, per girare il film ispirato al delitto del Canaro, è andato a Villaggio Coppola, a metà strada tra Mondragone e Napoli: un tentativo di insediamento turistico costiero anni ’60 ora ridotto a scheletro abbandonato, utilizzato negli anni ‘80 come dormitorio per le famiglie terremotate dell’Irpinia. Nel 2003 sono iniziate le opere di riqualifica della zona, ma a sentire gli abitanti intervistati durante la visita del regista, accompagnato dal neo Totò neo-neo-realista, il premiato a Cannes Marcello Fonte, non è stato fatto niente: “lo Stato ci ha abbandonato”, dicono.
Solamente nella primavera di quest’anno è stato dato il via al riempimento della darsena e alla demolizione di una piscina del vicino porto di Pineta Mare. Il progetto è quello di creare un porto per arrivare a Capri e a Ischia, trasformando quella parte di Castel Volturno in un accesso al turismo del golfo di Napoli. Ma per adesso c’è solo un cantiere, e non è detto che si intervenga anche sugli edifici garroniani, a pochi passi. Questo è solo uno dei tanti esempi possibili, tra ecomostri costruiti in periodi di assenza di regole o da palazzinari che le regole sono sempre riusciti a non rispettarle, basta vedere Scampia e altri luoghi gomorriani.
“Su 11,9 milioni di edifici costruiti in Italia, soltanto 1,3 milioni sono stati progettati dagli architetti. Circa 4,7 milioni sono stati progettati dai geometri, 0,9 milioni dagli ingegneri. I rimanenti, circa 4 milioni, non hanno paternità progettuale,” dice Giuseppe Cappochin, presidente del Consiglio nazionale dell’ordine degli architetti, “una serie di leggi finanziano ‘a pioggia’ le periferie in tutte le città italiane, ma dietro non c’è mai una strategia di riqualificazione complessiva. Manca sempre una visione globale, che potrebbe far aumentare la qualità della vita e creare opportunità di lavoro. […] In Francia, ad esempio, tutte le progettazioni superiori a 150 metri quadri di pavimenti devono essere progettati dagli architetti,” con l’obbligo per tutti i progetti di natura pubblica.
Nel 2013 Marsiglia sarebbe stata, insieme a tutta la Provenza, la Capitale Europea della Cultura. Fino ad allora Marsiglia, oltre che per la bouillabaisse, era conosciuta per il clima malfamato di città portuale, per le violenze razziali dopo la fuga dei Pied-noir a seguito dell’indipendenza dell’Algeria, e in particolare per il traffico internazionale di eroina, quella French Connection raccontata nel film Il braccio violento della legge, che nel ‘72 vinse diversi Oscar. I turisti evitavano Marsiglia, sfiorandola per arrivare nella più accogliente e sicura Aix-en-Provence a comprare sacchettini di lavanda e a sognare Cézanne. Ora Marseille è considerata una nuova Berlino – nel senso che giovani creativi semi-squattrinati ci vanno a fare mostre di fotografia e apertivi.
Dal 2009, con l’assegnazione del titolo di Capitale Europea, l’amministrazione ha spalmato i 570 milioni di euro a disposizione per una totale riqualificazione della città marinara. C’era il rischio di stravolgerne la Kultur – ripulire spesso vuol dire perdere una patina caratteristica – e invece si è giocato proprio su quella, la French Connection non è più un traffico di droga, ma di cultura, e così è nato il Museo delle Civiltà dell’Europa e del Mediterraneo (Mucem) – dove adesso c’è la chiacchieratissima mostra-evento di Ai Weiwei sulla Cina. Il porto è un luogo di incontro, sta alle persone decidere di che tipo di incontro si tratti. Si tratta di una riqualificazione totale, perché i soldi si sono spesi non solo sul centro storico e sulle piazze da cartolina, ma ad esempio, con il progetto “Les sens des quartiers créatifs”, sulle zone “peggiori” della città, le periferie malfamate, chiamate ufficialmente “quartieri sensibili”, sono stati investiti di soldi e responsabilità, arricchiti di una voce e di un nuovo ruolo, creando spazi e dialoghi da perpetuare anche dopo gli eventi celebrativi del 2013. Certo, il narco-banditismo esiste ancora, esistono i palazzoni di spaccio e i terroristi islamisti, non basta un bando europeo per debellare il crimine dal mondo. Però la città è cambiata. Se ci si riesce con la temibile Marsiglia a perdere un po’ di bruttezza, perché l’Italia sembra impotente a liberarsi dai pezzi di ferro che spuntano dai palazzi? Le possibilità sono tre: o mancano i soldi, o manca la volontà, o i francesi sono più bravi degli italiani.
I soldi che i governi dedicano a questo tipo di “riconversioni” non sono esagerati. L’Italia, (dati aggiornati al 2018), spende il 0,8% del Pil (e l’1,7 % nella difesa, ad esempio) per la cultura, e la Francia ne spende l’1,2%. L’Italia ha un Pil di 1.719 miliardi di euro, mentre la Francia di 2.293 miliardi. Facendo due calcoli si nota che la spesa italiana è di 13 miliardi e 7, mentre quella francese di 27 miliardi di euro e mezzo, più o meno il doppio. Ma sarebbe troppo semplice dare la colpa del degrado a una misera questione di cash (anche perché molti dei fondi usati per opere di riqualifica – soprattutto in chiave ecologica – arrivano dall’Unione europea).
Forse manca quindi la volontà? Che esista intrinseca nell’italiano – abituato alla tanta bellezza medioevale e rinascimentale dei suoi borghi e a quella naturalistica di Alpi-Appennini-spiagge-laghi – una quasi rivoltosa passione per il brutto, per quel degrado pasoliniano di baracche e lamiere? O che sia pigrizia fomentata dal telegiornalistico “Abbiamo ben altri guai, prima risolviamo le pensioni, il ‘problema’ immigrazione, le cavallette, poi all’estetica pensiamo dopo”? Prima gli italiani poi la riqualificazione degli edifici e dei quartieri dove vivono gli italiani? Solo un pessimista cinico risponderebbe di sì. Rimane quindi l’ultima domanda: i francesi sono più bravi degli italiani? Hanno più a cuore l’immagine del proprio Paese? O hanno semplicemente, non solo un sistema di freno ai poteri oscuri, un magico repellente contro mafie, palazzinari, Casamonica, ma un desiderio maggiore di non esser schiacciati dal cemento e guadagnarci col turismo?
L’errore francese delle banlieue, ghetti a ferro e fuoco, templi della precarietà sociale, è frutto di classismo e scarsa lungimiranza, ma sembrerebbe che ci siano dei tentativi per connettere questi luoghi alla città, abbellirli, debellare qualche germe, far sentire la presenza dello Stato, in particolare dopo le sommosse dell’ottobre 2005. Macron quest’estate ha annunciato di voler creare una Agenzia nazionale di coesione dei territori e potenziare il ruolo dei sindaci. Ma se lì è la politica a dibatterne, nella penisola rimane un tema da intellettuali di sinistra, tra Renzo Piano che usa il suo stipendio da senatore a vita per un progetto di “rammendo” delle periferie, e Saviano che in tv dice: “La periferia ha in sé la contraddizione di una città in evoluzione”.
Intanto il governo Conte ha incassato la fiducia alla Camera sul Milleproroghe, che fra le altre cose, taglia 1,6 miliardi ai fondi per le periferie. Ma il tema della bellezza, a Montecitorio, non arriva. Nell’accordo del “governo del cambiamento” al punto 6 troviamo scritto: “I beni culturali sono uno strumento fondamentale per lo sviluppo del turismo in tutto il territorio italiano nonché alla formazione del cittadino in continuità con la nostra identità. Tuttavia lo Stato non può limitarsi alla sola conservazione del bene, ma deve valorizzarlo e renderlo fruibile attraverso sistemi e modelli efficaci, grazie ad una gestione attenta e una migliore cooperazione tra gli enti pubblici e i privati,” ma sembra solo fantasiosa retorica per riempire il documento alla voce “Cultura”. Nessuno ha parlato ancora di nulla, in concreto, di come gestire soldi, i poteri museali, i labirinti del MiBAC e quant’altro. Sembrano troppo presi da non-sbarchi e promesse elettorali di assistenzialismo per occuparsi del Paese fisico, ma è davvero difficile vedere bruttezza (e bellezza) quando si viene accecati dal fumo propagandistico dei falsi problemi. È certo che se un greco del V secolo controllasse il feed di Instagram di Salvini, come espressione del suo senso estetico, non si fiderebbe affatto di lui.