Siamo costantemente bombardati dagli appelli a vivere in modo più sostenibile. In un clima che cambia rapidamente si fa sempre più affidamento sulla responsabilità individuale per riuscire a mitigare gli effetti del surriscaldamento globale. Bisogna essere responsabili sia con le azioni quotidiane sia prestando più attenzione alle proprie scelte. Bisogna però applicare un ragionamento più ampio: è ormai noto che i prodotti che finiscono tra le mani del consumatore finale non sono che il riflesso, il risultato ultimo e minimo dell’intera catena di produzione. Un oggetto esteticamente apprezzabile potrebbe avere dietro di sé una quantità di emissioni sproporzionata o un’ingiustizia climatica. Lentamente chi entra in un negozio, valuta quale auto acquistare o semplicemente dove fare la spesa si sta abituando a questa mentalità: un prodotto per essere realmente apprezzabile deve essere anche sostenibile. Un recente studio effettuato dalla Intelligence Unit dell’Economist e commissionato da WWF ha registrato in questo senso dei risultati positivi: la consapevolezza dei consumatori sembrerebbe decisamente in crescita. La sostenibilità viene ora considerata un importante criterio nella selezione dei prodotti. Sia in contesti caratterizzati da sistemi economici avanzati che in Paesi in via di sviluppo è stato registrato un aumento nel supporto delle attività identificate come ecosostenibili. Negli ultimi cinque anni le ricerche di beni sostenibili online sono inoltre aumentate del 71%, in quella che il report definisce un’“eco-awakening” (un eco-risveglio).
Purtroppo però non si stanno “risvegliando” soltanto i consumatori: anche i brand, una volta registrato il nuovo e crescente interesse nel mercato ecofriendly, si sono lanciati nella corsa al sostenibile. Ben venga naturalmente chi si sta responsabilizzando con serietà e responsabilità per ridurre le emissioni; parrebbe però che non si tratti ancora della maggioranza. Un esempio lampante è quello del settore moda. Stando a quanto riportato da Synthetics Anonymous – una relazione pubblicata dalla Fondazione Changing Markets, nata allo scopo di “accelerare e scalare le soluzioni alle sfide sulla sostenibilità facendo leva sul mercato” – quasi il 60% dei prodotti pubblicizzati da grandi marchi di moda come sostenibili non lo sarebbero affatto.
È proprio in questo clima di entusiasmo ecologico che bisogna monitorare ancora più attentamente il greenwashing e la tendenza a dare una veste “green” a oggetti o progetti che di verde non hanno nulla. Se quello dell’abbigliamento è un campo in cui il fenomeno viene ampiamente denunciato, ci sono contesti in cui questo non avviene con altrettanta frequenza. L’esempio probabilmente più preoccupante è quello dell’architettura e dell’edilizia. Se da un lato infatti l’architettura è una disciplina che ci permette di immaginare e costruire il futuro, dall’altro il settore edile genera il 40% delle emissioni globali annue di gas serra – contro il 10% del settore moda. Se si prendono in considerazione anche il design e la costruzione di interni e impianti la percentuale cresce.
Costruire ha un costo altissimo in termini di risorse ambientali sia a causa dei materiali che vengono comunemente utilizzati, quali l’acciaio e il cemento, che del loro trasporto. È importante ricordare anche che le emissioni di un edificio non si fermano una volta portata a termine la costruzione. L’utilizzo stesso della struttura continuerà a produrre inquinamento, che crescerà in maniera esponenziale nei casi in cui non si è prestata attenzione al tipo di impianti e alle soluzioni energetiche implementate.
Quando si parla di architettura sostenibile, nell’approcciare un progetto è essenziale far caso all’intero ciclo di vita dei materiali, tenendo in considerazione da dove provengono e come sono stati prodotti (o coltivati nel caso si tratti di materie organiche come gli alberi da cui è ricavato il legno), come arrivano al cantiere, quante emissioni vengono generate per trasportarli. Bisogna poi tener conto dei processi utili alla costruzione di per sé, un fattore che si complica ulteriormente se si prendono in esame anche la sostenibilità sociale e lo sviluppo etico del progetto. Infine, si deve pensare al deterioramento e successivo smaltimento, ossia a quanto ci si aspetta che la struttura duri e a come potranno essere smaltiti o nel migliore dei casi riciclati i suoi componenti.
Un edificio è un organismo complesso, che si trasforma e muta nel tempo. Dalla fase di design allo smaltimento, le variabili da tenere in considerazione sono innumerevoli. Rendere una costruzione realmente sostenibile è quindi molto difficile. Esistono tuttavia dei tentativi in questo senso. Il World Green Building Council, per esempio, che fa parte del Global Compact delle Nazioni Unite e si batte per una completa decarbonizzazione del settore entro il 2050, attraverso la coordinazione di più di 70 comitati con sedi in tutto il mondo. Gli obiettivi principali sono lo sviluppo sostenibile e il raggiungimento del net zero con un approccio di cambiamento sistemico. Il progetto Architecture 2030 è ancora più ambizioso e concreto, con l’obiettivo di “trasformare l’ambiente edilizio da maggior produttore di gas serra a una soluzione centrale per la crisi climatica”. L’architettura avrebbe infatti non solo la possibilità di essere meno dannosa, ma anche il potere di fornire soluzioni per un mondo sempre più caldo e popolato. Architecture 2030 punta non solo a raggiungere la neutralità carbonica utilizzando espedienti per catturare le emissioni, ma a ridurre drasticamente le emissioni stesse del settore entro il 2030 e a eliminarle entro il 2040.
Tutte queste iniziative potrebbero aiutarci a costruire comunità rispettose del pianeta e delle sue risorse. C’è tuttavia un aspetto che non viene considerato: è la stessa struttura economica in cui viviamo a osteggiare lo sviluppo di un’architettura realmente sostenibile. Ogni mercato, a maggior ragione quello del real estate, è guidato dal denaro e dal profitto. Bisogna rientrare nei costi, e troppo spesso neanche questo è sufficiente, dato che il mercato edilizio è caratterizzato da enormi speculazioni. Un tipo di cultura che è ormai la norma. Ma la logica del profitto smisurato in cui viviamo non può guidare la transizione ecologica, né tantomeno un successivo sviluppo sostenibile.
Per cambiare il sistema delle costruzioni e renderlo veramente eco-responsabile, affermano molti architetti che dedicano la loro carriera a ridurre le emissioni, bisogna considerare che progetti attenti alle esigenze ambientali e a soluzioni sostenibili costeranno di più.
Clive Nichol, Ceo della società di costruzioni Fabrix, sta sviluppando insieme a Harris Bugg Studio la prima foresta su un tetto di Londra sopra a un immenso complesso di uffici. L’intero edificio è un tentativo di approcciarsi alla sostenibilità in maniera più concreta, senza rinunciare alle sue funzionalità: l’esempio più chiaro è la piscina sul tetto, che verrà riscaldata solo con l’energia (rinnovabile) di scarto inutilizzata dal resto degli ambienti. La costruzione parte dal principio più green possibile: riutilizzare l’edificio già esistente anziché abbattere e ricostruire. Le integrazioni saranno realizzate con un misto di materiali a basso impatto come il Clt (Cross Laminated Timber) e acciaio e cemento low-carbon. Un edificio di questo tipo però, secondo Nichols, “costerà il 30 o 40% in più” di un edificio simile che non consideri il rispetto ambientale. Costruire con responsabilità e attenzione “è più costoso, non c’è via di uscita”.
Lo conferma anche Martin Henn, Managing Director di HENN, che sta costruendo nel campus dell’Università di Dresda un padiglione che sarà il primo edificio in carbon concrete, un composito a base di cemento e carbonio che riduce radicalmente le emissioni. L’entusiasmo per le opportunità è però mediato dal dubbio sulla scalabilità del progetto: si tratta infatti di un materiale sperimentale e apparentemente vantaggioso, ma molto più costoso del cemento tradizionale.
Secondo Richard Weller, architetto e professore di Urbanistica e Architettura Paesaggistica alla Waitzman School of Design e alla University of Pennsylvania, attualmente in mostra alla Biennale Architettura di Venezia con il progetto What We Can’t Live Without, “ogni edificio può essere più di un semplice riparo per gli esseri umani, l’architettura è come un organismo, e se si pensa a un edificio come un’entità responsabile di offrire un habitat ad altre forme di vita, dai batteri agli insetti alle piante agli uccelli e a qualunque altra specie, allora quell’edificio può davvero fare la differenza”. Dovremmo però cominciare a “pensare in termini di relazioni” e capire che ogni cosa influenza le altre. È necessaria quindi “una ridefinizione dell’economia” perché possa comprendere i costi ambientali, “che in ogni caso a un certo punto qualcuno dovrà pagare”. Essenziale è anche la responsabilità singola dell’architetto: ogni professionista dovrebbe essere sempre cosciente “che sta disegnando un intero sistema”.
Rossella Miccio, presidente di Emergency, riguardo l’ultimo ospedale costruito dall’associazione in Uganda in collaborazione con Renzo Piano, racconta che “un tempo era molto difficile convincere gli investitori” che i costi previsti fossero giustificabili. Ma alla lunga la battaglia è stata vinta, facendo loro capire che gli edifici che costruiamo, nella comunità più ricca come in quella più povera, non possono prescindere da certi standard di cura, per i pazienti come per l’ecosistema.
Urge quindi una modifica del sistema economico. Non necessariamente per rendere i singoli progetti meno costosi, ma per ripensare il valore che siamo abituati ad associare ai costi ambientali: se è certo che la conservazione sia l’atto più ecologico possibile, dare più valore potrebbe anche limitare gli sprechi. Un altro mondo in questo momento non è solo possibile, come gridavano i movimenti della fine del secolo scorso, ma è necessario, e non possiamo più permetterci il lusso di rimandare. Per costruirlo bisogna partire dall’approccio economico delle industrie più inquinanti. Una potenziale soluzione sarebbe implementare un sistema di economia circolare, ma per riuscirci bisogna prima di tutto modificare la nostra mentalità, smettere di assegnare valore solo alla materialità delle cose e iniziare a “pensare in termini di relazioni,” soprattutto quando si tratta dei luoghi e della società che scegliamo di costruire e abitare ogni giorno.