Lo sapete che la sinistra è in crisi? Lo è più o meno da sempre, almeno nella narrazione dei quotidiani. Lo è per definizione: mentre la destra fa paura, sempre sul punto di svoltare, la sinistra è divisa, disorientata, eccetera. Serve un esempio? Questo è appunto il mestiere del commentatore. Trovare ogni tot giorni un esempio diverso.
Lo spunto dell’ultima settimana: pare che sulle schede elettorali, per la prima volta dopo tanti anni (ma quanti?) non vedremo più la parola “sinistra”. In realtà qualche fortunato avrà modo di vederla ancora, nel bollino col quale si presenteranno insieme i principali partiti trotzkisti italiani, che sono appena due. Folklore a parte, le formazioni di sinistra che hanno qualche chance di sbarcare in parlamento (Potere al Popolo, Liberi e Uguali) hanno rinunciato a mettere nel simbolo la parola che comincia per S. Quanto al PD, com’è noto, la “S” l’ha rottamata ben prima che arrivasse Renzi: già nel 2007, quando gli allora Democratici di Sinistra si fusero con i post-democristiani e centristi della Margherita. Risultato: a 22 anni dalle elezioni del ‘96 (in cui il partito più votato in Italia risultò proprio quello dei DS) gli elettori italiani non troveranno “sinistra” sulla scheda. È un fatto grave?
No.
Ma è interessante notare come viene raccontato, con quell’attenzione per il bicchiere mezzo vuoto che è necessaria a chiunque voglia parlare di sinistra (e quindi di crisi). Si dà per scontato che qualsiasi novità debba coincidere con qualcosa di negativo: se non c’è più la parola “Sinistra” ci stiamo senz’altro perdendo qualcosa. Qualcosa che c’era già, e quindi senz’altro è qualcosa di antico, e di nobile. Qualcosa che non riusciamo più a recuperare perché siamo in crisi. Nota: questo modo di pensare è in assoluto l’atteggiamento meno “di sinistra” che si possa immaginare. L’attenzione maniacale alle tradizioni antiche o presunte tali è quello che ci si aspetterebbe dalla destra: ma appunto, in Italia la destra si racconta in tutt’un altro modo. È scaltra, si annida, prolifica nell’ombra e al momento giusto prenderà il sopravvento. Se la destra rinunciasse all’improvviso al suo nome, i commentatori non penserebbero che è in crisi. Sagacemente suggerirebbero che si stia mascherando per ottenere più consensi. Il problema in realtà non si pone, perché la destra ha usato raramente la parola “Destra” sui suoi bollini elettorali. E invece, la Sinistra, l’ha usata poi così spesso?
Neanche tanto.
In realtà, la parola con la S compare molto tardi sulle schede elettorali repubblicane, ed esattamente nel 1991, durante il ventesimo e ultimo Congresso del Partito Comunista Italiano, quando il segretario Achille Occhetto svelò a un’assemblea entusiasta e un po’ imbarazzata il simbolo della Quercia e il nuovo nome di quello che era stato fino a un attimo prima il più grande partito d’ispirazione marxista in Europa Occidentale: il Partito Democratico della Sinistra. Confesso, sono talmente vecchio da ricordare la mia reazione. Alla contentezza di avere un partito tutto nuovo di zecca da votare sulla scheda (ero piccolo, mi piacevano le novità), si mescolava una certa perplessità: una sigla che finiva con S non sembrava nemmeno italiana, e ricordo benissimo di aver trovato poco opportuno l’inserimento nel nome di un termine così poco ideologico, così vago. Era il 1991 e “Sinistra” non era una parola feticcio. Era un semplice modo di dire, molto generico; faceva parte del lessico dei titolisti, non dell’enciclopedia delle ideologie politiche, che al tempo erano volumi ben separati. Esistevano ovviamente persone “di sinistra”; erano esistiti governi di “centrosinistra”, ma votare un partito “della Sinistra” su un simbolo sembrava… strano.
Sin dai tempi dell’Assemblea Costituente del 1789, quando i rivoluzionari scelsero di sedersi alla sinistra del re (probabilmente perché la destra spetta ai primogeniti e in generale ai servi più fedeli), “Sinistra” ha significato tante cose diverse e spesso inconciliabili – giacobini e girondini, bolscevichi e menscevichi, riformisti e massimalisti, e così via. Negli anni ‘80, si definivano ugualmente di “sinistra” il grande babau della mia infanzia, Bettino Craxi, e il suo accigliato avversario, Enrico Berlinguer. Ma le schede elettorali contenevano ancora parole apparentemente più precise (“comunista”, “socialista”, “liberale”, “democristiano”), che rimandavano ciascuna a una storia precisa e particolare. Occhetto, dopo aver rinunciato alla sua (inutilizzabile, dopo piazza Tienammen), si era trovato senza parole: ciò che aveva in mente era un grande partito Social-Democratico come quello tedesco. In italiano, però, la parola era già presa da un partitino con una storia anche nobile, ma ormai associato alle barzellette in cui convocavano i congressi nelle cabine del telefono. Fossi stato in lui, avrei scelto “partito laburista”; magari c’erano anche problemi di marchi registrati, va’ a sapere. Oppure mi sarei tenuto il geniale nome provvisorio, veramente in anticipo sui tempi: “la Cosa”. In ogni caso, ribattezzando il più grande partito d’opposizione “di Sinistra”, Occhetto strappava col vecchio linguaggio otto-novecentesco: a suo modo partecipava a quel fenomeno di svecchiamento lessicale che negli anni di Mani Pulite portò rapidissimamente i politici italiani dalle “convergenze parallele” all’”inciucio”, dal “compromesso storico” al “patto della crostata”.
Il PDS fu il primo partito italiano con un nome post-ideologico: forse anche l’ultimo, visto che di lì a poco Silvio Berlusconi avrebbe lanciato con Forza Italia la voga dei nomi pubblicitari. Per una significativa coincidenza, in quello stesso 1994 Giorgio Gaber con Destra-Sinistra ribadisce che i due termini fanno più parte della storia del costume che di quello delle idee, e che “è evidente che la gente è poco seria” quando pensa che “fare il bagno nella vasca è di destra / far la doccia invece è di sinistra”. Ma il ‘94 è anche l’anno in cui Norberto Bobbio pubblica Destra e sinistra, ragioni e significati di una distinzione politica, che più di ogni altro testo ha contribuito a dare dignità politica ai due termini. Per Gaber “le parole si logorano invecchiano, perdono di senso, e tutti noi continuiamo ad usarle, senza accorgerci di parlare di niente”. Bobbio reagisce con un certo senso pratico: se certe parole (“comunismo”, “fascismo”) a inizio anni ‘90 sembrano irrimediabilmente logore, “Destra” e “Sinistra” sono ancora di uso comune: e quindi perché non impiegarle per fare un discorso serio? Bobbio poi associava il primo termine a “libertà” e il secondo a “uguaglianza”, ed è curioso ritrovare entrambi i termini nel nome della lista a sinistra del Pd. Si può dire che persino l’aggregato guidato da Pietro Grasso non si riconosca più nella Sinistra definita da Bobbio? Non saprei.
Quel che so è che sia “Liberi e Uguali” sia “Potere al Popolo” mi sembrano ottimi nomi. Forse un po’ “pubblicitari” – a questo punto del resto ormai siamo tutti eredi sia di Bobbio che di Berlusconi – ma, se si tratta di slogan, sono efficaci e abbastanza esaurienti: mi danno subito un’idea abbastanza chiara di che programma aspettarsi; di quali siano le priorità, ma anche la storia, il percorso che li ha portati fin qui. Non c’è più la parola “Sinistra”? Io tenderei a vedere il bicchiere mezzo pieno: era la classica parola segnaposto, che si usava in mancanza di termini più precisi, in un’epoca particolare in cui non eravamo nemmeno sicuri di poter più chiedere uguaglianza (e libertà) e potere al popolo. Se “Sinistra” sparisce dalle schede, forse è perché finalmente abbiamo ritrovato parole più precise, più pregnanti. Potrebbe persino essere una buona notizia.
“Che la sinistra dubiti di se stessa, almeno questo è certo. Anzi, in questi ultimi tempi, l’unica certezza della sinistra è di dubitare di se stessa” (Bobbio, 1993).