Quindi Berlusconi nel 2018 potrebbe vincere le elezioni. Negli ultimi giorni chi ha letto i sondaggi – pubblici o riservati, veri o farlocchi (tanto sbagliano tutti) – sembra essersi rassegnato alla cosa. Che Berlusconi decida o no di avvalersi della faccia relativamente nuova di Salvini come candidato premier, la sostanza non cambia; l’ottuagenario già condannato per frode fiscale, già dimessosi da Palazzo Chigi in piena crisi dello spread mentre la stampa mondiale rideva delle sue “cene eleganti”, parteciperà alle sue settime elezioni legislative e potrebbe anche vincerle. Sarebbe la quarta volta in ventiquattro anni. Questo risultato senza precedenti nella storia d’Italia, Berlusconi sembra averlo ottenuto con un minimo sforzo: gli è bastato rimanere vivo, posare ogni tanto per una foto con una fidanzata giovane e un cagnolino, sopportare Salvini e in generale i suoi alleati. Il grosso della fatica sembra averlo fatto il suo apparente antagonista, Matteo Renzi; gli stessi sondaggi danno il suo Pd al terzo posto dietro il centrodestra e il Movimento Cinque Stelle.
Al contrario di B., Renzi in questi quattro anni si è dato molto da fare: nel 2012 ha perso le primarie del centrosinistra, nel 2013 ha vinto quelle del PD; ha vinto le elezioni europee, poi ne ha perse delle altre; ha sostenuto il governo Letta, poi lo ha impallinato; ha sostituito Letta a Palazzo Chigi, ma poi si è giocato la sedia con un referendum perdente; ha sostenuto il sindaco PD di Roma, poi ha impallinato pure lui; ha messo la fiducia sull’Italicum, la Corte Costituzionale gliel’ha bocciato e ha dovuto mettere la fiducia su un’altra legge elettorale che pure lo penalizzerà. Anche il suo probabile piano B (un governo di coalizione col centrodestra) sembra un’opzione disperata, se non un modo di prolungare l’agonia di una carriera politica rapidissima e già in fase calante. Matteo Renzi fino a un certo punto sembrava surfare sulla cresta di una straordinaria onda riformatrice; finché non è successo qualcosa e da lì in poi ha dato la sensazione di annaspare in una piscinetta gonfiabile. Quel che è peggio è che non sembra nemmeno aver capito cosa non abbia funzionato.
Cerchiamo di ricordare l’entusiasmo che circondava Matteo Renzi nelle settimane successive alle primarie del dicembre 2013, vinte con il 68% dei voti. La sua popolarità in quel momento andava ben oltre i confini del PD: tracimava in un bacino più vasto in cui confluivano i delusi di Berlusconi e gli orfani della sinistra di governo che non avevano creduto né in Monti né in Bersani – tra loro alcuni erano stati momentaneamente attratti dai 5 stelle, per poi allontanarsene dopo averli sentiti fantasticare di chip sottopelle e scie chimiche. Di fronte a loro, Renzi sembrava uno statista. Persino l’anziano Berlusconi, ormai rassegnato al tramonto (e interdetto per due anni dai pubblici uffici), dopo aver divorato negli anni tutti i suoi eredi, sembrava curioso del suo nuovo giovane rivale, e pronto a concedere qualche riforma importante in cambio dell’onore delle armi. Tanto più che Renzi non sembrava minimamente interessato a varare una legge sul conflitto di interessi, togliendogli qualche emittenza in chiaro. Tanto non è con le televisioni che vinci o perdi le elezioni – nel 2013? Chi è che crede ancora in questa sciocchezza?
I suoi predecessori alla guida del PD avevano sempre cercato di mettere all’ordine del giorno il problema (alcuni, bisogna dire, con scarsissima convinzione). Renzi no, a Renzi le tv non interessavano. Lui era giovane, usava i social network, twitter, quelle cose lì. I giornalisti per un po’ lo trattarono con benevolenza, lo ascoltavano volentieri senza fargli domande difficili. Finì pure ospite da Barbara D’Urso la domenica su Canale 5. Le elezioni europee andarono benissimo – oltre la soglia del 40%. Quando Berlusconi volle proporgli una legge elettorale, dovette bussare direttamente alla porta del nemico, il Nazareno. A questo punto ormai Renzi si sentiva padrone della situazione e si lasciò convincere a sostituire Enrico Letta a Palazzo Chigi.
L’asse informale con Berlusconi durò fino alla fine del 2014, l’anno che probabilmente Renzi ricorda con più nostalgia. Si spezzò all’improvviso quando fu il momento di votare il successore di Napolitano al Quirinale. La cosa curiosa è che Berlusconi – se è vero quel che suggerisce lo stesso Renzi – sembrava disposto ad “accontentarsi” di un vecchio esponente del centrosinistra come Giuliano Amato. Ma era un nome gradito alla minoranza interna del PD, e Renzi preferì Mattarella: alienandosi in un colpo solo sia la minoranza del PD che Berlusconi. Quest’ultimo ormai era considerato alla stregua di un vecchietto inoffensivo; quanto alla minoranza, dopo il varo del Jobs Act, sembrava un’appendice irrecuperabile. (Nel frattempo, su Rete4, debuttava una striscia giornaliera, Dalla vostra parte: ambientata ogni giorno in una diversa piazza d’Italia, mostrava gruppi spontanei di cittadini spaventati dalla microcriminalità e dall’immigrazione, sdegnati dalle ruberie dei politici al potere. Non fece molto parlare di sé, del resto la tv non è più così importante).
Rimasto senza l’appoggio di Berlusconi, guardato con freddezza da una parte non piccola del suo stesso partito, Renzi poteva comunque contare sul sostegno trasversale di tanti elettori che lo consideravano più affidabile di Grillo e Salvini – a questi elettori, che però cominciavano a preoccuparsi per la sicurezza nei quartieri periferici, Renzi doveva far digerire riforme concordate con la stessa base progressista che si stava alienando: le unioni civili, lo Ius soli. Nel frattempo al bar sentivi dire che in piazza era pieno di scippatori immigrati che portavano le malattie, ma Renzi pensava in quel frangente solo ai matrimoni gay. Sembra invece che la microcriminalità fosse in calo, ma vallo a spiegare bar per bar.
Una volta varata la legge Cirinnà, nell’autunno scorso il dibattito politico si concentrò sulla riforma costituzionale e l’annesso referendum: Renzi disse che ci si giocava la faccia, poi si pentì e disse che si era sbagliato a personalizzarlo, ma la faccia ormai era sul piatto e la perse. Tornò anche dalla D’Urso, ma solo dopo Berlusconi – giocava in casa, dopotutto, giusto così. Per due mesi si discusse di competenze del Senato, di sindaci dopolavoristi e dell’abolizione del CNEL. Nel frattempo per strada la gente ti fermava per dirti che non era più possibile fermarsi per strada, dovunque stranieri potenziali terroristi criminali, un’invasione! C’era anche scritto in un libro Mondadori. Il nuovo ministro degli Interni, Minniti, fiutando l’aria, decise che avrebbe fermato i barconi a qualsiasi costo. I barconi – quando si rividero, in primavera – in realtà non erano molti più del solito, ma li fermò comunque e gli costò probabilmente parecchio. Questo risultato lo rese molto popolare tra gli elettori di M5S e Centrodestra – cioè quelli che non lo avevano mai votato e probabilmente non lo voteranno mai. L’opinione pubblica comunque non ha smesso di pensare che in Italia ci sia un’invasione in atto, ghetti invisibili ai radical chic dove i bambini italiani devono chiedere il permesso a orde di stranieri, etc.
Matteo Renzi nel frattempo non è che sia stato a guardare: mentre la stampa e qualche telegiornale approfittavano di alcuni scandali finanziari e bancari per attaccare suo padre e una delle sue più vicine collaboratrici, Maria Elena Boschi, lui spiegava le sue ragioni in un libro. Dalla D’Urso non lo ha ancora presentato. La settimana scorsa ha imposto la fiducia su una legge elettorale che probabilmente premierà i partiti più radicati nel territorio: a nord la Lega farà incetta di seggi, mentre il PD potrebbe andare in bianco. Così probabilmente le elezioni le vincerà Berlusconi, e nessuno sa esattamente il motivo. Di sicuro non perché possiede ancora qualche canale in chiaro – tanto non è mica con le televisioni che si vincono le elezioni, dai. Chi è che crede ancora a questa sciocchezza? Quattro elezioni in ventiquattro anni? È senz’altro una coincidenza.