Lo scorso novembre era tempo di elezioni comunali in Italia. A Ostia, tra una testata a un giornalista e agguati a colpi di pistola della criminalità organizzata, CasaPound ha preso il 9% dei voti. Oltre 6mila persone hanno scelto un partito neofascista, che nell’ultimo periodo si è reso protagonista, tra le altre cose, di una commemorazione a braccia tese al cimitero monumentale di Milano, un’intervista in cui Mussolini viene definito “padre della patria” e una marcia tra croci celtiche e saluti romani per “ricordare i camerati caduti”.
Il 5 marzo mattina, quando usciranno i risultati definitivi delle elezioni politiche italiane, ai 6mila fascisti del terzo millennio di Ostia se ne saranno aggiunte altre decine di migliaia in tutta Italia. Intanto Luigi di Maio starà ripassando i congiuntivi per non sfigurare nel discorso per l’eventuale vittoria delle elezioni, visto che il Movimento 5 stelle potrebbe essere secondo molti sondaggi il primo partito – scelto da oltre un elettore su tre. “Creeremo una no-fly zone sull’Italia, questo ci renderà il primo Paese al mondo scie chimiche free”, prometterebbe il futuro premier, che pochi secondi dopo lancerebbe nel cestino una siringa a simbolizzare la fine dell’era dei vaccini obbligatori. Tra il 15% di elettori italiani della Lega Nord, qualcuno borbotterà per i risultati. Qualcun altro inconsciamente potrebbe essere soddisfatto, memore della posizione dei grillini in Parlamento durante discussioni chiave dell’ultima legislatura, come le unioni civili o lo ius soli.
Lo scenario che potrebbe prospettarsi tra poco più di un mese è questo. Nulla di fantascientifico: secondo i sondaggi, il Movimento 5 stelle è effettivamente il primo partito in Italia, anche se la coalizione di centrodestra è data per favorita. Ma i sondaggi possono anche sbagliare. È successo nel 2016 negli Stati Uniti, quando uno sfavorito Donald Trump ha vinto le elezioni a sorpresa. 62 milioni di americani hanno votato una persona che definisce il cambiamento climatico una leggenda, concepisce le donne come “oggetti esteticamente piacevoli” e considera i messicani “criminali, trafficanti e stupratori”. Sempre i sondaggi l’anno scorso non avevano previsto la vittoria del leave al referendum britannico sull’Unione Europea. Oggi sono in corso i negoziati per l’addio definitivo del Paese alla comunità, mentre una buona parte degli aficionados della Brexit ha di recente dichiarato di essersi pentita del voto: “Vorrei avere la possibilità di votare di nuovo”.
Il bello della democrazia è che è il popolo a scegliere. La campagna elettorale si trasforma in una gara a chi la spara più grossa, i politici di turno promettono questo o quell’altro, in molti casi superando e non di poco i confini della realtà. Di solito l’assurdità non paga: tornate elettorali del passato ci hanno regalato candidati come Cicciolina e Gabriele Paolini. Ovviamente, la loro avventura politica si è conclusa con pochi voti. Ma cosa succede quando macchiette come Donald Trump, fascisti del terzo millennio o complottisti di professione vengono presi sul serio?
“Eliminando i milioni di elettori irresponsabili che non si prendono il disturbo di imparare i meccanismi più basilari della Costituzione, o le proposte e la storia del loro candidato preferito, forse potremmo riuscire ad attenuare le conseguenze della sconsideratezza del loro voto”, scrive sul Washington Post David Harsanyi, giornalista e scrittore americano. Secondo Harsanyi, “se non hai la minima idea di ciò che ti sta intorno, hai anche il dovere civile di non soggiogare il resto di noi alla tua ignoranza“. La soluzione sta in un test di accesso al voto, stile quello che viene fatto per l’ottenimento della cittadinanza americana.
L’editoriale ha suscitato profonde critiche in patria e all’estero, dove è stato tradotto. Il giornalista è stato accusato di fare elitismo culturale, per quanto lui stesso nel suo articolo si difenda in anticipo sulla questione: “A differenza delle molte persone che dipendono dagli elettori ignoranti per esercitare e salvaguardare il proprio potere, mi rifiuto di credere che la classe lavoratrice o i cittadini meno abbienti siano meno capaci di capire il significato della Costituzione o i tratti principali del sistema di governo”.
La provocazione del giornalista americano è forte, ma ha un suo fondamento teorico. Esiste in effetti un filone di studi nell’ambito della filosofia politica che da qualche anno si sta interrogando sull’opportunità o meno di proseguire con il suffragio universale. Nel 2016 Jason Brennan, professore alla Georgetown University, ha pubblicato Against democracy. In oltre 300 pagine, l’autore teorizza l’avvento dell’epistocrazia, un sistema politico dove il diritto di voto è emanazione della conoscenza. Nel sistema epistocratico hanno diritto al voto solo coloro che passano un test di competenze di base, oppure tutti, ma il voto delle persone più preparate conta di più. Tra l’altro già nel 1861 il filosofo John Stuart Mill, in Considerazioni sul governo rappresentativo, proponeva uno scenario simile.
David Van Reybrouck, scrittore e giornalista belga, ha invece pubblicato nel 2015 Contro le elezioni. Anche lui se la prende con il suffragio universale, ma vede la soluzione nel sorteggio delle cariche piuttosto che nei test di accesso al voto. Come mostrano i dati sempre più bassi sulla partecipazione, le elezioni, massima espressione della democrazia di un Paese, sono in crisi. Inutile insistere, è ora di cambiare, secondo Van Reybrouck. Ritornare ai tempi della prima democrazia, quella di Atene, è l’unica via. Lì, infatti, “la partecipazione dei cittadini veniva esercitata direttamente e quando si veniva sorteggiati era un dovere accettare l’incarico”, scrive l’autore, che considera questo sistema il modo migliore per diluire l’impreparazione dei cittadini e anzi stimolarne una responsabilizzazione.
Che la democrazia sia in crisi, è oggettivo. Francis Fukuyama nel 1992 sottolineava come la democrazia liberale avesse raggiunto il suo apice nel XX secolo, per poi crollare in una lenta, inesorabile discesa verso gli abissi. E questa crisi è colpa un po’ di tutti: cittadini disinteressati e ignoranti, politici miopi e disonesti e media che informano poco e male. Il futuro di ogni Paese, almeno lì dove le elezioni sono libere e trasparenti, è però nelle mani del cittadino. È lui che abbocca alle bufale delle scie chimiche, è lui che condivide su Facebook l’opinione del parlamentare secondo cui la soluzione alla crisi economica è stampare più moneta, è sempre lui che inneggia alle ruspe sui campi nomadi e i centri sociali riprendendo i proclami del suo idolo in felpa verde. In definitiva, è il cittadino a scegliere.
Eppure spesso il cittadino non è consapevole di quello che fa, nel senso che lo fa senza porsi troppe domande. Succede con la Presidentessa della Camera dei Deputati, Laura Boldrini. Il 2017 è stato l’anno della sua consacrazione a persona più bersagliata dagli hater del web. “È colpa degli amici della Boldrini” si twitta quando un italiano muore in un attentato, “Quando succederà alla Boldrini” si scrive il giorno dopo lo stupro di Rimini. Perché questo accanimento? Perché è una donna, è tosta, ha ricoperto e ricopre cariche di livello. Ok, ma poi? La maggior parte delle persone che se la prendono con lei non saprebbero da dove iniziare a spiegare questo odio, nella stessa misura in cui non saprebbero spiegare il perché i vaccini fanno male, “Mussolini ha fatto anche cose buone” e Soros finanzia i terroristi.
Lo stesso discorso vale per la dialettica dell’invasione. L’indice di ignoranza Ipsos Mori misura le percezioni dei cittadini su caratteristiche sociali, demografiche ed economiche del proprio Paese. Nel 2015 l’Italia si è aggiudicata il primato dell’ignoranza sul tema dei migranti: per gli italiani costituivano il 30% della popolazione, mentre in realtà si trattava di un misero 7%. “Nel 2017 si registra, di nuovo, un significativo incremento dei toni allarmistici sui media”, si legge nel quinto rapporto sulla rappresentazione del fenomeno migratorio, realizzato da La Carta di Roma. Il risultato di questa narrazione è quello di “consolidare l’idea che l’immigrazione, e gli immigrati, non sono un fatto strutturale, che va governato, ma, appunto, una permanente emergenza, che va fermata”. La colpa risiederebbe in alto, tra politici sciacalli e media a caccia di click. L’elettore allora è spesso vittima, piuttosto che carnefice, ma è la sua scelta a definire le sorti del Paese. Una scelta che in molti casi sarà il riflesso di false convinzioni, percezioni che non corrispondono alla realtà e risentimento che poggia su slogan inconsistenti. Sarà, insomma, la vittoria dell’ignoranza sulla consapevolezza.
Brennan e Harsany non hanno tutti i torti. C’è un problema d’ignoranza, forse più visibile oggi che in passato a causa dei social-vetrina che la tengono costantemente sotto i riflettori. Nelle scorse settimane è uscita la statistica secondo cui solo il 40% degli italiani ha letto almeno un libro nel 2017. Dati ancora più preoccupanti sono quelli relativi all’analfabetismo funzionale, che identifica una persona che “non è incapace di leggere ma, pur essendo in grado di capire testi molto semplici, non riesce a elaborarne e utilizzarne le informazioni”. L’Italia detiene il record da questo punto di vista, con il 70% della popolazione che è analfabeta funzionale, dunque non in grado di processare le informazioni che ha appena assorbito. A questo si aggiunge una nuova categoria, quella dell’”analfabetismo digitale”, che consiste nell’incapacità di distinguere una notizia vera da una bufala, di verificare i contenuti attraverso il più basilare dei fact checking. Non ci vuole una laurea per capire che la foto di alcuni politici ai funerali di Totò Riina è un fake, così come lo è la storia delle matite cancellabili usate per truccare il referendum del 2016. Eppure post di questo tipo ottengono ogni volta migliaia di condivisioni indignate, le persone ci credono, il risentimento supera la ragione, l’assurdità diventa normalità nel Paese dell’”invasione”, dei “35 euro al giorno ai migranti” e degli “hotel a 5 stelle mentre gli italiani dormono in strada”. Ne deriva una spirale di voto dell’inconsapevolezza che in fin dei conti non è altro che un suffragio dell’ignoranza universale. Una discesa verso gli abissi che premia quell’universo populista e fascista che proprio dalla cultura della falsità trae la sua forza.
Se all’estero hanno avuto Trump e la Brexit, il primato italiano in termini di ignoranza e analfabetismo funzionale potrebbe regalarci scenari peggiori in futuro. In un contesto di questo tipo, è legittimo porsi delle domande sul valore della democrazia oggi. L’abolizione del diritto di voto universale, l’elitismo culturale, sono queste le soluzioni per uscire dalle sabbie mobili dell’ignoranza? Si tratta di misure discriminanti, escludenti, che vanno a colpire anche e soprattutto i marginali. Quindi sbagliate.
Certo, è probabile che una buona parte di quelli che perderebbero il diritto di voto in caso di fine del suffragio universale, saranno gli stessi che oggi si battono a suon di post e meme contro lo Ius soli e i matrimoni gay. Contro, cioè, diritti fondamentali tanto quanto quello di voto. L’evoluzione della società civile ha fatto sì che non esistano diritti più importanti e meno importanti, basta dare uno sguardo alla varie Costituzioni o convenzioni sui diritti civili e politici per rendersi conto che già da un po’ siamo tutti uguali davanti alla legge. Chi di diritto ferisce, di diritto perisce: sarebbe quindi interessante risolverla così, ma visto che la legge del taglione è scomparsa secoli fa in Italia, la strada da percorrere è un’altra.
Investiamo di più in cultura e qualità dell’informazione e togliamo di mezzo dalle competizioni elettorali chi nega i principi basilari della convivenza civile all’interno di una società. Via i candidati fascisti o parafascisti, via chi mette in dubbio conquiste civili della modernità sulla base di principi morali di dubbi provenienza, via i complottisti i cui deliri sono sconfessati da fior fior di prove scientifiche.
A quel punto, cittadini, votate chi vi pare.