Una volta un amico inglese mi disse “L’Inghilterra era un posto divertentissimo; poi è arrivato Cromwell”. Stavamo commentando il tipico atteggiamento britannico, fatto di eccessive buone maniere che si accompagnano a una certa stitichezza emotiva. Nel periodo in cui ho vissuto a Londra, in effetti, più volte mi sono trovata a osservare un modo abbastanza diverso di gestire i rapporti umani rispetto a quello a cui ero abituata. Ma in quella battuta a proposito del proverbiale aplomb d’oltremanica era presente un altro elemento fondamentale – e altrettanto stereotipato – per comprendere questo popolo: il british humor. È come se gli inglesi avessero in qualche modo approfittato delle censure e della formalità che si sono imposti negli anni per creare una forma di umorismo che si è trovato una via preferenziale, proprio grazie all’esigenza di non risultare troppo evidente. Cosa che di fatto lo ha reso ancora più divertente, perché, quando si ha meno spazio d’azione, bisogna ingegnarsi alla ricerca di una via d’uscita. La quintessenza di questa espressione comica sono stati i Monty Python: nessuno, infatti, ha saputo dare forma migliore alla schizofrenica alternanza di etichetta e insolenza che sta alla radice dell’umorismo britannico, e la prova della loro genialità sta nel fatto che anche a distanza di quasi cinquant’anni i loro sketch non sono invecchiati per nulla.
Con la parola wit, nella tradizione letteraria inglese, si intende quella forma di ironia che si basa sul gioco di parole, sull’equivoco, sul sarcasmo. Lo usavano i poeti metafisici, Shakespeare e John Donne su tutti, ed è rimasto parte della tradizione linguistica e comportamentale del Regno Unito: i famosi pun ne sono un chiaro esempio. Quando si guardano i Monty Python in azione sembra che tutti gli elementi del british humor – partendo proprio dal wit composto e tagliente fino ad arrivare agli scenari più assurdi, dissacranti, caotici e macabri – si siano messi assieme. Con risultato finale un flusso di coscienza senza capo né coda, un pasticcio di situazioni, parole, e schemi illogici; non si capisce bene perché, eppure fa ridere. E fa ridere anche a guardarlo oggi, completamente estrapolato dal suo contesto storico, culturale e geografico, come se si trattasse di una sorta di formula universale che azzeccata una volta funziona per sempre. Una ricetta che, appunto, deve molto al luogo e al tempo in cui è venuta fuori.
Il provvidenziale incontro di cervelli che sta dietro ai Monty Python, infatti, è legato a un momento storico preciso: è il Regno Unito degli anni ’60, del turbinio sperimentale e liberatorio della swinging London. John Cleese, Graham Chapman, Terry Jones, Eric Idle e Michael Palin sono tutti studenti di Oxford e di Cambridge, sono colti e intelligenti, ma anche estremamente stimolati – e avvantaggiati – dall’atmosfera rivoluzionaria e trascinante di quegli anni. La sola eccezione è quella di Terry Gilliam, unico elemento americano del gruppo, l’addetto alla parte di animazione psichedelica che accompagna tutti gli show della comitiva. Dunque, sei giovani che hanno studiato nelle università migliori del mondo, e che hanno passato quegli anni nelle compagnie teatrali degli atenei a sperimentare con le loro ambizioni, si mettono assieme e creano una trasmissione televisiva che va in onda per la prima volta nel 1969 sulla BBC. È il Monty Python Flying Circus, e già solo dal nome si intuisce quale sarà la cifra stilistica del programma, cioè il totale e disinvolto sfoggio di nonsense.
L’obiettivo degli sketch è infatti proprio quello di sfidare lo schema classico, stravolgendolo completamente in una sola mossa: levare la punchline. È una scelta a dir poco rischiosa, ma allo stesso tempo è anche la colonna portante dello schema umoristico dei Monty Python. Non capisci mai quale sia l’elemento davvero divertente, perché non c’è un finale che ti suggerisce la fine della barzelletta, ma uno stream of consciousness delirante nel quale tu, da spettatore, devi orientarti da solo. Devi capire tu quando è il momento di ridere, di applaudire, di annoiarti, non c’è un autore che ti porta con la mano fino alla conclusione della scena. In questo modo la libertà di scrittura diventa un vantaggio sia per chi la pratica che per chi ne fruisce: i Monty Python possono rappresentare quello che vogliono nella totale mancanza di criterio, se non quello che si addice alla loro stessa creatività; lo spettatore dei Monty Python si trova in una posizione di selettività rispetto al contenuto, capendo in modo molto più attivo cosa gli piace davvero e cosa no, senza imposizioni comiche dettate dalla fine o dall’inizio. Motivo per cui ognuno si diverte con dettagli diversi e ha il suo sketch preferito, nonostante ne esistano di più celebri: da quello del pappagallo, al Ministry of silly walks, alla partita di calcio tra filosofi greci e tedeschi, fino al famosissimo Spam, da cui deriva il termine che usiamo tutt’oggi. Per quanto possano essere più conosciuti ed entrati ormai nel linguaggio comune, non è detto che siano effettivamente i migliori, visto che è molto difficile trovarne uno che non abbia uno spunto tanto intelligente da trasformarlo potenzialmente in un cult. Il filo che li lega e che lega noi che li guardiamo è lo stesso: alla fine ci domandiamo sempre, ma perché questa cosa mi fa così tanto ridere? Io, ad esempio, trovo geniale l’idea dell’uomo It’s che all’inizio di ogni puntata introduce lo show, ma non so spiegarmi bene perché mi diverta ogni volta.
La spiegazione più sensata, per quanto mi riguarda, è che si tratta di un esercizio mentale che attiva i meccanismi della comicità, spingendosi nel punto inesplorato dell’apparente mancanza di senso. Perché in realtà, persino nel nonsense più sfrenato dei Monty Python, un senso si trova sempre, anche puramente soggettivo e non condivisibile con altri. La loro fortuna, come conferma Terry Jones in una trasmissione americana del 1975, è stata quella di trovarsi in una situazione in cui avevano la piena libertà d’espressione. Il Flying Circus, infatti, era pensato per una fascia oraria non protetta, cosa che consentiva loro di poter pensare e mettere in pratica quello che gli passava per la testa, senza freni. Invece di scervellarsi per creare una battuta o uno stacchetto che intercettasse il gusto del pubblico – il grande meccanismo alla base dell’industria culturale – i Monty Python hanno creato loro stessi un genere a cui fare affezionare gli spettatori.
Quello dei Monty Python, non a caso, è un modello che negli anni è stato più volte ripreso, seppur variandolo, con l’intento di ricreare quella stessa atmosfera surreale, ma anche molto attenta ai due elementi che fanno da struttura, il linguaggio e la durata di una determinata situazione. Mr. Bean, per esempio, è un personaggio comico che è rimasto impresso nella storia dell’umorismo britannico. Anche lui ci è riuscito grazie a una intelligente – per quanto molto più semplice e immediata, considerato il pubblico a cui è indirizzato – mescolanza di silenzi, equivoci, ribaltamenti di senso (basta pensare al fatto che non parla quasi mai), così come Wallace and Gromit. In tempi più recenti, invece, la serie Little Britain ha dato una svolta meno visionaria e surreale per quanto riguarda ambientazioni e personaggi – che sono invece fortemente caratterizzati da un realismo spietato – ma ha mantenuto nel contenuto la presenza evidente di una matrice Monty Python: i dialoghi degli sketch si articolano in modo molto libero, vanno avanti senza fermarsi fino allo stremo, fanno voli pindarici tra temi e caratteri per intrecciarsi in conversazioni che, alla fine, convertono nel surreale. O come in The Office, la serie di Ricky Gervais e Stephen Merchant – poi remake americano con Steve Carell – in cui i dialoghi paradossali e le situazioni assurde si mischiano con una rappresentazione in stile water cooler television.
Il nonsense dei Monty Python, sia nella loro serie televisiva che poi nei film Brian di Nazareth, Monty Python e il Sacro Graal e Il senso della vita, ha dato la possibilità di emergere a un genere che, con grande sorpresa, ci ricorda che non è necessario venire imboccati qualsiasi cosa facciamo, specialmente ridere. In particolare oggi, dove la cultura di internet e il suo lato più umoristico spesso si districano tra demenzialità, autoreferenzialità e metanarrazione, riconoscere il merito dei Monty Python non tanto di aver inventato qualcosa, ma di averla sdoganata con una forma che è riuscita a coniugare il successo e la larghissima diffusione alla qualità d’espressione.