Ho abitato per dodici anni a casa dei miei nonni. Sono stati anni molto belli.
C’erano poche regole che dovevo rispettare e due di queste riguardavano l’utilizzo della televisione. La prima regola era che, all’ora di pranzo, quando c’era Sentieri, nessuno cambiasse canale, neanche mio nonno dall’alto del suo patriarcale posto a capo tavola. Mia nonna, donna altresì sempre gentile, diventava una belva se si perdeva anche solo un minuto della soap – ha smesso di guardarla solo quando hanno clonato un personaggio. L’altra regola era che, quando c’era un western in televisione, nonno non venisse disturbato in alcun modo. Solo dopo anni di suppliche e sensi di colpa sono riuscito a farmi includere nelle serate western. Ed è così che ho conosciuto John Wayne e Clint Eastwood.
Tutto questo per dirvi che amo i western da quando ho almeno dodici anni. Solo molti anni dopo ho capito la complessità di quei film e appreso come, in realtà, il western sia il genere cinematografico – insieme all’horror – che più si è fatto specchio dei cambiamenti socio culturali americani. Ogni volta che qualcosa è cambiato nella società americana, i film western ne sono diventati il chiaro riflesso. Non c’è da stupirsi: mito fondante dell’american way of life, la frontiera, più che una location dove cowboy e indiani si scontravano, è un luogo della mente, un modo di affrontare la vita tutto americano. La wilderness è quello che i padri coloni hanno dovuto prima conquistare e poi dissacrare per proclamare la propria indipendenza, il proprio stato di diritto e civilization. E non solo: così come una spinta verso il superamento dei propri limiti, la frontiera contiene in nuce anche quel terrore nei confronti del diverso e del “selvaggio” che caratterizza tante delle tensioni razziali del popolo americano, sia passate che presenti.
Questa straordinaria capacità del western appare oggi chiara più che mai dopo l’uscita di Godless, la splendida serie Netflix di Scott Frank, prodotta, tra gli altri, da Steven Soderbergh. Godless è una serie per modo di dire. Più vicina a un film di sette lunghe ore che alla precedente serialità western di Justified. E in questa strana lunghezza, ormai marchio di fabbrica di tanti prodotti Netflix, il far west trova la sua dimensione esatta, la dimensione adatta a raccontarne l’epica e a scoprirne le complesse psicologie. Proprio grazie a questa nuova forma, il discorso sui riflessi della società americana appare ancora più chiaro, esplicito.
È un discorso le cui radici affondano ovviamente nella cinematografia precedente, a partire da Stagecoach (1939), il primo western con il sonoro di John Ford, vede John Wayne incaricato di scortare una carovana in salvo dall’attacco dei cattivi indiani Apache. Ci sono tutti gli elementi del western classico per un’America che sta entrando in guerra, un’America intimorita dall’ “altro” nazista, dalla sua cattiveria apparentemente immotivata. La prima volta che appare un Apache nel film il commento in controcampo è: “guardate! Un selvaggio!” Non c’è nessun pensiero di integrazione, il diverso è il nemico, è quello contro cui dobbiamo andare in guerra. Gli indiani saranno i cattivi per ancora molti anni, almeno fino a Soldier Blue (1970) di Ralph Nelson, primo film a ritrarre i nativi americani come un popolo soggiogato, vittima del bianco. Non c’è da stupirsi, sono gli anni delle proteste, fine dell’ottimismo tipico della presidenza Eisenhower e inizio del cinismo made in Nixon, gli anni della guerra in Vietnam.
Ancora più distintivo, in questo senso è The Wild Bunch di Sam Peckinpah (1969), che contiene in sé tutti i tormenti di quegli anni. Dall’assassinio di Martin Luther King a quello di Kennedy, gli eroi americani si sono smarriti, ritrovati senza punti di riferimento in un mondo che si muove a una velocità diversa, con delle esigenze e delle domande nuove per cui i valori degli anni Cinquanta non hanno più risposte. Peckinpah racconta un gruppo di disperati ancora in cerca di quella frontiera, ma non per conquistarla, quanto per fuggire e per nascondersi. Il pistolero è stanco e non ha più voglia di combattere per la supremazia del suo popolo. Anzi, se può, ne diventa avversario. Anche la messa in scena cambia radicalmente con Peckinpah, spingendosi verso un iperrealismo mai visto all’ombra delle sculture in pietra della Death Valley. È ormai una pagina di storia del cinema l’utilizzo del montaggio della sparatoria finale, con inquadrature che durano un decimo di secondo. Lo scorpione che nella scena iniziale viene torturato da un gruppo di bambini, in montaggio alternato a una banda in marcia e ai due antieroi del film, rappresenta l’epitaffio dell’epica classica del far west. Rimane poco spazio per gesti eroici che, quando compiuti, lo sono in nome dell’amicizia e dell’umanità di una persona, di sicuro non per ripristinare l’ordine della legge come avveniva un tempo.
Gli anni Novanta hanno portato Kevin Costner a incarnare nel suo Dance with Wolves (1990) il nuovo eroe americano. Un eroe che nella prima scena tenta il suicidio e un suicidio che viene quindi interpretato come atto di eroismo, portando il tenente John Dunbar a essere riassegnato a un fortino sperduto ai margini del Nebraska. Qui gli indiani rappresentano l’illusione di una ritrovata innocenza, di una libertà che la sopra citata civilization ha cancellato, distrutto. Il ritorno alla wilderness diventa allora un ritorno alla natura più intima e serena dell’uomo. Abbiamo fatto il giro, diciamo, e siamo tornati al punto di partenza, con un punto di vista inverso e con tanti sensi di colpa un po’ facili, un po’ prevedibili.
Sono poche righe per riassumere un tema su cui sono stati scritti interi libri. Ma vale la pena soffermarcisi ancora, perché Godless è senza ombra di dubbio il western che si merita la nostra contemporaneità.
Nei sette episodi da più di un’ora di Godless seguiamo le vicende di Roy Goode, giovane bandito sulla strada della redenzione. Roy cerca rifugio in una fattoria ai margini di una cittadina abitata da sole donne. Lo sceriffo di questa cittadina, nonostante stia diventando cieco, capisce chi si trova di fronte e il pericolo che incarna. Perché Roy è fuggito dalla banda più temibile di tutto il west, quella di Frank Griffin. Griffin, dopo aver perso un braccio in uno scontro con il figlio putativo Roy, ha giurato vendetta e ucciderà chiunque gli offrirà rifugio. Intorno a questa linea principale si sviluppano storie minori, ma non per questo meno avvincenti o emozionanti. Infatti ogni personaggio, anche quello più marginale, è caratterizzato attraverso pochi ma appassionanti tratti. Nonostante i banditi siano ventisette, arriviamo alla fine del settimo episodio che li riconosciamo uno per uno; nonostante le donne della cittadina di La Belle siano in teoria solo la cornice della storia, impariamo a conoscere anche loro episodio dopo episodio, con le loro backstories e i loro sentimenti.
Vedere Godless mi ha finalmente fatto comprendere quella teoria che avevo studiato sui banchi dell’università. Ci sono tanti, tantissimi temi contemporanei nelle storie di questa serie western.
Nelle donne di La Belle c’è un femminismo vero. E non solo nei loro amori lesbici, ma nell’orgoglio di alcuni personaggi nel difendere la propria identità, sessuale e non. C’è un femminismo sano, in un tempo dove il femminismo non esisteva, dove le donne venivano date in moglie solo per procreare. Una città dove tutti i mariti sono morti in miniera non diventa solo un luogo del desiderio per i cowboy della storia, ma anche un preciso riferimento a come il ruolo della donna si sia evoluto dalla società di quei lontani film in bianco e nero. Un’altra serie dell’anno scorso, Westworld (HBO) ha provato a fare una manovra simile ma, sfociando nella fantascienza e nel metafisico, ha finito per ridurre il ruolo di questa operazione. Insomma donne, non dovete essere dei cyborg per ribellarvi al vostro destino di prostitute da saloon. Ad esempio, quelle di La Belle ci raccontano la storia di una donna omosessuale che fa le veci dello sceriffo e di una pittrice che, raggiunta da un detective ingaggiato dal marito abbandonato, lo sequestra e lo rende suo schiavo d’amore.
Una donna che fa le veci dello sceriffo, perché lo sceriffo non c’è. È andato dagli indiani per farsi curare gli occhi. Eppure, questo sceriffo quasi senza vista decide di mettersi sulle tracce di Frank Griffin, il bandito più temibile del New Mexico. Senza rovinarvi il finale, anticipo solo che quello che Godless sembra dirci è che c’è ancora spazio, oggi, per un eroe romantico, ma questo spazio se lo deve guadagnare guardandosi dentro, cercando le proprie colpe e i propri limiti e dimenticando il passato.
Ad aiutare lo sceriffo c’è un giovane ragazzo dalla pistola veloce. Uno che vorrebbe essere Billy the Kid, che si allena allo specchio per vedere la velocità d’estrazione della pistola. È un ragazzo buono di cuore, che si innamora di una ragazza di colore (altro tema affrontato in modo molto contemporaneo da Godless) e che si dimostra utile in più di una occasione. Ma, nel momento cruciale, qualcosa va storto: perché se gli eroi fallimentari come lo sceriffo trovano ancora spazio nell’epica americana, quelli classici, come il pistolero con la stella dal grilletto facile, seppur incarnazione di valore positivi, non hanno più ragione di esistere.
Per ultimo lascio il personaggio più bello di tutta la serie. Frank Griffin, il bandito senza un braccio. È il classico cattivo per cui si finisce per fare il tifo, eppure è malvagio, psicopatico, con una crudeltà che non sembra mai esaurirsi. Cresciuto da una compagnia di episcopali, il reverendo Griffin sembra dirci che i cattivi ora, nel far west, non sono più gli indiani, ma i bianchi che più bianchi non si può. Verrebbe da dire White Supremacism, ma sarebbe forse azzardato. La splendida interpretazione di Jeff Daniels ci restituisce un uomo tormentato dalla sua educazione e dai demoni che questa educazione gli ha lasciato in eredità. Dice di conoscere come morirà fin dalle prime battute della serie e noi non possiamo far altro che credergli.
Insomma, anche se non siete fan dei western, guardate questa serie. Oltre ad essere stupenda, potrebbe farvi capire qualcosa in più dell’America di oggi.