Quando ero bambina, ricordo bene, una delle cose più divertenti per i miei nonni erano le persone grasse. Senza alcun tipo di freno inibitorio, determinato da qualche forma di educazione o di discrezione, i miei nonni, entrambi nati alla fine degli anni ’20, ridevano delle persone sovrappeso con genuina sincerità. Pur avendo un certo livello di istruzione e pur appartenendo a una classe sociale che imponeva un certo riguardo nei modi, non sono mai riusciti a trattenere una sonora risata davanti a un ciccione. Ciò che determinava la libertà, e in certi casi la sfrontatezza, con cui ridevano delle persone in carne, per così dire, era da un lato l’implicita natura comica del “grassone” – rafforzata dal cinema e dai suoi protagonisti buffi, da Stanlio e Ollio a Bud Spencer fino alla scena iconica di Charlot e Giacomone – dall’altro la mancanza di accortezza e tatto che invece ci spinge oggi a catalogare una derisione un tempo legittima con una parola spaventosamente seria: grassofobia.
La modella Natalie Hage qualche anno fa sarebbe stata definita con mera ipocrisia linguistica “una modella per taglie forti”, ma è ciò che oggi risponde invece all’appellativo di curvy. È diventata relativamente popolare perché oggetto di un dibattito, o meglio, artefice di una vera e propria gogna mediatica attuata attraverso la diffusione di un video in cui tira metaforicamente le orecchie di un uomo seduto accanto a lei su un aereo. Il tizio in questione si stava prodigando in messaggi derisori della modella, non immaginando le conseguenze catastrofiche che questo gesto avrebbe avuto sulla sua dignità, quando la ragazza ha malauguratamente per lui buttato un occhio allo schermo dello smartphone, leggendo tutto. Gli insulti, come è facile intuire, erano rivolti ai chili di troppo di Natalie Hage, con un’ironia tutt’altro che sottile e volta a ipotizzare una possibile incompatibilità tra il decollo del velivolo e il peso della ragazza.
Il caso di Natalie Hage è interessante per due motivi. Innanzitutto ritrae un sostanziale problema che ereditiamo da generazioni, ovvero l’istinto a prenderci gioco dei difetti fisici e delle diversità delle altre persone, con un livello di profondità dialettica che sembrerebbe essersi fermato tra le scuole elementari e medie. Un istinto oggi latente e mascherato dalle buone maniere che ci allontanano da quella eccessiva spontaneità che invece era propria di persone come i miei nonni. Allo stesso tempo è sintomatico di un’altra tendenza, quella che ci spinge alla necessità di ergerci a giudici morali attraverso la condivisione di episodi che suscitano indignazione. È come se ci sentissimo più sollevati, attraverso una sorta di catarsi, sapendo che chi ha insultato Natalie nel privato della sua chat è stato punito per le sue azioni. Come se nessuno di noi si fosse mai ritrovato a insultare la professoressa mentre è girata a scrivere alla lavagna. Al di là dell’ipocrisia da indignazione facile che sentenzia un epic fail, l’episodio è riconducibile a una forma di derisione e di insofferenza che rientra nel fenomeno del fat-shaming.
Come accade frequentemente nel mondo anglosassone, il suffisso “shaming” va a riempire un vuoto semantico che necessita evidentemente di essere colmato. Si applica così a ogni forma di aggressione verbale verso una categoria più debole, o semplicemente una categoria lontana dal grado zero dell’essere umano nel mondo occidentale, per così dire: un individuo bianco, maschio, normopeso, eterosessuale. Natalie Hage ha risposto al fat-shaming con un altro tipo di shaming, quello del web. Dunque, a offesa rispondiamo con offesa più grande, uno “specchio riflesso” con tanto di linguaccia. I grassi sventolando la bandiera dell’orgoglio del proprio corpo, bello “in all shapes and sizes”, chi li critica per non pensare al loro benessere issando quella della salute e del wellness. L’eterno conflitto si rafforza così esplorando un nuovo campo di battaglia, quello del web e della sua giuria popolare.
Confinando le azioni di chi si sente libero di insultare una persona per un suo carattere fisico a puro e semplice infantilismo ad hominem, resta da chiedersi il perché di questo particolare accanimento nei confronti della grassezza.
Migliaia di grassi in America hanno deciso che il modo migliore di combattere l’odio fosse attraverso una petizione per chiedere l’inserimento di protagonisti Disney sovrappeso, eroi o principesse che siano.
Ma davvero questo potrebbe essere un passo in avanti a favore della lotta ai pregiudizi e allo shaming nei confronti delle persone grasse? Principesse plus-size sono forse la soluzione a un problema che sembrerebbe risiedere tutto in una intolleranza universale alla diversità e che non si limita semplicemente alla grassofobia? La questione, forse, andrebbe vista anche da un’altra prospettiva, interrogandoci per esempio sul perché e sul quando siamo arrivati a parlare di curvy e di body positivity e che cosa intendiamo veramente con questi termini, quali sono i confini tra una persona che ha oggettivamente un corpo formoso, come vorrebbe letteralmente la traduzione di “curvy”, appunto, e una persona che è affetta da obesità e che elimina il problema con un appellativo che assolve il problema catalogandolo come banale diversità. Tenendo conto del fatto che la grassezza è una condizione fisica determinata principalmente –tranne nei casi di depressione cronica o particolari malattie genetiche –dalla volontà, o da una mancanza di volontà, e avendo ormai quasi del tutto smentito il mito degli ormoni o del “fat but fit”.
Esistono centinaia di profili Instagram o canali YouTube che si autodefiniscono attraverso frasi come “Fat body positive activist”, sottintendendo una vera e propria lotta allo stato percepito come nemico, quello, sostanzialmente, della salute. Dunque, strizzate in abitini da instagrammer o avviluppate in succinti completi intimi, le “fat body activists” lottano per il diritto alla grassezza e si oppongono al modello criticato adottandone i mezzi e l’estetica.
Questo ci ha portato a uno strano paradosso: le modelle curvy vengono ora insultate e attaccate quando perdono peso. Ashley Graham, la prima modella plus-size ad apparire sulla cover di Sports Illustrated, è stata massacrata sui social per essere dimagrita per pura scelta personale. Sarah Rout si rifiuta di perdere i 30 kg che potrebbero salvarla da una morte prematura per diabete perché terrorizzata all’idea di perdere follower e di ricevere insulti dalla comunità curvy. Evidentemente essere body positive funziona solo in una direzione.
Come spesso accade nei cortocircuiti culturali della contemporaneità, infatti, anche in questo caso le battagliere dell’orgoglio grasso incespicano in una goffa aporia, così come alcune femministe rivendicano la libertà del genere imponendo alle donne di non sposarsi.
Quindi, negare che l’obesità sia uno stato fisico che genera innumerevoli malattie, da quelle legate al sistema circolatorio al diabete e al cancro, e che non si tratti di una qualche forma di ribellione al canone imposto, imbracciando il forcone della lotta alla magrezza, riduce in qualche modo il pregiudizio e lo stereotipo legato all’immagine delle persone grasse? Piuttosto, forse, sarebbe più lecito parlare di un diritto individuale alla libertà di poter gestire il proprio corpo e la propria salute senza dover necessariamente aderire a uno stato che per motivi assolutamente soggettivi può non essere praticabile e accettare le responsabilità e le conseguenze delle proprie scelte estetiche e di salute. Quando però le proprie scelte vanno a influire negativamente sul funzionamento di una società, allora il peso di un individuo, sia metaforico che fisico, diventa un problema. Le persone obese sono oggettivamente un costo per il sistema sanitario di un Paese, ed essere grassi, per quanto ognuno debba poter decidere cosa fare della propria vita e del proprio corpo, è un problema sia per chi lo è sia per chi deve far fronte a questa condizione. E piuttosto che offendersi per uno stereotipo in un cartone animato sarebbe più saggio, forse, non negare l’esistenza di un problema.