Giuliana Sgrena nasce nel 1948 a Masera, a 29 anni cura Introduzione allo studio del pensiero di Mao e dal 1988 lavora come cronista a Il Manifesto, per cui fa l’inviata di guerra. Va in Algeria, Somalia, Afghanistan. Nel 2005 è a Baghdad per documentare le elezioni durante la guerra a Saddam Hussein. La mattina di venerdì 4 febbraio, entra in un’università gestita da uno sceicco per raccogliere testimonianze; gli uomini sono reticenti, ma le donne sono felici di raccontare le loro esperienze. Per parlare con loro, però, è necessario il permesso dello sceicco, e lui da subito prende tempo. Alla fine acconsente e Sgrena ascolta i racconti delle donne fino a mezzogiorno; quando deve andarsene, però, non può farlo senza salutare lo sceicco, sarebbe un’offesa. Dopo alcuni ulteriori ritardi, Sgrena e il suo interprete riescono a congedarsi, ma all’uscita dell’Università la giornalista si rende conto che qualcosa non va. Mentre parla al cellulare con la redazione nota che nella guardiola dove di norma c’è un piantone non c’è nessuno, e che l’uscita è ostruita da due automobili, messe di traverso. L’autista di Giuliana Sgrena capisce prima di tutti la trappola: esce di corsa dalla propria auto gridando di scappare, ma da quelle parcheggiate all’uscita scendono uomini armati di pistola e gliele puntano addosso. L’interprete tenta di chiudere la sicura alle portiere, una volta che la giornalista è salita a bordo, ma è inutile. Uno dei sequestratori spacca il finestrino, prende la giornalista di peso, la carica su una delle due auto e la porta via.
“Cosa volete farmi?”, domanda lei, seduta tra due uomini a volto scoperto.
“Devi solo registrare un video in cui chiedi a Berlusconi di ritirare le truppe dall’Iraq,” le risponde uno dei sequestratori, “Poi ti lasciamo libera.”
In Italia, i colleghi hanno sentito tutto dal cellulare della Sgrena, che non ha mai smesso di trasmettere ed è rimasto a terra. Dalla redazione avvisano prima la famiglia e poi l’unità di crisi della Farnesina, mentre via Internet arriva la rivendicazione dal gruppo “Organizzazione per la Jihad Islamica”, che in cambio del rilascio chiede all’Italia di ritirare le proprie truppe entro 72 ore. Il giorno dopo, un’ “Organizzazione della Jihad di Rafidain” minaccia di ucciderla se Berlusconi non annuncerà il ritiro dall’Iraq entro 48 ore. La sera arriva un altro ultimatum, in cui si afferma che una “commissione giuridica” sta decidendo le sorti della giornalista; a Baghdad Giuliana Sgrena guarda i telegiornali in compagnia dei suoi rapitori, che la rassicurano dicendo che “Non è vero, noi non siamo jihad, non siamo i tagliagole di Al-Zarkawi.” Sgrena non sa se creder loro o meno, ma è più preoccupata di un altro fatto: i sequestratori non coprono mai il proprio volto. E questo, di solito, è un gran brutto segno.
Domenica 6 febbraio 2005
A Baghdad la rete di informatori del SISMI aggancia il gruppo di sequestratori. Un informatore scopre che la tengono in una casupola isolata, a una ventina di chilometri dal centro. In Italia, palazzo Chigi fa sapere che i rapitori sono criminali comuni sunniti, ex del partito Baath. Nel Governo si diffonde l’ottimismo: si pensa di poter liberare Giuliana in poche ore, pagando un riscatto. Ma c’è un imprevisto: la fonte riferisce che stanno spostando la giornalista. Sarebbe stato strano il contrario, perché nell’Iraq post Saddam i sequestri sono un modo per fare politica, specialmente ora che i sunniti si sono autoesclusi dalle elezioni e non hanno diritto di parola in nulla. Gli ostaggi vengono venduti da un gruppo di criminali a un altro e a ogni passaggio il prezzo del riscatto sale. Per questa ragione, tenere Sgrena nello stesso luogo è pericoloso non solo per il rischio che i liberatori la localizzino, ma anche perché le bande rivali potrebbero sequestrarla.
Mercoledì 9 febbraio 2005
In Italia, presso la redazione de il manifesto si presenta un uomo minuto e dai modi affabili, che si qualifica come agente dei servizi segreti militari. I giornalisti ci restano male: non somiglia per niente allo stereotipo dei film. È educato, dolce e “molto simpatico”, come lo definisce la moglie. Si chiama Nicola Calipari e ha l’apparenza di una persona innocua, ma non lo è affatto. Nato a Reggio Calabria nel 1953, quasi nello stesso anno in cui Sgrena cura il suo studio sul pensiero Maoista, lui si arruola in polizia. Quando lei inizia a lavorare al Manifesto, lui dirige la squadra mobile a Cosenza. Ha una carriera veloce e brillante, costellata da operazioni antidroga e contro il traffico di armi. Nel 2002 entra nei servizi segreti militari (al tempo SISMI) e diventa capo della 2° divisione “Ricerca e spionaggio all’estero”. È merito suo se vengono liberate le due Simone e i tre contractors colleghi di Fabrizio Quattrocchi. A cinquant’anni, Calipari è il numero due dei servizi segreti militari. Parla con i giornalisti de il manifesto e si fa spiegare che tipo di articolo stava scrivendo Sgrena. Chiede che tipo è lei, chi sono i suoi amici, cosa stava facendo, chi sono i suoi contatti a Baghdad. Dopo aver ascoltato tutto quello che gli serve sapere, comincia le indagini. Non crede i sequestratori vogliano davvero il ritiro delle truppe dall’Iraq. Per costringere uno Stato a un gesto simile servono azioni ben più eclatanti, capaci di scatenare reazioni emotive enormi come l’attentato di Madrid. Aveva funzionato egregiamente con la Spagna, ma una giornalista rapita è troppo poco.
Giovedì 10 febbraio 2005
Per liberare un ostaggio non esiste protocollo fisso e, comunque, le modalità sono sempre coperte dal segreto di Stato. È plausibile credere i servizi segreti all’estero funzionino a connessioni sociali. Si arriva in un posto, ci si inserisce tra la popolazione locale imparandone usi e i costumi e si individuano i personaggi più influenti. Si studiano le simpatie e le antipatie, si compra qualcuno e si ricatta qualcun altro, fino a costruire una rete di occhi, orecchie e a volte anche mani capaci di arrivare lontano. Stando alle dichiarazioni di Niccolò Pollari, ex direttore del SISMI, in Iraq all’epoca c’erano tre articolazioni del servizio e “ognuna seguiva più percorsi operativi”. Calipari va dal consiglio degli Ulema, la massima autorità politica religiosa dei Sunniti, e attraverso di loro cerca dei mediatori che possano trovare – e intercedere – coi sequestratori. Ma sono piste che cadono nel nulla.
Sabato 12 febbraio 2005
Dal canale Al-Arabiya viene trasmesso un video di Giuliana Sgrena che supplica il marito e gli italiani di fare pressioni sul governo affinché Berlusconi ritiri le truppe. Il SISMI prima di diffondere il filmato ai media italiani lo studia; sulla parete bianca, alle spalle della giornalista, si vede un contatore elettrico che in Iraq è presente solo a Baghdad. Questo significa che anche se le fanno cambiare posto regolarmente, non la spostano mai dalla capitale. Circoscrivere l’area è un bel passo avanti, ma è anche una cattiva notizia: per le strade di Baghdad ci sono gli Stati Uniti, e non siamo in ottimi rapporti con loro. Per la verità, peggiori di così sarebbe difficile.
Bush e la sua amministrazione sono incazzati con noi. Non arrabbiati: incazzati. Sono in Iraq a caccia di armi di distruzione di massa che in realtà non esistono, perché il dossier che documentava l’acquisto di uranio nigerino da parte di Saddam Hussein era stato falsificato e portato all’attenzione della CIA da uno strano personaggio in odore di SISMI, Rocco Martino, sfruttando le testimonianze fasulle di un ingegnere iracheno ai servizi francesi che poi confesserà di avere mentito. Di quel dossier esistono mille domande e nessuna risposta: l’ha fatto il SISMI o Martino? È stato un errore, una vendetta, o era parte di qualcosa di più complesso? Il governo degli Stati Uniti è stato incastrato dai nostri servizi segreti, o è stato truffato da un calabrese? Chissà. Di certo, l’amministrazione Bush non vuole ammettere di essere in Iraq per aver creduto a una bufala; così da un lato le truppe americane torturano innocenti per noia e “per pagarsi il collage”, dall’altro non sono molto collaborativi con noi. A questa situazione va aggiunto che le loro truppe sono composte da inesperti citrulli dal grilletto facile, perciò gli incidenti sono all’ordine del giorno e i checkpoint sono una macelleria costante dove centinaia di uomini, donne e bambini iracheni vengono proditoriamente sterminati. A volte perché vanno in bicicletta troppo veloci, o perché non intuiscono che se nel bel mezzo del deserto qualcuno lampeggia una torcia elettrica, devi fermarti e dichiarare le tue generalità in inglese. Anche se non lo parli.
19 febbraio 2005
500mila italiani scendono in piazza per chiedere la liberazione di Giuliana Sgrena. Il SISMI vede la manifestazione trasmessa in tutto il mondo e teme questo farà alzare il prezzo del riscatto. Il giorno dopo, a Baghdad, da Calipari si presenta un uomo con una pagina scritta a mano da Sgrena (in francese), il pass della giornalista e il suo orologio. Calipari faxa la lettera alla redazione de il manifesto, dove viene analizzata da Pier Scolari e Gabriele Polo. Loro non hanno dubbi, è proprio la calligrafia di Giuliana. Nella lettera scrive che la stanno trattando bene. Nicola ha trovato il canale giusto e, attraverso l’intermediario, inizia la trattativa economica.
23 febbraio 2005
I giornali italiani decidono spontaneamente per il silenzio stampa, in modo che l’attenzione si abbassi e i servizi possano lavorare in pace. Mentre da un lato Calipari tratta la somma del riscatto, attraverso altri canali lavora per isolare i sequestratori dalla loro stessa gente. Tutto il mondo, inclusi i media iracheni, chiedono la liberazione della giornalista. Dalle moschee gli Ulema lanciano appelli. Il 23 febbraio, una TV irachena annuncia che la liberazione “è imminente”. In condizioni del genere spostare la giornalista diventa complicato.
Venerdì 25 febbraio 2005
Alla sede della Croce rossa di Baghdad viene recapitato un nastro con la voce della Sgrena. Questo vuol dire che è viva, ma anche che i sequestratori stanno provando altri canali, forse per cercare un’offerta migliore, o forse per tendere una trappola, creare confusione e guadagnare tempo. Nicola decide di bluffare: finge di chiudere la trattativa e torna a Roma, dove aspetta per una settimana di silenzio assoluto. Poi riceve una telefonata: i rapitori hanno accettato di liberare Sgrena, anche se non si saprà mai per quale somma. Torna a Baghdad.
4 marzo 2005, ore 15
È dai primi di marzo che i rapitori dicono alla Sgrena che presto verrà liberata. Quel giorno entrano nella stanza e, scherzando, le dicono “Complimenti, stai partendo per Roma.” Giuliana si cambia i vestiti, gli uomini tornano a prenderla, la bendano e la caricano in macchina, raccomandandosi di non tradire in alcun modo la sua presenza, perché se gli americani si accorgesseri di lei “si scatenerebbe un conflitto a fuoco”. Intanto, Nicola Calipari e Andrea Carpani, maggiore (o capitano, non è chiaro) dei Carabinieri passato al SISMI, atterrano all’aeroporto internazionale di Baghdad. Trovano ad attenderli il generale Mario Marioli e il capitano Daniel J. Green, medico militare americano. Consegnano a Calipari armi, documenti di riconoscimento, lasciapassare e una Toyota Corolla Grigia. I due agenti partono per Mansur, un quartiere alla periferia di Baghdad, dove arrivano alle 17. Ormai il sole è calato, è brutto tempo e la visibilità è bassa. Qui vengono raggiunti da un’auto i cui passeggeri fanno cenno di seguirli e li conducono attraverso vicoli sempre più angusti. È un modo che hanno i sequestratori per assicurarsi non ci siano altre automobili, e per disorientare i due italiani, che più passano i minuti più perdono l’orientamento.
Contemporaneamente, in un’altra auto, Giuliana si rende conto che stanno transitando in una zona con delle pozzanghere. Ricorda di avere sentito un elicottero. La macchina si ferma e gli uomini scendono, lasciandola lì. La Corolla di Calipari arriva all’entrata del vicolo, l’auto che li guida lo indica e corre via. I due uomini scendono con le armi in pugno e raggiungono l’autovettura con i nervi a fior di pelle, aspettandosi un agguato o un’autobomba. Invece trovano la giornalista. Giuliana sente la voce di Calipari dire: “Giuliana, sono Nicola, non ti preoccupare, sono amico di Pier e di Gabriele, stai tranquilla, sei libera.” Le toglie la benda e la conforta. Dopo essersi accertato che la giornalista stia bene i due agenti la caricano sulla Toyota e, dopo essersi orientati, si immettono sulla famigerata route Irish, una strada che attraversa il deserto dove si consumano attentati, sparatorie e altri “imprevisti” che le hanno fatto meritare il soprannome di “strada della morte”. Vanno piano, con fari e luce di cortesia accese, diretti verso l’aeroporto dove un aereo è già pronto. Durante il tragitto Sgrena nota Carpani contattare due volte l’ambasciata e la Farnesina per comunicare la loro direzione. Calipari telefona a palazzo Chigi dove sono riuniti Gianni Letta, Silvio Berlusconi e Niccolò Pollari. ”Siamo in tre, siamo in macchina e stiamo rientrando,” dice.
Quasi contemporaneamente, Al-Jazeera annuncia che Giuliana Sgrena è stata liberata, e nella redazione de il manifesto si stappano bottiglie e si fanno brindisi.
Ore 19
A un chilometro dall’aeroporto, il comando USA ha ordinato al 69° reggimento della Guardia Nazionale di creare un check point provvisorio sulla route Irish. Consiste in due veicoli blindati che, per un massimo di 15 minuti, bloccano il traffico in una direzione. Il motivo è che dovrebbe passare un rhino-bus, un autobus blindato al cui interno ci sarebbe l’ambasciatore statunitense John Negroponte. Normalmente si sposterebbe in elicottero, ma c’è brutto tempo. Alla mitragliatrice di uno dei blindati, posta dietro un faro con la potenza di 3mila candele, c’è il sergente Mario Lozano, un portoricano del Bronx. Quando la Toyota Corolla arriva a duecento metri, Lozano accende un faro e contemporaneamente apre il fuoco. I vetri dell’abitacolo della Corolla esplodono sotto le raffiche di mitragliatrice, che crivellano la carrozzeria. Calipari in una frazione di secondo si getta sopra Sgrena, abbracciandola e facendole scudo. Al volante, Carpani si getta di lato urlando in italiano e in inglese “siamo italiani”. I proiettili feriscono il carabiniere a un braccio, la Sgrena a una spalla e un polmone, mentre Calipari viene colpito alla testa e resta ucciso. Giuliana sente il corpo di lui diventare pesante. La macchina inchioda, i soldati la circondano e tirano fuori prima Carpani, poi Calipari e infine Sgrena, che ricorda di avere sentito il rantolo di Nicola e un soldato americano esclamare “shit!”.
Dopo il funerale di Calipari gli americani aprono un’inchiesta a cui in teoria potrebbero partecipare anche gli inquirenti italiani, ma nella realtà non è loro permesso interrogare i testimoni, né ispezionare la scena del crimine – che comunque è stata ripulita. I war-log del 69° reggimento sono stati distrutti e il clima, riferiranno poi i magistrati, è sospeso tra l’omertà e l’indifferenza. Alla fine, gli americani concludono che si è trattato di un incidente la cui colpa sarebbe da imputare ai tre italiani che viaggiavano veloci, a fari spenti e che non avrebbero sentito né gli avvertimenti verbali, né le raffiche di segnalazione. Non avrebbero nemmeno visto un faro da 3mila candele. Gli italiani hanno dimostrato che la macchina viaggiava piano, e un filmato trapelato pochi istanti dopo la sparatoria mostra la macchina crivellata di colpi coi fari accesi. Non si saprà mai cos’è successo davvero. In quel periodo, sia Italia che Stati Uniti volevano lasciarsi la questione alle spalle rapidamente. Come spesso finisce in Italia, restano solo i fatti: un uomo di Stato che abbraccia una giornalista per salvarle la vita. La realtà, a volte, sa essere più retorica delle parole.
Secondo alcune stime, il costo finale dell’operazione tra mediatori e riscatto ammonterebbe a sei milioni di euro. La moglie di Calipari è entrata nel Pd e, intervistata da Blu notte, ha un ricordo del marito dolce e romantico. La Sgrena dichiarerà che per lei, il 4 marzo non è l’anniversario della sua liberazione, ma della morte del suo liberatore. Continua a scrivere sul manifesto. Mario Lozano, il mitragliere, oggi vende condizionatori.