“Appena avranno occupata la zona e fortificato le posizioni, dovranno subito rimuovere dall’incarico gli elementi dubbi, sorvegliando tutta la popolazione. Primo compito sarà di istituire un centro raccolta comunale per fascisti ed esponenti di partiti governativi e reazionari, da dove, appena il comando provinciale potrà farlo, i nemici dovranno essere inviati in campi di concentramento regionali.”
(Dall’Archivio del Min. dell’Interno)
1945 – LA NASCITA
Quando la seconda guerra mondiale finisce nei primi giorni del maggio 1945, il CNL e gli Alleati ordinano ai partigiani di consegnare le armi. Il 40% dell’arsenale, quello più moderno ed efficace, viene nascosto. Alcuni partigiani formano un apparato paramilitare suddiviso in gruppi, detti “nucleo di azione clandestino”. Sono collocati soprattutto al nord e al centro e costituiti da ex membri delle brigate comuniste Garibaldi, agli ordini di Pietro Secchia. Il 15 giugno 1945, Michail Kostylev, ambasciatore sovietico, scrive al Cremlino che “i partigiani del nord continuano a nascondere le loro armi”. Forse perché hanno paura la guerra ricominci, ma, più probabilmente, perché fa parte di un piano. Scrive Giorgio Bocca: “In quella Italia di strisciante e perdurante guerra civile ci furono regioni come la Toscana, come l’Emilia dove l’egemonia comunista autorizzò alcuni quadri medi e alcune frange partigiane a una faziosità, a una voglia di vendetta che affondavano le loro radici nella ferocia delle lotte contadine sul nascere del fascismo.”
Secondo una stima fatta dagli americani, i comunisti italiani agli ordini del Cremlino sono tra i 130mila e 160mila uomini; in realtà, stando agli archivi del KGB, sono circa 77mila. Il 9 novembre 1947 il questore di Novara segnala che a Modena c’è “una specie di Stato maggiore sovietico” che comanda “113 brigate comuniste ognuna composta di 500 uomini, armate e comandate in parte da elementi jugoslavi”. Sono agli ordini del “comitato dei cinque”: Palmiro Togliatti, Pietro Secchia, Antonio Cicalini, Giulio Seniga e Armando Fedeli. E quest’organizzazione conta di prendere il potere con le armi. Il PCI, insomma, ha due facce: quella pacifica, pubblica, di Palmiro Togliatti e quella segreta, pronta alla guerra civile, di Pietro Secchia; ognuna consapevole dell’altra ed entrambe coordinate dal Cremlino. Alcuni storici la chiameranno Gladio rossa, ma il termine corretto è Quinta colonna. Perché questi combattenti dormienti devono essere d’aiuto alle truppe sovietiche in caso Stalin decida di invadere l’Europa.
Il 23 marzo 1948, poco prima delle elezioni, Togliatti si incontra in un luogo segreto fuori Roma con Kostilev, il quale riferisce a Moasca: “Il compagno Togliatti con voce ferma e pacata mi ha chiesto di domandare agli amici di Mosca se essi ritengono che nel caso della vittoria del fronte democratico e delle inevitabili ripercussioni dobbiamo fin da ora mettere in moto le forze per una conquista del potere”. Tre giorni dopo, da Mosca rispondono: la Quinta colonna entrerà in funzione solo in caso di attacco alle sedi del PCI, perché la presa del potere con le armi, al momento, è inattuabile.
Ma Stalin mente. Non gli interessa invadere l’Europa, quanto fomentare e aiutare il terrorismo. All’Unione Sovietica questo fa molto comodo sia per controllare la situazione interna (“vedete cosa succede in Occidente?”) sia a livello esterno, perché gli Stati instabili sono nemici deboli. Stalin non può invadere l’Europa soprattutto perché ci sono due galli nel pollaio. In Jugoslavia c’è Tito: pur essendo un folle genocida e razzista, ha tenuto testa alla Germania, all’Italia, ai croati di Pavelic e alle milizie monarchiche di Mihailovic. È anche l’unico che non ha avuto bisogno dell’Armata rossa per liberare il proprio Paese; rifiuta di comportarsi come un sottoposto e anzi, vuole fondare una federazione balcanica con Albania e Bulgaria, e vuole trattare Stalin da pari grado. A quel punto, la Russia è costretta ad allontanarlo. Il 20 giugno 1948 Secchia e Togliatti vanno a Bucarest, incontrandosi con il gotha del comunismo mondiale, e firmano l’espulsione di Tito dal KOMINFORM perché “si era posto fuori dal fronte unito dei comunisti”. Chiunque dubiti della decisione o faccia domande, viene fulminato. Ma, allontanata la Jugoslavia, Stalin non ha più il corridoio nei Balcani attraverso cui potrebbe entrare in Europa.
1948 – L’ATTENTATO A TOGLIATTI
Il 14 luglio 1948 Togliatti esce da Montecitorio: Antonio Pallante, un ex sostenitore del Partito dell’Uomo qualunque passato a una branca più estrema, tira fuori una Smith & Wesson calibro 38 e gli spara quattro colpi alle spalle. Appena la notizia si diffonde, è il panico. A Torino gli operai della FIAT sequestrano l’amministratore delegato; molta gente scende in piazza armata, aprendo il fuoco contro le forze dell’ordine; ci sono morti a Napoli, Livorno, Genova e Taranto; i treni si bloccano e i telefoni smettono di funzionare. Dopo tre giorni in un clima di pre-anarchia, Togliatti viene operato con successo e si salva. È lui, con un comunicato, a bloccare la cosiddetta presa del potere invitando i compagni a “non fare pazzie”. Complice – forse – anche la vittoria di Gino Bartali alla tappa del Tour de France, le folle si placano e le strade si svuotano. Durante la riunione del Consiglio dei ministri del 19 luglio 1948, Mario Scelba scorre i verbali e i rapporti e si mette le mani nei capelli: anche se spontanei, i moti di piazza sono troppo ben coordinati. Le prove per un tentativo di golpe sono evidenti, tanto che a Milano i Carabinieri fanno denunce per atto di insurrezione contro i poteri dello Stato: è evidente che il PCI ha una branca armata. Si propone di mettere il PCI fuori legge, ma Scelba fa un ragionamento straordinariamente italiano: “Se si mette fuori legge un partito insurrezionalista, cosa lo trattiene dall’insorgere?”. Da un lato il PCI ha la speranza di farcela con le elezioni, dall’altro non avrebbe niente da perdere. La cosa migliore per preservare l’ordine (e la vita dei civili) è una democrazia a sovranità limitata. È brutto, ma funziona.
Ed è badandosi su questo modus operandi che la quinta colonna del PCI lavora: creare disordini come premessa e promessa di altri disordini, anche se non si è in grado di mantenerli, a patto che lo Stato o l’avversario non capitolino.
Nel marzo del 1950 a Praga viene fondata una scuola di sabotaggio, intercettazione, guerriglia e attentati, a cui partecipano alcuni italiani mai identificati. La denominazione ufficiale è Scuola Politica del Compagno Sinka (Politicka Skola Soudruha Synka). Molti istruttori sono russi, e gli allievi dovrebbero rientrare in Italia nel febbraio 1951, per tentare un Putsch. La notizia arriva tramite i nostri servizi segreti al Ministero degli Esteri nell’ottobre 1950: vengono pianificate misure di sicurezza per prevenire, e nel caso parare, un eventuale tentativo di golpe, mentre il Cremlino continua a finanziare il PCI – i documenti originali concessi dall’Archivio Centrale dell’ex KGB di Mosca mostrano finanziamenti di oltre mille miliardi di lire. Quando Stalin muore, nel marzo 1953, la quinta colonna cambia forma. La responsabilità dell’organizzazione passa dalle mani di Secchia a quelle di Giorgio Amendola, che la riforma: sfoltisce i suoi ranghi e li specializza in minuscoli gruppi chiamati “gruppi di pronto intervento” o “gruppi d’azione”, addestrati in Russia, Jugoslavia e Cecoslovacchia. Sono dislocati perlopiù nel nord Italia e in Francia.
1960 – UNA DEMOCRAZIA SOTTO RICATTO
A Genova la situazione è tesa sia per la chiusura di molte aziende, che hanno lasciato per strada svariati operai, sia per la situazione politica: sta per tenersi il congresso del MSI (Movimento Sociale Italiano) che accoglieva al suo interno ex esponenti del fascismo e ne incarnava i valori. Socialisti, comunisti, radicali e repubblicani definiscono il congresso “una grave provocazione” e chiedono ai genovesi di ribellarsi. Ai primi di giugno si verificano scontri tra manifestanti e filo-MSI, sedati puntualmente dai Carabinieri. A ogni manifestazione si aggiungono nuove persone: studenti, operai portuali, cittadini. Poi il 30 del mese la tensione esplode, travolgendo tutta la città e trasformandola in un inferno di bombe lacrimogene, sassaiole, scontri e cariche. In meno di 24 ore 162 agenti e 40 manifestanti restano feriti. Il conflitto viene bloccato dal presidente dell’ANPI che, assieme a un gruppo di ex partigiani, ottiene l’interruzione degli scontri, a patto che non venga effettuato alcun arresto.
È una cosa enorme. Significa che dei civili hanno il potere di sottomettere lo Stato, e non è l’unica occasione in cui succede. Il giorno dopo ci sono disordini a Torino; il 2 luglio, il primo giorno del congresso MSI, la camera del lavoro di Genova entra in sciopero: il prefetto è costretto a offrire un accordo ai manifestanti, che viene rifiutato. PCI e ANPI hanno un tale dispiegamento di uomini e mezzi che il questore valuta l’opzione delle armi da fuoco. Alla fine il MSI rinuncia al congresso “per ragioni morali, politiche ed organizzative”.
Negli archivi segreti del PCI c’era tutto. Piani, deposito armi, liste di proscrizione ed epurazione, luoghi dove istituire campi di concentramento, nomi dei cittadini sotto copertura. Della quinta colonna non sono pervenute altre azioni eclatanti. Alberto Franceschini, capo storico delle Brigate rosse, dichiara che alla fine degli anni ’60, in Emilia Romagna, gruppi di ex partigiani le tenevano in perfetta efficienza. Sappiamo anche che nel 1974, 19 comunisti italiani vengono addestrati in Russia su richiesta del PCI mentre Cossutta prende soldi da Mosca, Barontini “Klaudio” riceve i soldi, firma le ricevute e se ne va. Poi, quando nel 1982 la polizia fa irruzione in un covo di brigatisti, trova due mitragliatori Sten provenienti da quel 40% di arsenale mai consegnato nel 1945.
E qui le cose finiscono, oppure si complicano di molto.
Che fine hanno fatto, le armi? Che fine hanno fatto quegli italiani addestrati all’estero?
È convinzione diffusa, almeno da parte di alcuni storici (da Silvio Pons a Valerio Riva), che la conseguenza della Quinta colonna siano state le Brigate rosse. Dopotutto, sulle BR non sono stati mai chiariti alcuni aspetti chiave: chi le armava? Chi le addestrava? Com’era possibile che dei ragazzini appena usciti dall’università fossero in grado di organizzare operazioni di stampo militare? Ma per ora, come al solito, queste domande non hanno una risposta. Nel 2000, il consulente della commissione stragi Gianni Donno, ha accertato che gli archivi segreti del PCI sono stati fatti sparire.