C’è una scena in Mindhunter che mi ha fatto alzare dal divano. Mi sono dovuto stropicciare gli occhi, ho bevuto un po’ d’acqua e poi sono tornato a sedermi. Ho riguardato la scena. E poi l’ho riguardata ancora, e ancora. Semplicemente, quella scena era perfetta.
È contenuta nell’episodio 9, uno dei quattro diretti da Fincher. L’agente Holden Ford è arrivato alla fase finale della sua discesa nei recessi oscuri della psiche umana. Ormai è rimasto così tanto a contatto con il male, che il male ha iniziato a contaminarlo. “Lei è a disagio, agenteFord. Perché? ‘Deviante.’ ‘Tortura.’ ‘Mutilazione.’ Il mondo in cui vive l’ha resa paranoico.”: così si difende il preside Wade accusato – ingiustamente – da Ford di essere un pedofilo, nell’episodio precedente.
Nel nono episodio la moglie del preside si presenta a casa dell’agente Ford. La scena si svolge nella penombra di un corridoio: Ford, nascosto nell’oscurità, parla con la moglie del preside, ferma all’ingresso di un ascensore che, insistentemente, cerca di chiudersi. Questa scena non è solo perfetta a livello sia figurativo, sia metaforico; è perfetta anche a livello di sceneggiatura (Ford paga le conseguenze di un gesto di rabbia seminato negli episodi precedenti, e il suo atteggiamento in questa scena si ripercuote nelle sue azioni future, definendo l’arco del personaggio).
Non riesco a smettere di pensare che solo una persona che padroneggia alla perfezione tutti gli strumenti dell’arte cinematografica possa costruire una scena che, pur nella sua semplicità, rimane indimenticabile. La rete pullula di video essay che affrontano l’opera e la poetica del regista alla ricerca di una spiegazione alla sua bravura, di un perché i suoi film siano opere visivamente impeccabili. Quello dei video essay è un esercizio di stile interessante, ma analizzare le inquadrature e i movimenti di macchina di un film è come cercare di mettere in prosa una poesia. Fincher è molto di più delle sue scelte di campi, molto di più della sua bravura maniacale nel dirigere gli attori. Fincher è un artista perfettamente consapevole di ogni singolo aspetto della tecnica che utilizza per esprimersi, un maniaco del controllo capace di sfruttare il mezzo cinematografico come nessun altro della sua generazione.
Dopo aver diretto oltre 50 videoclip musicali, Fincher approda al cinema nel 1992 con il terzo capitolo di Alien. Come Nolan, anche Fincher ha diretto solo dieci film, ma a differenza di quelli di Nolan, alcuni dei film di Fincher non funzionano bene come dovrebbero. Ma se è più facile fare una classifica a partire dal basso, arrivati in cima è impossibile prendere decisioni che non provochino disappunto. Ve lo dico in anticipo, così da mettervi il cuore in pace: Fight Club non è sul podio.
10. PANIC ROOM (2002)
Devo essere sincero. Di questo film ricordo solo il fastidio e la noia. Più il fastidio che la noia. Avevo vent’anni ed ero ingordo. Fight Club era stato uno di quei film che aveva cambiato per sempre la traiettoria dei miei gusti, cinematografici e non solo. Attendevo il nuovo film di Fincher con ansia e trepidazione. Si susseguivano, ai tempi, gli articoli sulle nuove tecnologie di ripresa usate dal regista per raccontare la claustrofobia di una madre e una figlia intrappolate nella loro stessa casa, tenute sotto assedio da tre ladri. Fincher, claustrofobia, nuove tecnologie: c’erano tutti gli ingredienti per un lauto banchetto. E poi quel film. Sì, la macchina da presa sembrava passare tra i manici delle tazze e attraverso le serrature, ma non poteva intaccare la noia di un plot scontato, con i tre intruders caratterizzati in modo sommario e un terzo atto dalla risoluzione più che discutibile. Jodie Foster e Forest Whitaker si salvano dalla bidimensionalità in cui lo sceneggiatore Koepp intrappola gli altri personaggi, ma è comunque troppo poco per le mie aspettative da ventenne e, soprattutto, per un regista che, all’epoca viveva dell’hype dei suoi due precedenti lavori. Da segnalare l’interpretazione di una giovanissima Kristen Stewart che in quel film sfoggiava addirittura tre espressioni.
09. ALIEN3 (1992)
Non ho messo il terzo Alien all’ultimo posto solo ed esclusivamente per una questione di empatia. Fincher ha solo 28 anni quando viene chiamato a dirigere il terzo capitolo di una delle saghe più famose della storia del cinema. Il regista precedente è stato licenziato e, con solo una decina di settimane di preparazione, i produttori storici del franchise decidono di chiamare questo giovane regista di videoclip, formatosi alla ILM di George Lucas. È la possibilità di una vita per Fincher e lui, nonostante le ritrosie, accetta l’incarico: è la prima volta nella storia del cinema che un esordiente si ritrova un budget di 65 milioni di dollari.
Fin da subito Fincher dice qualcosa che spiazza tutti: vorrebbe che l’Alieno non fosse al centro del film e che, a differenza dei precedenti capitoli, non fosse il perno attorno al quale ruota la storia. Vorrebbe che tutto si basasse sui personaggi umani, sulle loro emozioni e sull’ambiente che li circonda. I producers gli poggiano una mano sulla spalla e probabilmente gli dicono: “Ragazzino. Questo è Alien. L’Alieno sta nel titolo, è lui il protagonista.” Fincher, che sì, è un ragazzino, ma è già determinato e ossessionato dal suo lavoro, punta i piedi e cerca disperatamente di fare il film che ha in mente. E di questa dicotomia il film rimane vittima: alcuni spunti interessanti – come l’idea (sempre claustrofobica) di ambientare tutto in una colonia carceraria, bella l’idea del suicidio finale di Ripley – ma nulla di più. David impara la lezione a proprie spese e per i film successivi esige il pieno controllo della pellicola. La differenza si vede, eccome.
08. THE GAME (1997)
Oggetto curioso, bistrattato, sicuramente sottovalutato, è il primo film che Fincher realizza dopo il successo di Se7en – visto il termine di paragone va apprezzato il suo coraggio – e lavorando su un copione che a Hollywood girava già da qualche anno. Michael Douglas è un moderno Scrooge, attaccato al denaro e alla carriera, odiato dai suoi collaboratori, abbandonato dalla famiglia. Gli rimane solo il fratello minore, Sean Penn che, come regalo di compleanno, regala a Douglas l’iscrizione a The Game, una sorta di esperimento sociale a cui Douglas decide di partecipare. Da quel momento tutto intorno a lui inizia a collassare, come in una giostra dal sapore thriller/spionaggio. Dicevo, oggetto curioso: The Game è un film come non se ne producono più a Hollywood. Persi nel mondo dei franchise, i piccoli film thriller hanno infatti scavalcato il confine tra il mainstream e l’indie e spesso non trovano sbocchi produttivi, ma nel 1997 Fincher riesce a dirigere una moderna, versione di A Christmas Carol che incontra Mission: Impossible. Lo fa a modo suo, tra atmosfere cupe, macchina da presa sempre in movimento e un attore perfetto nel ruolo di Van Orton, Yuppie che strizza l’occhio a Gekko.
07. THE CURIOUS CASE OF BENJAMIN BUTTON (2008)
La stessa prova del tempo che risulta abbastanza impietosa nei confronti di The curious case of Benjamin Button. La Tecnica con la T maiuscola è sempre stata al centro dei ragionamenti artistici di Fincher, punto cardinale grazie al quale orientarsi nella sua filmografia e nelle sue scelte stilistiche. Una delle sue più grandi qualità è quella di abile equilibrista su questo filo sottile tra amore per la tecnica e passione per la narrazione: è facile sbilanciarsi e cadere, ed è esattamente quello che succede in questo film. Fincher sembra molto più interessato alla tecnologia digitale che permette a Brad Pitt di ringiovanire, piuttosto che alla storia che sta raccontando. È, volendo, il suo film più classicamente hollywoodiano, con alcuni segmenti meravigliosi, certo, ma troppo ridotti rispetto a un film lunghissimo di cui molte parti chiamano lo sbadiglio.
06. GONE GIRL (2014)
L’ultimo film di Fincher è il culmine del suo percorso letterario che, dopo The Girl With The Dragon Tattoo, approda a un romanzo molto strutturato come quello di Gillian Flyn. Con questa sesta posizione entriamo nel terreno più scivoloso della filmografia di Fincher. Da qui in poi tutti i film sono materia di studio – e non solo il solo a vederla così: c’è un folle che ha messo in fila ogni singolo quadro – sono 2400 – di Gone Girl. Anche questo film è pieno di effetti digitali, come The curious case of Benjamin Button, ma sono effetti al servizio della narrazione, il più delle volte nascosti all’occhio dello spettatore, utili solo per rendere più complesso o funzionale il racconto scenico.
“A cosa pensi? Come ti senti? Che cosa ci siamo fatti?” si chiede la voce fuori campo all’inizio del film, marcando la sostanziale impossibilità per una coppia di conoscere il rispettivo compagno o compagna. E il film, diviso esattamente a metà, sembra sottolineare questa impossibilità con toni che variano dal thriller alla satira sociale. Ben Affleck e Rosamund Pike sono due scelte perfette per i ruoli di Nick e Amy: lui sornione, lei algida, quasi irreale, costruita e presentata come Amazing Amy – un personaggio di finzione caratterizzato proprio dalla sua perfezione. Ma, nei rapporti di coppia, soprattutto nei film di Fincher, la perfezione non può che essere una amara illusione.
05. THE GIRL WITH THE DRAGON TATTOO (2011)
Leggendo in rete si trovano un sacco di recensioni che definiscono questo film “non necessario”. Esiste già una trilogia Millenium tratta dai libri di Stieg Larsonn, con Noomi Rapace nei panni di Lisbeth Salander: tre film modesti che portano a casa l’adattamento senza tanti fronzoli, film al servizio del successo planetario del libro. Si vocifera di un adattamento americano e quando viene fatto il nome di Fincher molti fan del libro storcono il naso. E non hanno tutti i torti. Perché Fincher prende Uomini che Odiano le Donne e lo trasforma in un film di Fincher. Molto più interessato alle dinamiche psicologiche tra i due personaggi piuttosto che alla trama del giallo, Fincher costruisce un film dalla struttura particolare, con archi narrativi che si sviluppano in parallelo (quelli di Blomkvist e Lisbeth) fino a quasi la metà del film. La storia d’amore che nasce tra i due ha la tenerezza degli incontri tormentati tra persone problematiche. Le musiche di Trent Reznor amplificano, sottolineano, emozionano in modo distorto in questo film che probabilmente è piaciuto al sottoscritto e a pochi altri, così tanto da portare a sospendere la produzione della trilogia. È notizia recente che The Girl in the Spider’s Web uscirà nelle sale alla fine del 2018, con alla regia Fede Alvarez. Purtroppo.
04. FIGHT CLUB (1999)
Com’è successo che siamo diventati adulti? Io e la mia generazione, nel 1999, non avevamo ancora vent’anni. Come sono arrivati i problemi e le presunte sicurezze dell’essere quarantenni? Senza che ce ne accorgessimo, di sicuro senza che fossero richieste. Come è successo che Tyler Durden, improvvisamente, abbia smesso di essere l’eroe, la citazione, il totem preferito per esprimere il nostro disagio?
Avrò visto Fight Club decine di volte; anche solo piccoli pezzi anche solo il finale su YouTube, con i Pixies in sottofondo. La casa che si arreda con mobili Ikea, Marla Singer, che è come un taglio sul palato. E poi è successo che l’ho visto una volta, di nuovo intero, e non mi ha fatto più nessun effetto: è stato il giorno in cui ho capito che il manifesto di una generazione non invecchia, mentre la generazione sì. Così il manifesto rimane disponibile per la generazione successiva, e noi invece si cresce. Cambiano non solo i gusti, ma la percezione di un’opera. Non posso, sulla soglia dei miei quarant’anni, pensare che Fight Club sia meglio di Se7en. Non posso, ora che fatico anche solo a bere due bicchieri di vino senza avere il mal di testa, avvicinare Fight Club a Zodiac e The Social Network. Spero solo che la generazione successiva sia abbastanza sveglia e malata per potersi riconoscere in Tyler Durden, che anche loro ammettano di essere “la canticchiante e danzante merda del mondo.”
03. SE7EN (1995)
Seven è solo il secondo film che Fincher realizza come regista. Ha poco più di trent’anni quando il thriller con Morgan Freeman, Brad Pitt e Kevin Spacey (accuratamente non menzionato nel cartellone) esce nelle sale. Trent’anni. Poco più che trentenne Fincher dirige quello che sarà il benchmark per molti dei thriller hollywoodiani a venire. Ci allontaniamo dalle logiche del whodunit che caratterizzavano molta della letteratura e del cinema di genere americano; qui il killer si costituisce quando manca ancora mezz’ora dalla fine del film. Fincher, come per i successivi, incentra il suo film sui personaggi. Sono archetipi (il vecchio poliziotto che le ha viste tutte, il giovane poliziotto sempre pronto all’azione, il killer biblico), ma il mondo in cui Fincher li inserisce è quanto di più reale possiamo immaginare. Reale è l’orrore degli omicidi che Somerset e Mills si ritrovano a risolvere, reale la complessità psicologica di questa nuova tipologia di killer che il cinema hollywoodiano stava appena iniziando a conoscere. Erano passati pochi anni dall’uscita de Il Silenzio degli Innocenti e non è una vicinanza casuale. Quello che Jonathan Demme ha fatto con il libro di Thomas Harris è molto simile a quello che Fincher fa con i suoi personaggi, focalizzandosi molto più sui loro movimenti interni, piuttosto che sulla trama esterna. Trent’anni. Molti di noi a quell’età devono ancora decidere cosa fare “da grandi”. Fincher, invece, ha realizzato un film entrato nella storia del cinema.
02. ZODIAC (2007)
Zodiac, invece, nella storia del cinema non ci è entrato, ed è una bestemmia bella e buona.
Prima che esistessero i true crime documentary di Netflix c’era Zodiac. Lo Zodiac killer è un assassino che operò in California negli anni ‘70. Non fu mai catturato, nonostante la scia di indizi lasciati, nonostante diverse lettere che riportavano un codice da decifrare. Una di queste lettere fu spedita al San Francisco Chronicle: è lì che troviamo i nostri due protagonisti, un giornalista d’assalto, Avery (un Robert Downey Jr. pre-Iron Man) e un fumettista, Robert Graysmith. I personaggi sono realmente esistiti ed è sul libro di Graysmith che si basa il film. Zodiac è un film difficile, complesso, di non facile lettura e, soprattutto, molto avanti per i tempi in cui è uscito; viaggia in una direzione contraria rispetto al resto degli action-crime hollywoodiani, portando a termine un percorso iniziato proprio con Se7en. Gli omicidi avvengono tutti nella prima metà del film e del killer oltre non resta nemmeno traccia: rimane come un’ombra presente solo nei destini dei protagonisti. Avery diventa un tossico, Graysmith perde la famiglia: sono le vite di questi due il vero focus del film. Qui Fincher affina il suo gusto estetico legato al mondo crime, fatto di ambienti spesso vuoti, di polvere nell’aria anche in stanze non polverose, con movimenti di macchina che assecondano sempre quelli dei personaggi. È lo stesso codice che porterà, dieci anni dopo, Mindhunter a essere una delle serie migliori dell’anno.
01.THE SOCIAL NETWORK (2010)
“There’s a difference between being obsessed and being motivated”, dice Mark Zuckerberg all’inizio di Social Network, e potrebbe essere tranquillamente una frase messa a epitaffio sulla tomba di Fincher quando un giorno morirà. La solitudine del creatore di Facebook potrebbe essere la stessa del regista: la mania di controllo che gli appartiene, le incomprensioni con il resto del sistema che gli gravita intorno. Forse sono state queste somiglianze, forse è stato lo script incredibile di Aaron Sorkin, resta il fatto che Fincher è riuscito a fare uno dei più grandi film degli ultimi anni raccontando la storia di nerd seduti al computer che si fanno dispetti. Chi altro sarebbe riuscito a rendere materiale narrativo una simile storia? Social Network è il nostro Quarto Potere – Harvard prima, e la Silicon Valley poi, la nostra Xanadu. Proprio come William Randolph Hearst, Zuckerberg con la sua genialità e misantropia ha cambiato per sempre il nostro modo di comunicare e, di conseguenza, il nostro mondo. E Fincher in sole due ore racconta non solo questo, ma anche la storia di un’amicizia, quella con Eduardo, e la storia di un amore fallito: semplicemente perfetto.