Se tra cinquant’anni dovessimo scegliere un tratto caratterizzante dei giorni nostri probabilmente eleggeremmo i social network. Un giorno, forse, ricorderemo gli anni solari non con il loro numero ma con degli #hashtag, come in una versione più moderna di un romanzo di David Foster Wallace. E sicuramente tra i vari topic di questo 2017 ci sarebbe la #culturalappropriation, l’appropriazione indebita di usi o caratteristiche proprie di culture diverse da quella di appartenenza.
La polemica arriva dagli Stati Uniti ed è stata sposata da diversi gruppi etnici: nativi americani, sudamericani (soprattutto messicani), orientali e in particolare africani. In sostanza, su Instagram c’è un gran dibattito sulle foto di ragazze bianche ritratte in modo da apparire come se fossero nere, sfoggiando pettinature, incarnati e accessori che in qualche modo dovrebbero ricordare una discendenza afro.
A vederla così sembrerebbe una polemica inutile. Ha senso parlare di “appropriazione culturale” al giorno d’oggi, quando il lunedì andiamo a mangiare sushi, il martedì facciamo yoga, e d’estate indossiamo i turbanti? Si chiama globalizzazione. E allora perché in molti sembrano ancora disturbati da questo atteggiamento? Perché parlare di appropriazione come alludendo a un furto, a una violazione?
Innanzitutto è importante avere chiari i soggetti e le circostanze in questione: da una parte le americane nere, dall’altra le instagrammers bianche – colpevoli di aver postato delle foto ritenute culturalmente offensive. In pratica, le prime hanno accusato le seconde di esibire features notoriamente appartenenti alla cultura e alla natura del mondo afro senza averne il diritto.
Ma sarebbe ingenuo credere che sia solo una questione legata all’estetica. Il fulcro del dissing ruota intorno allo stato di discriminazione e svalutazione razziale ancora presenti negli States, che si esprime sotto varie forme, tra le quali il look. Gli scatti imputati sono stati letti come una sorta di spettacolarizzazione glamour di un’identità sminuita a livello sociale. In questo senso le afroamericane si sono sentite derubate della loro cultura. Nel momento in cui viene esibita da loro infatti verrebbe incorniciata come inferiore e rozza, mentre quando è la moda a sfruttarla, diventa improvvisamente una tendenza.
Un esempio sono le trecce Cornrows, considerate volgari sulle nere e trendy sulle bianche, secondo un doppio standard di giudizio da leggere come convalida del white privilege. In relazione a questa visione negativa delle black features, per alcune americane nere si è rafforzata l’idea che la strada per il successo passi dall’adozione di stili più caucasici, a partire dai capelli afro, necessariamente da stirare. Personaggi come Oprah, Michelle Obama, Beyoncè, Kelly Rowland, Kerry Washington e Rihanna si sono mosse in questa direzione dettando un’egemonia stilistica: il look natural dei capelli è stato così annullato dal mondo dello star system. Dall’altro lato, la cantante Rita Ora ha postato diverse foto in cui porta le Cornrows, così come Katy Perry e Kylie Jenner, tutte colpevoli – secondo una fetta considerevole di utenti di Instagram – di appropriazione culturale.
Un altro aspetto interessante della disputa sull’appropriazione della cultura black è come alcune bianche abbiano rinominato elementi della cultura afroamericana, ribattezzando per esempio le Cornrows in Boxer Braids o Strand Crossing, e le Bantu Knots in Mini Buns, proprio come fece lo stilista Marc Jacobs durante le sfilate primavera/estate 2017 parlando delle acconciature delle sue modelle. Facendo così Jacobs avrebbe oltraggiato un’intera comunità che da sempre si è tramandata tale pettinatura e il cui nome allude proprio alla gente proveniente dall’Africa subsahariana.
Tra i casi di appropriazione più discussi però, risalta quello di Jaiden Gumbayan, beauty vlogger americana criticata per aver postato foto in cui i suoi capelli, diversamente dal suo look abituale, apparivano scuri e molto ricci, mentre il suo incarnato pareva essere stato alterato appositamente per sembrare nera. La foto è stata sommersa da commenti come: “Tutti vogliono essere neri, ma in realtà nessuno vuole essere nero! La nostra pelle non è una moda e i nostri capelli nemmeno”, e ancora “Fortunata te che puoi scegliere quando essere nera senza dover mai avere a che fare con tutte le ingiustizie che invece le nere devono affrontare”.
La critica, insomma, è sempre all’utilizzo di tratti distintivi del mondo black come puro costume da indossare e smettere all’occorrenza, con la leggerezza di chi nella vita quotidiana non deve affrontare i problemi a essi connessi.
Potrebbe sembrare esagerata come visione, ma secondo Susan Scafidi, autrice del libro Who Owns Culture? Appropriation and Authenticity in American Law, l’appropriazione culturale risulta più profonda quando la comunità d’origine è un gruppo minoritario che è stato oppresso e sfruttato. In Paesi come gli Stati Uniti la razza, o meglio l’appartenenza etnica, è un serious issue, e il movimento Black Lives Matter, sorto nel 2013, testimonia che ancora oggi persistono reali tensioni e discrediti verso i neri, che in quanto tali non godono degli stessi trattamenti riservati ai bianchi.
Un tale clima di risentimento ha ulteriormente rafforzato la difesa di pratiche considerate come adottate e contemporaneamente sbeffeggiate da persone esterne alla comunità. Infatti, l’altra critica associata alle instragrammers, è stata quella di incarnare una moderna Blackface, ovvero una caricatura dell’essere neri. Il termine viene dal teatro ottocentesco, in cui gli attori si dipingevano la faccia di nero, scimmiottando modi di parlare e movenze stereotipate al fine di provocare l’ilarità del pubblico bianco. Dalla seconda metà del’900 però, grazie all’apporto in ambito sportivo e musicale dei neri, quel tratto grottesco è scomparso, sostituito dal fascino verso gli artisti del Funky, dell’Hip-Hop e dell’R’n’B che hanno avuto un seguito importante tra le fasce giovani di varie etnie.
Tuttavia, nonostante l’ammirazione verso il mondo artistico black, il problema etnico non si estingue e la scissione tra il potere dominante bianco e la minoranza nera rimane perlopiù invariata.
Tenendo conto di queste dinamiche sociali quindi, è “sbagliato” adottare stili tipici di altre culture?
Potremmo porci questa domanda prendendo in considerazione la realtà italiana. Bisogna considerare in primo luogo che la polemica su Instagram riguardo all’appropriazione culturale del mondo black è molto legata alle violenze degli ultimi anni per mano delle forze dell’ordine americane nei confronti di giovani neri. La considerazione negativa dell’adozione di stili afro-discendenti ha dunque in USA un ruolo fortemente rivendicativo. Diversamente, in Italia, a fronte delle diverse dinamiche immigratorie e della sostanziale assenza di deliberata violenza istituzionale nei confronti delle minoranze, certi dissensi non hanno avuto il bisogno di manifestarsi. Perciò, l’adozione da parte dei bianchi di caratteristiche di impronta afro, qui è generalmente considerata priva di connotazioni negative.
Probabilmente, quindi, la polemica verso le instagrammers bianche è più ampiamente una critica esasperata alla società impari americana più che un accanimento personale verso le ragazze stesse. Di conseguenza, una delle strade percorribili per evitare l’offesa culturale potrebbe essere quella della cultural appreciation, ovvero il rispetto e l’osservanza dei significati attribuiti agli usi e ai costumi della cultura originale. In ultima analisi, potremmo chiederci se questo modo ”confinante” di intendere la propria e le altre culture sia ragionevole o ghettizzante, necessario o disaggregante. Come in ogni questione, quasi certamente una buona dose di buon senso da entrambi le parti potrebbe essere l’unico vero metro di giudizio rispetto a ciò che è lecito e ciò che può apparire sgradevole rispetto al clima sociale in cui si vive.