Il dibattito pubblico sulla questione animale spesso tocca la professione veterinaria. Può un veterinario essere a favore della sperimentazione animale? Può un veterinario andare allo zoo o al circo e, più in generale, essere favorevole all’intrattenimento con gli animali? Può un veterinario mangiare carne e altri prodotti di origine animale come latte e uova? Può un veterinario indossare pellicce e scarpe di cuoio?
Personalmente, in quanto medico veterinario, ho ricevuto e continuo a ricevere opinioni non richieste da parte di alcuni animalisti rispetto a come mi debba comportare riguardo alla questione animale. Nel tempo ho avuto modo di capire che queste critiche nascono principalmente dal fraintendimento del ruolo che ha il medico veterinario all’interno della società.
Come si legge nell’articolo 1 del codice deontologico: “Il Medico Veterinario svolge la propria attività professionale al servizio della collettività e a tutela della salute degli animali e dell’uomo. In particolare, dedica la sua opera: alla protezione dell’uomo dai pericoli e danni a lui derivanti dall’ambiente in cui vivono gli animali, dalle malattie degli animali e dal consumo delle derrate o altri prodotti di origine animale; alla prevenzione, alla diagnosi e alla cura delle malattie degli animali e alla tutela del loro benessere; alla conservazione e allo sviluppo funzionale del patrimonio zootecnico; alla conservazione e alla salvaguardia dell’ambiente e del patrimonio faunistico ispirate ai principi di tutela delle biodiversità e della coesistenza compatibile con l’uomo; alle attività legate alla vita degli animali d’affezione, da competizione sportiva ed esotici; alla promozione del rispetto degli animali e del loro benessere in quanto esseri senzienti; alla promozione di campagne di prevenzione igienico-sanitaria ed educazione per un corretto rapporto uomo-animale; alle attività collegate alle produzioni alimentari, alla loro corretta gestione e alla valutazione dei rischi connessi alla gestione della sicurezza alimentare.”
Il veterinario non è quindi semplicemente “il dottore degli animali” ma, in un certo senso, un mediatore tra questi ultimi e l’uomo.
Esistono numerose branche della disciplina a seconda della relazione che l’uomo instaura con le altre specie. C’è la veterinaria per i grossi animali, detti “animali da reddito”, suddivisa a sua volta in diversi rami, come la Buiatria, specializzata in bovini, l’Ippiatria, in equini, e così via per tutti i vari animali da reddito come suini, ovini, caprini, avicoli e conigli; la veterinaria per i piccoli animali, “animali da affezione” o “da compagnia”, come cani e gatti; e la veterinaria che si occupa dell’ispezione degli alimenti di origine animale e degli allevamenti. All’interno della professione troviamo anche veterinari specializzati in esotici, come i veterinari iscritti all’albo ENC che si occupano degli animali degli “spettacoli viaggianti”, zoo e circhi; i veterinari che lavorano nella sperimentazione animale, che si occupano degli animali utilizzati a fini sperimentali per l’attuazione del concetto 3R (rimpiazzare, ridurre e rifinire); esistono inoltre veterinari che si occupano di fauna selvatica e partecipano ai piani di controllo delle specie in sovrannumero e delle specie non autoctone per la tutela della biodiversità.
Tutte queste sfaccettature della nostra professione hanno pari dignità e concorrono, in ciascun ambito, a garantire il benessere degli animali, ma anche la tutela della salute umana e gli equilibri ambientali, a prescindere dall’adesione individuale all’ideologia animalista.
L’animalismo di ultima generazione, basato in particolare sulla teoria della Liberazione Animale, elaborata dal filosofo Peter Singer nel 1975, è una corrente filosofica centrata sul fatto che gli animali dovrebbero avere gli stessi diritti degli umani, il che si traduce come l’impossibilità da parte dell’uomo di instaurare relazioni interspecifiche basate sull’alimentazione, la ricerca, la didattica e l’intrattenimento. L’animale dovrebbe essere, in ultima istanza, libero da qualsiasi forma di interferenza umana, il che significherebbe abbandonare anche i piani di controllo della fauna selvatica e la conservazione delle specie in via di estinzione e, all’estremo, si tradurrebbe anche nell’abbandono più in generale di tutti i piani di controllo.
Un esempio eclatante è il caso dello scoiattolo grigio, un animale originario dell’America del Nord: dove c’è lo scoiattolo grigio non c’è più lo scoiattolo rosso e altri scoiattoli autoctoni. Lo scoiattolo grigio è in competizione con tutti gli altri scoiattoli dal punto di vista alimentare, perché ruba dalle loro riserve di semi, e infetta inoltre le altre specie di scoiattolo con il Parapoxvirus, per loro mortale. In tutto il continente europeo, questo scoiattolo si trovava solo in una determinata area del Piemonte e l’eradicazione pareva possibile. Le associazioni animaliste italiane hanno però trascinato a processo i responsabili del piano di eradicazione, tra i quali alcuni veterinari, il progetto si è bloccato ed è fallito. Nel frattempo lo scoiattolo grigio si è diffuso, raggiungendo addirittura la Svizzera. Dove c’è lo scoiattolo grigio non c’è più lo scoiattolo rosso. Gli scienziati prevedono una successiva diffusione nel continente europeo e in Asia, a scapito delle popolazioni di scoiattoli autoctone.
Un altro punto di frizione tra animalisti e conservazione ambientale sono gli zoo, luoghi dove vengono esposti al pubblico animali esotici. Gli animalisti li considerano luoghi di prigionia perché andrebbero contro “il diritto alla libertà individuale” dell’animale e perché sono contrari all’intrattenimento con gli animali, considerandolo degradante. L’aspetto ricreativo, specialmente per le famiglie, svolge invece un importante ruolo nell’educazione naturalistica e ambientale e avvicinano le persone all’interesse per la tutela della biodiversità. Dal punto di vista conservazionistico, poi, gli zoo sono ottimi luoghi di ricerca, didattica e conservazione delle specie in via di estinzione. Per esempio, la conservazione ex-situ operata dagli zoo con l’ausilio dell’inseminazione artificiale, grazie a veterinari e programmi di reintroduzione, nonché l’instaurazione di riserve, sono stati fondamentali per il panda, che non è più in via di estinzione. Esistono anche specie che si erano estinte in natura e che grazie agli zoo sono state reintrodotte nel loro ambiente naturale come l’orice d’Arabia, il cavallo Przewalski, la rana Pseudophryne e molte altre.
Animalismo e conservazionismo sono due concetti diversi: mentre l’animalismo pone l’attenzione all’animale come soggetto dotato di diritti, anche a scapito dell’intera specie minacciata, il conservazionismo la pone alla specie e agli ecosistemi, a scapito dei singoli soggetti appartenenti a una specie invasiva che minaccia l’ecosistema.
La professione veterinaria non punta al “diritto alla libertà” dell’animale, quanto, come già detto, al benessere animale, ovvero a come si sente l’animale dal punto di vista fisico e psicologico nell’ambiente in cui si trova. Il “benessere animale” è un concetto scientifico e si basa sull’esigenza etica per cui l’uomo deve ritenersi responsabile degli animali che si trovano sotto la sua tutela. Secondo il codice deontologico dei medici veterinari, quindi, è accettabile l’impiego degli animali per la produzione di cibo, per la ricerca, per la didattica, per la conservazione delle specie in via di estinzione e per l’intrattenimento, a patto che il benessere animale sia garantito.
Un argomento ricorrente di alcune frange animaliste è la condanna del diritto di proprietà applicato agli animali e della loro detenzione in cattività (salvo poi detenere gli animali nei santuari e nei canili). Viene invocata la loro libertà anche quando le condizioni in cui vivono garantiscono il loro benessere e la massima soddisfazione dei loro bisogni. Si tratta di quella libertà con la elle maiuscola che neppure noi esseri umani conosciamo tanto bene, e che forse non esiste più.
A proposito di libertà, le “Cinque libertà degli animali” sono nate proprio in seno alla zootecnia, e sono state elencate per la prima volta nel Brambell Report nel 1965. Possono essere però applicate a qualsiasi stato di confinamento animale da parte dell’uomo (valgono anche per cani e gatti da compagnia):
1) libertà dalla fame e dalla sete;
2) libertà di avere un ambiente fisico adeguato;
3) libertà dal dolore, dalle ferite e dalle malattie;
4) libertà di manifestare le caratteristiche comportamentali specie-specifiche normali;
5) libertà dalla paura e dal disagio.
Queste libertà sono state recentemente modificate. Sono state, ad esempio, introdotte le “Cinque disposizioni”, che tengono conto anche degli stati mentali degli animali e la possibilità di promuovere emozioni positive piacevoli oltre che della possibilità di convivere con patologie croniche opportunamente trattate sul piano terapeutico (ad esempio animali diabetici, con problemi alla tiroide o soggetti allergici).
Per tutte le cinque libertà, la scienza del benessere animale studia i bisogni degli animali per cercare di venire loro incontro migliorando il rapporto uomo-animale. Di quanto spazio ha bisogno l’animale? Come stimolare mentalmente l’animale? Tramite arricchimenti ambientali e attività. La natura di essi dipende dal tipo di animale, su cui è necessario compiere studi etologici. Questa è la differenza tra animalismo e il welfarismo, ovvero il movimento a favore del benessere animale. L’animalismo parla di diritti, mentre il welfarismo cerca di capire di cosa ha bisogno l’animale nella convivenza con l’uomo.
L’animalismo di ultima generazione parla di “liberazione”, intesa anche come “libertà di movimento”. L’animale non deve essere confinato in ambiente domestico come principio categorico e insindacabile (in particolare quando si tratta di animali che non siano da compagnia) e deve essere libero dalle interferenze umane, a prescindere. Il welfarismo, invece, si occupa di migliorare le condizioni in cattività e cerca di rispondere a tutti i cinque punti. La differenza in questo approccio si vede anche con il fenomeno della liberazione animale: animali nati e vissuti in cattività vengono prelevati da alcune frange estreme di attivisti animalisti e liberati in natura, spesso muoiono di fame e sete, predati oppure investiti. In questo senso si può dire che animalismo e benessere animale sono agli antipodi.
Una cosa esclude l’altra. L’animalismo dice che l’animale non ha scelto di stare in gabbia o con l’uomo. Ma a ben vedere l’animale non ha nemmeno scelto di vivere in natura. E non ha neanche scelto di vivere, di non trovare cibo e acqua o di morire di malattie. Così come noi esseri umani, d’altronde. Quando parliamo del principio di uguaglianza e del diritto alla vita animale? Non dimentichiamoci che molti parassiti sono animali. Quando prescrivo un antiparassitario sto compiendo un genocidio? Sto compiendo un gesto specista, discriminando delle specie animali per favorirne altre? I giainisti, che promuovono la non violenza verso tutti gli esser viventi direbbero di sì, alcuni animalisti anche. È giusto però porsi questo interrogativo.
Tornando alla professione veterinaria, secondo l’animalismo forse l’unica “accettabile” sarebbe quella del veterinario degli animali d’affezione, ma non sempre. Esistono filosofi, come Francione, che sostengono che anche gli animali da compagnia subiscano una forma di schiavitù. Chiaramente la strada per migliorare le condizioni degli animali in cattività, la conservazione dell’ambiente e la salute umana è lunga. I veterinari, però, in questo processo giocano un ruolo fondamentale. È importante interrogarsi sempre su questioni del genere senza lasciarsi trasportare da quelle che finiscono per diventare vere e proprie ideologie che, se attuate senza spirito critico e buon senso, rischiano di avere ricadute anche gravi sull’ecosistema.