“Chi va con le prostitute è un criminale. Questo non è fare l’amore, questo è torturare una donna: non confondiamo i due termini,” ha detto Bergoglio qualche giorno fa, in Vaticano, ai giovani del pre-Sinodo. Il riferimento specifico era alle immigrate ridotte in schiavitù dagli sfruttatori, ma ovviamente l’occasione si è prestata a fare di tutta l’erba un fascio, criminalizzando i clienti delle sex worker sulla base del preconcetto per cui il sesso comprato è di per sé sbagliato. La crociata sessuofobica vede nel lavoro sessuale solo sfruttamento e umiliazione, ma non è sempre così: questo è quello che succede alle ragazze che arrivano in Italia e qua vengono costrette a vendersi per strada, ma prostituta e schiava non sono sinonimi.
Le persone hanno il diritto di vivere la propria sessualità come vogliono. Dire che il sesso debba essere per forza intimità, gratuità, delicatezza privata slegata dai rapporti economici o utilitaristici, significa sostituirsi alla volontà altrui per tranquillizzare la propria. Per i bigotti le prostitute sono peccatrici, per gli aspiranti benefattori sempre e solo vittime: in questo aut aut l’autonomia della persona scompare. In Italia il dibattito sulla prostituzione praticamente non esiste; ne parla appunto ormai al massimo il Papa con una narrazione retrograda, che lascia immutati i termini del discorso e anzi li aggrava, perché confonde prostituzione forzata e volontaria, piano morale e piano legale. Un confusione non casuale, che è sempre stata funzionale ad allontanare qualsiasi processo di regolamentazione e quindi di assimilazione.
Nel nostro Paese la prostituzione non è proibita. Nel 1958 è entrata in vigore la legge Merlin che ha portato alla chiusura delle case di tolleranza e quel provvedimento, all’epoca giustificato da una situazione di degrado e soprusi, ha lasciato però un vuoto giuridico. Da noi vige il cosiddetto modello abolizionista, come in gran parte dei Paesi occidentali: la prostituzione non è vietata ma sono puniti tutti quei comportamenti a essa collegati come il favoreggiamento, l’induzione, il reclutamento e lo sfruttamento. La non regolamentazione, si è visto, ha creato l’effetto contrario a quello sperato. L’illegalità aumenta gli abusi sessuali, i quali spesso non vengono neanche denunciati, dato che le prostitute, per non esporsi, preferiscono non rivolgersi alle forze dell’ordine. Inoltre, il reato di favoreggiamento (di cui può essere accusato chi affitta un appartamento o ospita in casa un/una sex worker) incentiva l’esercizio in strada, e, quindi il degrado urbano. La legalizzazione permetterebbe alle prostitute di iscriversi agli enti previdenziali, pagare tasse e contributi, sottoporsi ai controlli sanitari periodici e in generale renderebbe più controllata la loro attività. Chi si occupa di questi temi ci dice che quando la prostituzione viene depenalizzata e vengono create zone apposite per il suo esercizio, i crimini sessuali diminuiscono anche del 30-40%. Il lavoro sessuale è sempre esistito ed esisterà sempre: fare finta di niente e coltivare i nostri piccoli pregiudizi è solo ingenuo e irresponsabile.
Sicuramente la Chiesa ha i suoi meriti nella lotta alla tratta delle immigrate ridotte in schiavitù dai protettori – molte sono le comunità che offrono protezione e supporto alle ragazze costrette a vendersi – ma è meglio che taccia sulla questione della regolamentazione del lavoro sessuale, dato che essa stessa è la principale responsabile di una mentalità difficile da estirpare e che è proprio alla base dello sfruttamento. Esiste infatti un ordine simbolico e semantico maschile abituato a fagocitare il femminile, spesso senza che nemmeno se ne accorga più nessuno. Nella condanna della prostituzione da parte della Chiesa c’è anche molta ipocrisia: esistono diversi modi di sfruttare e sottomettere le donne, e molti di questi vengono praticati da secoli dalla Chiesa di Roma. Emblematica è soprattutto la condizione delle religiose: le suore cattoliche da sempre vengono escluse da qualsiasi posizione di potere, costrette a svolgere di fatto il ruolo di colf, infermiere, badanti. Tagliate fuori dalla teologia, dai sacramenti e dai processi decisionali della gerarchia ecclesiastica, sono pressoché invisibili nella vita pubblica e politica, buone solo a spazzare, rifare i letti, curare i malati.
Esiste tutta una retorica pietistica secondo la quale tutte le prostitute sono delle disgraziate infelici in attesa di essere salvate. Un esempio di questa visione ha girato di recente sui social: mi riferisco al video di Fanpage pubblicato in occasione dell’8 marzo, in cui alcune prostitute venivano abbordate da un finto cliente per poi, a sorpresa, essere omaggiate con fiori e dediche romantiche alla chitarra. Un video che aveva qualcosa di disturbante e grottesco nel suo servirsi delle reazioni emotive di ragazze, la cui identità veniva fagocitata per sostenere un messaggio preciso: la prostituta è una che non sceglie di essere tale e che, di fronte a un fiore e una parola gentile, non può che scoppiare in lacrime.
Sistematicamente, il corpo e l’identità femminili fungono da tela bianca su cui ognuno segna le sue appartenenze. La vita di chi esercita liberamente il lavoro sessuale ci interessa o vogliamo solo farne un terreno di scontro ideologico? Le operatrici sessuali vengono sistematicamente costrette alla solitudine e quindi inevitabilmente esposte al pericolo di una vita ai margini. Basti pensare che se più donne lavorano insieme, magari organizzandosi per sostenersi a vicenda, può scattare l’accusa di favoreggiamento.
È poi sempre un’immagine stereotipata quella della meretrice con cui si intrattiene il luogo comune, un’astrazione utile per generare slogan e alimentare ignoranza e stigma. La prostituzione in realtà è un mondo. Si parla sempre delle donne ma è praticata anche da uomini, persone transessuali e transgender; si vende in strada ma anche attraverso cene e notti in hotel, da escort e gigolò che pubblicizzano il loro lavoro online; nei locali notturni e nell’ambito del turismo sessuale; in forma voyeuristica o dagli assistenti sessuali che lavorano con i disabili. Atti diversi – dal semplice piacere per il guardare o l’essere guardati, alla masturbazione, ai massaggi più o meno spinti, fino al multiforme mondo della sottomissione tra schiavo e padrone – che vengono tutti ammassati e fatti collassare nel pregiudizio, che uniforma per respingere in blocco.
L’ostracismo sociale non è privo di conseguenze. Per il marchio d’infamia alimentato dalla stessa Chiesa cattolica, il sesso occasionale retribuito è un atto impuro: la visione della realtà filtrata dalla categorie del catechismo per lungo tempo ha inibito la visibilità politica di chi fa del sesso una professione. Tolleriamo Le Maria Maddalena solo se si pentono, altrimenti le rifiutiamo. Di sex work si parla poco e male, per non essere turbati, e così facendo lasciamo che avvenga di tutto, perché è chiaro che dove c’è segreto, illegalità e stigma non possono esistere tutele.
E in tutto ciò, di responsabilità ne ha anche il femminismo più conservatore, che spesso ha imposto un unico modello di emancipazione, a suon di dietrologie e moralismo. Per le femministe abolizioniste le donne che scelgono di prostituirsi non esistono o, se esistono, sbagliano e devono essere aiutate a lasciare il mestiere, come se fossero incapaci di intendere e volere. In realtà sono proprio le femministe di questo tipo le prime a ridurre il corpo delle prostitute a oggetto sessuale: il rapporto tra sex worker e cliente è una relazione intima, i cui termini spesso non sono affatto riducibili all’amplesso.
Esiste però per fortuna anche un femminismo non abolizionista che chiede, a ragione, meno giudizi e più servizi: ha molto più senso concentrarsi su come scoraggiare lo sfruttamento e come punire i reati legati alla prostituzione, lasciando agli adulti liberi e consenzienti che desiderano darsi piacere a pagamento, la libertà di farlo, possibilmente in modo sicuro, protetto e civile. Spetta al singolo individuo decidere se la sua sessualità debba essere romantica, estemporanea, assente, retribuita su un set porno, da clienti o dalla vita coniugale; allo Stato spetta il compito di assicurare uno sfondo di leggi degno del 2018.
Esiste la prostituzione come scelta e c’è persino chi la pratica con gioia, mettendoci la faccia e parlandone apertamente: si può essere felici perché si è molto richiesti dai clienti, per la passione autentica per ciò che a noi può sembrare eccessivo o imbarazzante, per i tanti soldi che si guadagnano o per il beneficio di non avere orari rigidi e di non dover andare tutti i giorni in ufficio, conformandosi a un sistema rispetto al quale ci si sente estranei. Sicuramente possono esserci questioni e problemi di cui i/le sex worker in alcuni casi non hanno consapevolezza – per età, ingenuità, carenze culturali; anche per questo è importante che la prostituzione venga accettata socialmente e quindi regolata, eventualmente prevedendo anche una verifica della piena consapevolezza e della libera determinazione di chi esercita, senza che si sfoci nelle torture psicologiche che ancora oggi vengono inflitte, per esempio, alle donne che intendono abortire.
Il sex work indipendente ha molto da insegnarci sulla natura umana, come raccontano le storie di Valérie May e Morgane Merteuil, due note prostitute. Ciò che alimenta lo sfruttamento, dicono queste donne che liberamente hanno fatto del sesso una professione, è proprio il fatto di ritenere la prostituzione qualcosa di vergognoso e sbagliato. “L’uso della vagina per scopi economici non viene accettato,” perché la donna non appartiene a se stessa. È ritenuta sempre una specie di bene pubblico, una proprietà collettiva da proteggere, organizzare, gestire. Nelle regole non scritte della visione patriarcale, le donne si portano dietro un costante debito con l’ideale astratto di cosa siano o debbano essere.
Oggi però, internet ci mostra che alla gente, uomini e donne, piace farsi pagare per fare sesso. È veloce, è alla portata, se non di tutti, di molti, può essere divertente, poco faticoso. E può essere utile anche a chi non avrebbe modo, altrimenti, di fare sesso. Non ci piace? Peggio per noi. Il mondo va avanti lo stesso, e con esso anche le vite degli altri. Il rispetto che ognuno deve al prossimo passa di certo anche dal non negare agli altri la libertà di fare qualcosa semplicemente perché noi non la faremmo. Il puro fastidio verso ciò che non ci piace non dovrebbe avere efficacia in democrazia: abbiamo bisogno di portare avanti battaglie che conquistino quello spazio che il centro e i suoi abitanti vorrebbero negare alle vite più periferiche, ovvero di battaglie che creino più spazio per l’individualità e i tanti modi di intendere il piacere, compreso quello di poterne fare il proprio lavoro.