Se tra la probabile morte in acqua e la consegna ai militari libici preferisci la prima opzione, significa che nei centri di detenzione di Sabratah, principale porto libico di partenza dei migranti, hai conosciuto l’inferno e non ci vuoi tornare.
Nel pomeriggio del 15 marzo è questo lo scenario a 73 miglia dalla costa africana: da una parte, la nave della Ong spagnola Proactiva Open Arms, con a bordo un centinaio di migranti appena salvati; dall’altra, un gommone con altre persone in attesa di salvataggio, accerchiato da due motovedette libiche che girano intorno per impedirlo. Nel tentativo di sottrarsi ai libici, tra chi è in attesa, qualcuno si lancia in acqua. “Dateci i migranti o vi uccidiamo” urlano, fucili in mano, i militari libici ai cooperanti impegnati nel trasbordo delle ultime persone sulla nave.
Due ore di paura, come racconta la giornalista catalana Cristina Más, poi un inseguimento, poi 30 ore in mezzo al mare in attesa di ordini dalla Guardia Costiera di Roma, e infine l’autorizzazione a sbarcare a Pozzallo, dove l’equipaggio arriva con 218 migranti. Nel porto, però, i soccorritori trovano una sorpresa: la Procura di Catania ha disposto il sequestro della nave e indagato il capo missione, il comandante della nave e il coordinatore della Ong. L’accusa è di “associazione per delinquere, finalizzata al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina”. Per chi ogni giorno è impegnato a salvare vite umane, l’accusa più infamante che ci sia. Secondo il comunicato della Guardia costiera italiana, la nave spagnola avrebbe dovuto obbedire alla Guardia libica e consegnare i migranti.
La Procura sostiene che ci sarebbe stata una volontà di portare i migranti in Italia, violando il Memorandum d’Intesa Italia-Libia siglato un anno fa che prevede la consegna ai libici – un accordo che ha sollevato di verse critiche per via della situazione in cui versano i centri di detenzione per migranti in Libia. La Ong, invece, assicura di avere seguito il protocollo: la motovedetta libica sarebbe arrivata quando le operazioni di soccorso, autorizzate dalla Guardia Costiera di Roma, erano già iniziate. “Hanno inventato il reato di solidarietà,” ha scritto ironicamente su Twitter Oscar Camps, fondatore e coordinatore di Proactiva Open Arms. Al di là di come siano andate davvero le cose, la verità è che, per una Ong che operi con coerenza, mettere i diritti umani davanti a tutto è un dovere morale, oltre che un obbligo giuridico che trae fondamento nel principio di solidarietà, proprio sia della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (Cedu) che della Costituzione italiana, e non consegnare i migranti ai libici è l’unico modo per assicurarne la difesa.
Come è noto, i centri di smistamento sulla costa libica sono dei veri centri di detenzione, sia quelli gestiti dal governo, sia quelli gestiti dalle milizie, dove i migranti subiscono torture, stupri e violenze di ogni tipo. È un quadro chiaro da tempo, non solo per le testimonianze delle vittime e per i reportage dei giornalisti che lo hanno documentato, ma anche per istituzioni come l’Unicef, che lo ha confermato con un report. Inoltre, la Corte penale internazionale dell’Aja sta indagando su circostanze in cui la Guardia costiera libica avrebbe violato le norme del Diritto internazionale: nello specifico, si tratta di un episodio in cui gli ufficiali di Tripoli hanno sparato ad altezza uomo e sfiorato lo speronamento di una nave di una Ong olandese. Colpi definiti “di mero avvertimento” da parte dei libici ma che, secondo le testimonianze dei volontari, sarebbero stati esplosi a mezz’aria e a distanza ravvicinata. Infine, nessun migrante potrebbe ottenere protezione in Libia, essendo un Paese in guerra civile, con un’amministrazione frammentata e senza norme di diritto interno che lo prevedano.
Queste sono le ragioni umanitarie che spiegano la mancata ottemperanza dell’equipaggio di Proactiva Open Arms alle intimazioni della Guardia Costiera libica. Dalla loro parte, poi, ci sono anche leggi e trattati internazionali, in particolare, la Convenzione internazionale sulla ricerca e il soccorso in mare (Sar, Search and rescue) del 1979, e la Convenzione di Montego Bay del 1982 prescrivono che, dopo un salvataggio, i naufraghi debbano essere portati in un “luogo sicuro”, e cioè dove la loro vita non sia più in pericolo possano ricevere cure mediche, cibo e alloggio. Questa definizione normativa però causa qualche controversia, perché – come evidenziato da questa vicenda e dal caso Cap Anamur – non è chiaro se la messa in sicurezza dei migranti implichi il semplice salvataggio dal naufragio, o anche le successive cure una volta sbarcati sulla terra ferma.
La Libia non ha porti sicuri, nonostante il Memorandum d’intesa Italia-Libia non ne tenga conto, in contraddizione con il Diritto internazionale marittimo e il Diritto internazionale in materia di asilo. Anziché orientare i riflettori e la lente di ingrandimento sui volontari impegnati a salvare vite umane, sarebbe evidentemente corretto, utile e opportuno, investigare se si siano verificate, da parte della Guardia costiera libica, violazioni delle convenzioni internazionali che regolano il Diritto del mare: la Convenzione Solas (Safety of Life at Sea), la Convenzione internazionale sulla ricerca e il salvataggio marittimo, adottata ad Amburgo nel 1979, e la Convenzione del diritto del mare del 1982 (Cnudm).
Oltre alle numerose critiche in patria e fuori – “una collaborazione disumana”, l’aveva definita l’Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani Zeid Raad al Hussein – il Memorandum d’intesa è stato sospeso dopo che la Corte di Tripoli ha accolto il ricorso un gruppo di cittadini, guidato da un avvocata e dall’ex-ministro della Giustizia. I ricorrenti sostengono che la Libia non possa essere ufficialmente trasformata in un centro di detenzione per migranti, e che il capo del Consiglio presidenziale Al-Sirraj non abbia l’autorità per decidere su un atto del genere in quanto non ufficialmente riconosciuto.
Il titolare dell’indagine contro Proactiva Open Arms è ancora una volta il procuratore di Catania Carmelo Zuccaro, lo stesso che, nell’estate 2017, si era fatto notare per le gravi parole sulle Ong, sostenendo che alcune di esse sarebbero finanziate dai trafficanti e opererebbero con l’obiettivo di lucrare sul traffico di esseri umani. Tuttavia, per sua stessa ammissione, non sono state raccolte prove e, sinora, nessuna delle inchieste annunciate dal procuratore ha mai avuto alcun seguito giudiziario.
Anche il rapporto dell’indagine conoscitiva sull’attività delle Ong nel Mediterraneo, affidata alla Commissione Difesa del Senato, ha confermato l’assenza di legami certi tra Ong e trafficanti, chiarendo i dubbi su presunti finanziamenti oscuri. Oggi anche la Procura di Trapani si avvia a chiudere, con un nulla di fatto, l’indagine sui presunti rapporti tra l’equipaggio della nave Iuventa della Ong tedesca Jugend Rettet, e i trafficanti libici che, nell’agosto 2017, ha portato al sequestro dell’imbarcazione. Non si può negare che quelle vicende, unite al caso odierno dell’indagine a carico di Proactiva Open Arms, abbiano favorito un clima, se non velenoso, sicuramente di sospetto nei confronti della solidarietà in mare, astutamente colto da quei leader di partito che hanno una posizione ostile verso l’accoglienza, come Matteo Salvini e Luigi Di Maio, che coniò l’espressione “taxi del mare”.
“L’impressione è che si stia alzando il tiro, forse nella speranza di un rinnovato clima incriminatorio verso le Ong,” sostiene Salvatore Fachile, avvocato dell’Asgi (Associazione di studi giuridici sull’immigrazione). “Il problema è che si muovono le accuse, ma poi i processi non si fanno. Nessun Pm metterebbe mano a un processo di questo tipo perché sa che sarebbe una sconfitta pubblica. Quindi cosa si fa? Si avvia un’indagine penale, la risonanza pubblica ha un forte effetto incriminatorio, ma poi non si affronta la questione giuridica e giurisdizionale davanti a un tribunale, perché ovviamente se ne esce sconfitti, dal momento che l’accusa è infondata”.
Considerato che sinora non si sono celebrati giudizi e non si ha contezza di effettive prove a loro carico, la sensazione che si ha è che le Ong siano diventate il capro espiatorio dell’Italia e dell’Unione Europea, il bersaglio su cui dirottare l’attenzione dell’opinione pubblica, per non assumersi le proprie responsabilità in materia di gestione dei flussi migratori. In questo senso, l’immagine dei soccorritori di Proactiva Open Arms che resistono davanti ai fucili della Guardia costiera libica smaschera ancora una volta le scelte sbagliate del governo italiano e dell’Unione europea, e impone un rapido cambio di rotta, un nuovo piano condiviso per affrontare il flusso migratorio nel Mediterraneo che includa la reale tutela dei diritti umani di chi di scappa da fame e guerre.
In questo momento, l’unico risultato ottenuto dalle varie iniziative dell’autorità giudiziaria (sequestri e perquisizioni) e governative (tra cui il codice di condotta, peraltro firmato anche da Proactiva Open Arms) è stato il ritiro delle navi umanitarie dal mare. Dall’agosto 2017, dopo la Iuventa della tedesca Jugend Rettet, hanno lasciato il Mediterraneo anche Save the Children, Moas, Sea Eye e Sea Watch. Sea watch e Proactiva Open Arms annunciano di tornare presto con altre navi, ma se nell’estate 2017 le navi in supporto ai migranti erano 12, oggi, a incrociare nel canale di Sicilia, c’è solo l’Aquarius di Sos Mediterranee-Msf.
Nel 2017, secondo i dati della fondazione Ismu, sono arrivati in Italia 171.000 migranti, di cui 120.000 via mare attraverso la rotta del canale di Sicilia. Si stima che 3.116 migranti siano morti o dispersi in mare, di cui almeno 600 bambini. Con l’avvicinarsi della stagione estiva è molto probabile che aumenti il numero di viaggi, con i migranti sempre più in pericolo vista la scarsità di mezzi di salvataggio a disposizione. Dopo la chiusura di Mare nostrum, il fallimento di Triton e i dubbi su Themis – appena cominciata – il vero tema è che Italia e Unione europea hanno lasciato le Ong a occuparsi del problema da sole, salvo poi “ostacolare” il loro operato, senza peraltro occuparsi in modo sistematico ed efficace della questione migratoria. L’unico vero intervento che hanno previsto, regolamentato dal Memorandum d’Intesa, è la fornitura di mezzi e l’addestramento della Guardia Costiera libica: un investimento 285 milioni di euro nei prossimi sei anni. Se il risultato è il contenimento del numero di migranti che sbarcano, ma il prezzo da pagare sono le violenze e gli abusi dei centri di detenzione, l’Italia deve chiedersi se ha senso perseverare su una strada che ha tutte le caratteristiche di un fallimento.