Grazie alle continue guerre contro virus e batteri gli europei, nel corso dei secoli, hanno potuto sviluppare difese di tipo immunitario e genetico che si sono rivelate, nel corso della storia, tra le loro più utili alleate. Quest’alleanza è emersa nell’incontro-scontro con altre civiltà, quando diverse malattie infettive esportate dagli europei hanno provocato atroci epidemie, sterminando interi popoli e civiltà in diverse aree del pianeta e permettendo agli europei di diventare dominatori.
Gli abitanti dell’Eurasia sono stati infatti i primi a dover combattere contro grandi epidemie, come nel caso della febbre tifoide ad Atene durante la Guerra del Peloponneso (430 a.C.), del primo avvento della peste bubbonica a Costantinopoli sotto l’Imperatore Giustiniano (542-543) e del vaiolo a Roma durante l’epoca antonina (tra il 165 e il 180 d.C.).
Stando a quanto riportato in Armi, acciaio e malattie da Jared Diamond, antropologo e ornitologo americano, sono tre le cause che hanno fatto sì che le grandi epidemie si diffondessero inizialmente nel vecchio continente euroasiatico: lo sviluppo dell’agricoltura, la nascita delle grandi città e soprattutto l’inizio della convivenza fra uomini e animali. Questi tre fattori hanno fatto sì che il nostro terreno risultasse particolarmente fertile per lo sviluppo di epidemie, mentre in nessuno degli altri continenti si manifestarono in contemporanea queste tre contingenze.
L’agricoltura, in primo luogo, permetteva densità abitative da 10 a 100 volte superiori rispetto allo stile di vita dei cacciatori-raccoglitori. Questi ultimi, inoltre, erano nomadi, e quindi abbandonavano di volta in volta i loro accampamenti e con essi escrementi e rifiuti, potenziali ricettacoli di germi e parassiti. Lo sviluppo delle grandi città, in seguito, non fece che aggravare questi fattori di rischio. Tuttavia, queste due condizioni, pur essendo in qualche modo necessarie per lo sviluppo di un’epidemia, non sono sufficienti, e soprattutto non sono cause dirette. Le grandi malattie, infatti, sono provenute in primo luogo dalla convivenza fra uomini e medio-grandi mammiferi allevati. Molte delle grandi epidemie che hanno decimato gli esseri umani, in antichità e non solo, sono “doni letali dei nostri amici animali”. Diamond, infatti, evidenzia che, stando agli studi di biologia molecolare, di molti agenti patogeni umani sono stati individuati i parenti più prossimi, derivanti da microbi che causano analoghe epidemie nei nostri animali domestici. Malattie come il morbillo, la tubercolosi e il vaiolo derivano da mutazioni di agenti patogeni presenti nei buoi, l’influenza da quelli di maiali e anatre e la malaria da quelli degli uccelli – polli e anatre.
Come anticipato, le migrazioni e le conquiste territoriali del passato non hanno portato i popoli colonizzati a subire solo nuove dominazioni, ma anche nuove malattie alle quali il loro sistema immunitario non era preparato, provocando in molti casi uno sterminio. Il caso più eclatante riguarda lo sbarco, nell’aprile del 1520, di pochi soldati spagnoli nelle coste di quella che oggi chiamiamo Veracruz, in Messico. Le navi europee, trasportando senza saperlo uno schiavo africano infettato dal vaiolo, diedero il via a un vero e proprio sterminio epidemico. Infatti, due mesi dopo l’arrivo delle prime navi spagnole, il vaiolo aveva colpito la capitale dell’impero Azteco, Tenochtitlàn (più grande di Parigi, la più grande metropoli d’Europa), dimezzandone la popolazione. Fra le vittime (si stima tra le 50 e le 300mila), era incluso l’imperatore Cuitlàhuac. In quello stesso periodo il generale spagnolo Hernàn Cortès decise di assaltare per la seconda volta la capitale, trovando al suo interno un popolo martoriato dall’epidemia, mentre i sopravvissuti, spiega Diamond, erano “comunque demoralizzati da questa malattia misteriosa che sembrava risparmiare gli spagnoli, quasi a mostrare la loro invulnerabilità”.
Un decennio dopo la caduta dell’impero Azteco, toccò una sorte simile anche a quello Inca. In questo caso, però, le malattie portate dagli europei non furono la causa diretta del crollo dell’impero, ma ebbero comunque un ruolo importante. Stando a quanto riporta Diamond, infatti, il comandante Francisco Pizarro si trovò a combattere contro un impero diviso, devastato da una guerra civile per la successione al trono che perdurava da quasi sei anni fra Atathualpa e il suo fratellastro Huascar. Questa guerra fratricida nacque proprio dopo che un’epidemia di vaiolo causò la morte dell’imperatore reggente, Huayna Capac, e di tutta la sua corte. I cavalli, le armi d’acciaio e i fucili degli spagnoli diedero il colpo di grazia all’impero Inca.
L’epidemia di vaiolo però non è stata l’unica a sterminare gran parte della popolazione pre-colombiana, a essa vanno aggiunte altre malattie importate dal Vecchio Mondo come il morbillo, la peste, l’influenza, la salmonella, la scarlattina e la varicella. In innumerevoli casi il ruolo dei bianchi fu solo quello di testimoni oculari mentre le malattie uccidevano per loro. Un esempio di tutto ciò è la storia di Hernando Soto e dei suoi maiali. Quest’ultimo sbarcò con una manciata di soldati – nel 1539 – a Tampa Bay, in Florida e attraversò poi il Mississippi a poche miglia a valle dell’attuale città di Memphis, portando con sé viveri, soldati e i suoi 300 maiali. Nel corso della spedizione, Soto e la sua banda si imbatterono in numerose cittadine ben fortificate e popolate da indiani in Arkansas. In questo caso gli spagnoli si limitarono a compiere poche razzie senza attaccare battaglia, tornando poi alle loro navi. Quasi ottant’anni dopo la spedizione spagnola un gruppo di ricercatori francesi tornò in zona. Ciò che videro fu una valle spopolata, dove una volta sorgevano una cinquantina di cittadine ora se ne contavano circa dieci. Migliaia di indiani erano morti per colpa di un’epidemia. La causa di tutto ciò furono proprio quei 300 maiali che Soto, senza malizia, lasciò nel territorio degli indiani. Infatti, i suini possono disseminare antrace, brucellosi, leptospirosi, teniasi, trichinosi e tubercolosi. I maiali, poi, oltre a riprodursi molto velocemente, possono trasmettere malattie ad altri animali come cervi e tacchini, ed è probabilmente per questo motivo che diverse religioni ne vietano il consumo. Gli indiani, come gli Incas o gli Aztechi, nel corso della loro storia, non essendo abituati a convivere con grandi mammiferi – a parte il lama – non hanno mai dovuto affrontare grandi epidemie, di conseguenza non avevano sviluppato difese immunitarie adatte per proteggersi dalle malattie europee.
I popoli del continente americano non furono gli unici colpiti dalle armi biologiche dei colonizzatori. Questa sorte toccò anche agli aborigeni australiani. Infatti, stando agli studi di Peter Dowling, esperto di antropologia biologica e storia medica, con l’arrivo nel 1788 dei primi colonizzatori europei nelle coste sud-orientali dell’Australia, venne introdotto anche nelle comunità aborigene il virus del vaiolo, decimando così – nei mesi successivi – la popolazione autoctona. Gli studiosi dibattono ancora su come sia iniziata la trasmissione della malattia, ovvero se ciò sia avvenuto accidentalmente oppure se sia stato un vero e proprio atto di guerra batteriologica da parte dei colonizzatori.
La storia è piena di esempi in cui le malattie del Vecchio Mondo, sterminando interi popoli nativi, hanno permesso ai colonizzatori europei di conquistare facilmente territori già abitati. Oltre ai casi già citati, si possono prendere in esame gli avvenimenti della prima metà del 1700 in Sud-Africa. In cui le tribù native – commerciando con uomini d’affari europei – vennero contagiate da vaiolo, tubercolosi e altre malattie, proprio come era successo alle altre popolazioni del mondo. Insediamenti di numerosi boscimani vennero rimpiazzati da quelli europei. Anche le Hawaii, le Fiji e le Tonga ebbero tutte sorti simili.
Oggi gli europei, come molti altri popoli, sono costretti a vivere una guerra pandemica nelle proprie case, proprio a causa di un virus. Tuttavia, questa esperienza potrebbe spingerci ad andare a conoscere le origini, non solo scientifiche, ma storiche, di questi fenomeni, proprio per sentirci meno fragili di fronte alla situazione. Diamond, a tal proposito, spiega che “i microbi, fondamentalmente, si comportano come le altre specie. L’evoluzione seleziona gli individui più bravi ad assicurarsi una progenie e farla sopravvivere; per un germe questo successo può essere misurato calcolando il numero delle vittime infettate da ogni malato”. Difatti ciò che noi chiamiamo sintomi non sono altro che le modalità con cui un germe cerca di modificare il nostro corpo per renderci un efficiente agente di contagio.
Esempi tipici di queste strategie vengono adottate da quei microbi che “aspettano che il loro primo ospite sia ingerito da un altro ospite”, come avviene per il batterio della salmonella nelle uova o nella carne. Altri microbi chiedono un passaggio ad un insetto, come una pulce o un pidocchio, “nella cui saliva si trasferiscono da un individuo all’altro”. Diversi germi sono ancora più ingegnosi. Modificano, infatti, l’anatomia o il comportamento dei loro ospiti in modo tale da massimizzare il contagio, come ad esempio la sifilide.
Uno degli strumenti più potenti che l’uomo ha a disposizione contro le epidemie è senza dubbio il vaccino. La pratica della vaccinazione moderna venne sviluppata per la prima volta nella storia nel lontano 1796. In quel periodo, Edward Jenner, considerato il fondatore della vaccinologia, dopo aver inoculato a un ragazzo di 13 anni il virus del vaiolo bovino, riuscì a dimostrare come la vaccinazione potesse portare all’immunità contro il vaiolo umano. Da quel momento in poi, l’uomo, proprio grazie alla vaccinazione, ha potuto controllare gran parte delle epidemie che per secoli l’hanno colpito. Nel 1885 Louis Pasteur sviluppò poi un nuovo vaccino, stavolta contro la rabbia. Dal 1930 in poi seguirono rapidamente nuove scoperte di antitossine e vaccini contro la difterite, il tetano, l’antrace, il colera, la peste, il tifo e la tubercolosi.
Col SARS-CoV-2 ci siamo trovati di nuovo inermi davanti a un virus sconosciuto, proprio come era successo secoli fa ai nostri antenati. Nel tempo, però, sono stati fatti enormi passi avanti, e per fortuna oggi la ricerca è in grado di sviluppare in tempi relativamente brevi un vaccino in grado di sedare il diffondersi dell’epidemia, proteggendoci da questa nuova minaccia. Un tempo, una malattia come il Covid-19 avrebbe probabilmente decimato la popolazione, e probabilmente si sarebbe ripresentata in diverse ondate e per molti anni. Stavolta non ci resta che aspettare che la scienza faccia il suo corso, cercando di prevenire il più possibile la diffusione, mettendo al sicuro noi stessi e gli altri.