1 milione di donne in Italia ha subito violenza ostetrica, ma a nessuno importa
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Procedure mediche coercitive, umiliazione, abuso verbale, mancanza di riservatezza o di un reale consenso informato: sono solo alcuni dei trattamenti abusanti subiti dalle donne durante il parto e catalogabili come “violenza ostetrica”. Definita per la prima volta in ambito giuridico nel 2007 nella Ley Orgánica sobre el Derecho de las Mujeres a una Vida Libre de Violencia del Venezuela come “appropriazione del corpo e dei processi riproduttivi della donna da parte del personale sanitario, che si esprime in un trattamento disumano, la violenza ostetrica è entrata progressivamente nell’agenda politica internazionale. E mentre si inquadra il problema a livello mondiale e si cercano forme di tutela sempre maggiori, in Italia non esiste ancora una legislazione in materia e neanche una raccolta dati ufficiale.

Durante la Sessione Autunnale 2019 il Consiglio d’Europa ha adottato la Risoluzione 2306/2019 chiedendo agli Stati membri di assicurarsi che l’assistenza alla nascita venga fornita nel rispetto dei diritti e della dignità umana e qualificando la violenza ostetrica nel quadro normativo della Convenzione di Istanbul – di cui anche l’Italia è firmataria. Ma è con il Rapporto annuale presentato lo scorso ottobre all’ultima Assemblea Generale delle Nazioni Unite da Dubravka Šimonović, relatrice speciale sulla violenza contro le donne del Consiglio per i diritti umani, che la violenza ostetrica è stata riconosciuta come violazione dei diritti umani e vera e propria violenza di genere.

L’articolo 1 della Dichiarazione sull’eliminazione della violenza contro le donne delle Nazioni Unite sancisce come tale “ogni atto di violenza fondata sul genere che abbia come risultato, o che possa probabilmente avere come risultato, un danno o una sofferenza fisica, sessuale o psicologica per le donne, incluse le minacce di tali atti, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà, che avvenga nella vita pubblica o privata”; e secondo la relatrice speciale Šimonović è applicabile a tutte le forme di maltrattamento e violenza nei servizi di salute riproduttiva e nel parto, ma non solo.

Nel report presentato si riscontra anche come il maltrattamento e la violenza di genere nei servizi di salute riproduttiva e durante il parto si verifichi in tutto il mondo, sia nei cosiddetti Paesi in via di sviluppo, sia nei Paesi più ricchi, e le vittime di tali violenze appartengano a livelli socioeconomici trasversali. L’unica cosa che le accomuna sembra essere il semplice fatto di essere donne e di partorire e, stando alla raccomandazione generale n. 19 del Comitato sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione contro le donne, la violenza di genere è “una violenza che è diretta contro una donna per il fatto stesso di essere donna o che colpisce le donne in maniera sproporzionata”.

Questo tipo di violenza colpisce anche donne e ragazze che accedono a diversi servizi di salute sessuale e riproduttiva, come esami ginecologici, interruzione di gravidanza, trattamenti per la fertilità e contraccezione. Le vittime di violenza ostetrica sono spesso ridotte al silenzio o hanno paura di parlare a causa dei tabù, dello stigma o della percezione che il proprio sia uno sfortunato caso isolato. Non è così. Le numerose testimonianze fornite da Stati, organizzazioni non governative, istituzioni indipendenti e dal mondo accademico e raccolte dalla relatrice Šimonović dimostrano che questo tipo di violenza è largamente diffusa e radicata nei sistemi sanitari, come risultato di un insieme di violazioni in un vasto contesto di discriminazione, ineguaglianza strutturale, inadeguata istruzione e formazione e della mancanza di rispetto per l’uguaglianza e i diritti delle donne.

Tra le principali cause delle violenze ostetriche sono riconosciuti proprio gli stereotipi di genere, che nell’ambito della salute riproduttiva, della competenza decisionale, del ruolo delle donne nella società e della maternità limitano la loro autonomia e le loro azioni. Radicate e nocive credenze sociali e culturali, come ad esempio quella che vede la donna naturalmente portata al dolore e in grado di sopportarlo meglio dell’uomo, alimentano la convinzione che il parto sia un evento che richiede inevitabilmente il fare i conti con la sofferenza. Il fatto che il parto sia un momento traumatico non significa che la salute fisica e psicologica delle donne debba essere messa in secondo piano, semmai il contrario. Non basta la felicità per la nascita di un figlio a rimediare ai danni causati da un travaglio mal assistito, e alla perdita dei propri diritti fondamentali. 

E così diventa cruciale la questione del consenso informato, riconosciuto come diritto umano fondamentale ma troppo spesso ridotto a pura formalità burocratica e usato come semplice sgravo di responsabilità da parte del personale medico: le donne avrebbero il diritto di ricevere informazioni complete circa i trattamenti proposti in modo da prendere decisioni autonome e consapevoli. I dati di oltre quaranta organizzazioni non governative di tutto il mondo riportano casi di un uso scorretto, o di assenza totale, di consenso informato. I cosiddetti moduli omnicomprensivi non garantiscono un’informazione adeguata: la comunicazione e l’interazione tra paziente e operatori sanitari deve essere un processo continuo e questi ultimi devono essere proattivi nel dare informazioni con un linguaggio comprensibile, accessibile e appropriato alle necessità della donna che deve fare la sua scelta in autonomia. Per quanto sulla carta possa sembrare una questione semplice e scontata, nella realtà non è così.

L’organizzazione non governativa francese Make Mothers Matter, ad esempio, ha indicato come principale causa della violenza ostetrica “la sistematica privazione del diritto delle donne all’autonomia una volta che entrano in contatto con una struttura sanitaria. Tale privazione può assumere molte forme che vanno dalle più ovvie, come la pratica di una operazione nonostante la mancanza di consenso della donna, ad alcune forme più insidiose, come l’applicazione dei cosiddetti protocolli ospedalieri o l’utilizzo dei moduli in bianco che le donne devono firmare e che consentono allo staff medico di fare quello che ritiene necessario senza chiedere ulteriori consensi”. La carente informazione e la mancanza di autonomia si intrecciano inevitabilmente con il problema dell’uso eccessivo di pratiche obsolete e sconsigliate dall’Organizzazione mondiale della sanità (OMS).

È il caso dell’episiotomia, un intervento praticato in caso di parto naturale che consiste nell’incisione del perineo per allargare l’apertura vaginale. È una pratica che solo in situazioni specifiche evita effettivamente complicazioni, altrimenti può avere effetti negativi fisici e psicologici sulla partoriente, tanto da essere stata catalogata come integrazione alla violenza di genere e tortura. L’episiotomia era un vero e proprio intervento di routine (così come in alcune strutture il cesareo), molto spesso non necessario. E se in alcune realtà la pratica è stata rivista in modo da ridurre il più possibile i danni alla madre, o notevolmente ridotta, in altre le cose non sono cambiate dagli anni Sessanta e viene ancora operata in modo indiscriminato, a volte senza il consenso informato, in pieno contrasto con le raccomandazioni dell’OMS. Il ricorso all’episiotomia varia da Paese in Paese, dal 50% delle donne che partoriscono per via vaginale in Italia, il 56% in Croazia, il 72% in Portogallo e in Ungheria, fino a raggiungere l’89% in Spagna. In particolare in Italia il 61% delle donne che hanno subìto tale pratica ha dichiarato di non aver ricevuto informazioni appropriate e non è stato loro richiesto il consenso.

In Italia i dati sono stati sono stati prodotti dall’Osservatorio sulla Violenza Ostetrica in Italia (OVOItalia) che ha presentato a Roma, lo scorso novembre, il rapporto della relatrice Šimonović tradotto, così da garantirne una maggiore diffusione. Nato come proseguimento della campagna social del 2016 #bastatacere, che ha fatto emergere il problema della violenza ostetrica anche in Italia, OVOItalia ha lo scopo di monitorare l’incidenza delle pratiche che costituiscono questo tipo di violenza. Secondo la prima ricerca nazionale realizzata nel 2017 dall’istituto specializzato in ricerche di mercato e analisi statistiche Doxa per conto dell’Osservatorio sulla Violenza Ostetrica in Italia, in collaborazione con le associazioni La Goccia Magica e CiaoLapo Onlus, si stima che negli ultimi quattordici anni circa un milione di donne sia stata vittima di violenza ostetrica durante il parto o il travaglio. E nonostante l’Associazione Ostetrici Ginecologi Ospedalieri Italiani (AOGOI) abbia preso le distanze dichiarando sia una “falsa ricostruzione della sanità italiana”, l’indagine in questione evidenzia la necessità di promuovere maggiori forme di tutela e assistenza. Necessità che però non ha ancora ottenuto un riscontro normativo: la proposta di legge del deputato Adriano Zaccagnini (Liberi e Uguali) per il riconoscimento della violenza ostetrica come reato, infatti, non è mai arrivata in Senato.

L’avvocata Alessandra Battisti, esperta nel tema della violenza ostetrica e dei diritti umani nella nascita e cofondatrice di OVOItalia ricorda che la Dichiarazione sull’eliminazione della violenza contro le donne e la Convenzione per l’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne, unitamente alla raccomandazione generale n. 19 e n. 35 del Comitato per l’eliminazione della discriminazione contro le donne, “sanciscono il [loro] diritto al più elevato livello di salute fisica e mentale raggiungibile”. Per ottenere un approccio basato sui diritti umani “bisogna continuare a parlare di violenza ostetrica per far sì che le donne siano consapevoli dei propri diritti. La sollecitazione che proviene dalla società civile non deve essere intesa come una critica fine a se stessa, ma come uno stimolo al miglioramento per raggiungere una qualità sempre più elevata di assistenza possibile”. Quello della violenza ostetrica è un problema che richiede una tutela istituzionale in conformità anche alle raccomandazioni prodotte dalla relatrice speciale Šimonović, ma necessita anche di un cambiamento culturale della mentalità di medici e pazienti per una ridefinizione del percorso nascita che veda la donna realmente al centro di questo momento.

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