È primavera, siamo nel 2017, ormai si pratica la fecondazione assistita da tempo, l’aborto è legale in quasi – quasi – tutto il mondo, le donne possono votare, studiare, mantenersi. Sono seduta al parco con una delle mie migliori amiche, una donna intelligente, di bella presenza, con occhi che trasmettono una sensibilità vivace e creativa. Ha avuto un figlio, due anni fa. È sano, bello, forte e simpatico. Anna ha fondato un’azienda nel settore del tech di cui è Art Director, è sposata con un uomo che le vuole bene, eppure non la rispetta. Quando ci sono decisioni da prendere lui ha sempre l’ultima parola e se lei prova ad opporsi lui è capace di svegliarla alle tre del mattino per spiegarle perché ha torto. Arriva perfino a decidere del suo lavoro, a dire la sua in campi che non gli competono e in cui la mia amica è una professionista affermata. È labile il confine tra consiglio e prevaricazione. La mia amica è spossata. Mi guarda, non piange, ma è sconsolata. “Forse dovrei smettere di lavorare. È tutto così faticoso. Forse sarebbe meglio fare un altro figlio ed essere semplicemente madre.” Ammetto di guardarla con un certo orrore e pensare: siamo nel 2017 e una donna non solo non può conciliare lavoro e vita privata, ma non viene nemmeno ammirata e rispettata per questo? Per poter sentire di aver dato un senso alla sua vita una donna, magari laureata, che potrebbe magari progettare di andare ad Harvard o fondare una nuova start up di culto, si riduce a 30 anni a sognare di essere madre? Siamo ancora così dominate e identificate con il nostro utero? Perché è sempre quello che in ultima istanza ci definisce: che cosa ne hai fatto, donna, della tua capacità di generare?
Nasciamo con l’utero e, se ci pensate, è una cosa pazzesca. Abbiamo sei mesi e dentro di noi c’è già questo sacchetto di tre centimetri e due piccole ovaie che possono – potranno – generare una nuova vita. Non ci pensiamo mai abbastanza, noi donne, fino a una certa età. Io ho cominciato a pensarci a vent’anni, quando ho scoperto di avere l’ovaio micropolicistico – che in pratica vuol dire avere un sacco di piccole cisti nelle ovaie, che rendono l’ovulazione più difficile.
L’ho scoperto a vent’anni, la prima volta che sono andata dalla ginecologa. Mi era stata consigliata da alcuni parenti e per descriverla posso solo dire che sembrava una teiera, o Edna degli Incredibili: pallida, bassa, tonda e con i capelli a caschetto gonfi come una signora borghese anni ’70. Al collo una collana di perle molto sottile. Lo ricordo bene perché durante quella prima visita, mi disse: “L’unico modo che hai per stare meglio è fare subito dei figli, perché per te non sarà facile averne dopo una certa età.” Ovviamente nessuno mi ha informata del fatto che si possa guarire e che la pillola anticoncezionale in certi casi giochi un ruolo fondamentale su questa patologia. Ecco il primo momento in cui mi è stato detto che tutto ruotava attorno al mio utero: ero danneggiata, non funzionavo benissimo e non sarebbe stato facile per me poter mettere a frutto questo talento concessomi in dote da Madre Natura. Dovevo fare in fretta.
Il secondo momento è stato se possibile ancora più traumatico. Fino a pochi anni fa, in Italia per poter prendere la pillola del giorno dopo era necessario avere la prescrizione medica. All’epoca ero fidanzata con un ragazzo che amavo molto e che mi amava molto, e avevamo anche rapporti non protetti senza pensarci. Sono andata dalla mia dottoressa (che nel frattempo avevo cambiato), sicura che avrebbe saputo aiutarmi. Sono entrata nel suo studio, mi sono seduta davanti a lei, spiegandole che cos’era successo.
Fu molto fredda. “Sì, esiste questa pillola, ma io non te la prescrivo, perché secondo me devi prenderti le responsabilità degli errori che commetti, tesoro.” Silenzio. Come tutte le volte che subisco un sopruso, sono rimasta sconvolta. Io vengo da te, la mia ginecologa di fiducia, e non ti degni nemmeno di dirmi fin dall’inizio che sei un’obiettrice di coscienza? Secondo lei nelle mie responsabilità, se volevo quel farmaco, rientrava fare il giro degli ospedali e dei consultori di tutta Milano? Ecco, il mio utero bussava di nuovo. Non era più mio, era un terreno sociale, un terreno in cui lei si sentiva in diritto – più di di me – di decidere cosa fare, grazie al potere della prescrizione conferitole dall’ordine dei medici. Ciao ciao Chiara, benvenuto Utero del Mondo. Utero che prima accoglie un ovulo, utero che poi accoglie lo sperma (insomma, sappiamo tutti come funziona) e infine utero su cui un medico di cui mi fidavo, e che pensavo avrebbe rispettato il mio corpo e i miei desideri, esercitava tutti i diritti più violenti senza lasciarmi straccio di speranza o di possibilità di decidere. Ma quell’utero era mio, cazzo.
Illusa. La terza volta che ho avuto questo problema è stato per un fibroma (un mioma, per la precisione, ovvero un fibroma localizzato nel miometrio, la tonaca muscolare della parete uterina). Il mio utero si ribella e prende possesso della pancia, sviluppa un tumore benigno grande quanto se stesso e si allarga: “Non mi usi, stronza? E io mi prendo lo stesso tutto lo spazio che voglio.” All’inizio sembrava si dovesse operare. Togliere, togliere. “Signorina, una volta toglievano tutto l’utero, ma con lei non faremo così ovviamente, ovviamente staremo molto attenti, cercheremo di non danneggiare nulla. È così giovane.” Cambio medico. Voglio un altro parere, non voglio operare, voglio che torni al suo posto da solo, secondo me posso convincerlo, anche se non ho alcuna intenzione di usarlo e sono stufa che lui mi detti le sue leggi. Il nuovo medico, che lavora in uno degli ospedali principali di Milano, mi guarda con una certa comprensione: “Per ora non c’è bisogno di operare, signorina. Ma le devo dire che quando si ingrandiscono così, improvvisamente e in modo anomalo, di solito è perché c’è stata una gravidanza.”
Ripenso a quel momento, me lo sentivo. Sapevo che stava succedendo qualcosa, sono stata due giorni sdraiata a letto a pensare: e se fossi veramente incinta? Piangevo, non mi alzavo, e mi ostinavo a rimandare il test di gravidanza. Il fatto di aver scoperto a posteriori che fosse vero mi ha fatto pensare a tutte le opzioni possibili. Quella notte non ho dormito, pensavo: non riuscirei a eliminarti, ma sarei la donna più infelice del mondo. Ho 32 anni, dovrò smettere di lavorare, dovrò fare qualunque cosa per mantenerti, perché so che ti amerei così tanto che farei di tutto per te. Non stavo nemmeno con il “padre”, anzi. A quel punto cosa avremmo fatto? Era un ragazzo carino, sono sicura che avrebbe voluto conoscerti. Però sarebbe stato meglio cambiare casa, magari vivere nello stesso palazzo, per te. Avevo già pensato a tutto questo, in quei due giorni a letto. E poi il mio corpo ti ha espulso e non me ne sono nemmeno accorta. Ci ha pensato da solo. Il corpo fa tante cose da solo, quando non ci sono di mezzo medici, ostetriche o politici a pensarci. Quando un ginecologo non decide per te, quando non vuole per forza che tu rimanga incinta o ti venga tolto l’utero, un organo così importante che in ospedale ti fanno firmare un sacco di liberatorie apposta, perché i danni all’utero sono la fine di tutto, la fine della riproduzione, la fine della vita sul nostro pianeta. Unico, prezioso, oggetto misterioso, magico.
“Alla parità tra maschi e femmine non si arriverà mai, perché, non essendo in grado di generare, i maschi capiscono del mondo femminile unicamente quello che loro ritengono sia proprio della donna, e precisamente ciò che per natura a loro non è concesso. Svincolati dai ritmi della natura, i maschi, hanno inventato la storia, e in questa storia hanno inserito la donna come generatrice, madre dei loro figli.” Ripenso a queste parole di Umberto Galimberti. Siamo davvero così, noi donne, o lasciamo che ci definiscano in questo modo? E guarda a caso a scriverlo è stato un uomo.
Anche in questo vedo una verità solo parziale, perché senza l’uomo il mio utero non sarebbe in grado di creare nulla. E quindi siamo uguali anche in questo, siamo pari, complici. Si tratta solo di dare un luogo ai primi nove mesi di vita di una creatura, ed è una cosa bellissima che possa capitare a noi, è un’esperienza meravigliosa, ma senza l’essere di sesso maschile e il suo sperma tutto questo non potrebbe accadere. Quindi siamo entrambi responsabili, quindi non abbiamo diritti o doveri speciali in nome dell’utero.
In nome di questo utero tante volte altre persone hanno voluto decidere per me. Tante donne nel mondo sono considerate degne – di cosa poi? – solo in quanto madri. Oggi, in Italia, il 70% dei ginecologi è obiettore di coscienza e spesso non abbiamo nemmeno la possibilità di saperlo, finché non siamo davanti al fatto compiuto. A volte penso che sarebbe bello che gli uomini potessero covare i nostri piccoli, come fanno i pinguini. Penso che sarebbe l’unico modo per non soccombere alla definizione “madre-non madre”, per non sentirci obbligate a fare dei figli per decisione altrui e condizionamento sociale. Vorrei che fosse davvero libera la nostra scelta. Nostra, per amore e per amore del nostro corpo. E basta.