La tecnologia ha da sempre il grande potere di entrare nelle nostre vite in maniera prepotente, per non dire totalizzante. Le innovazioni tecnologiche spazzano via le abitudini umane costruite nel tempo, rendendole istantaneamente obsolete. Stravolgono il nostro modo di vivere, e per quanto facciamo di tutto per adeguaci alle macchine, il rapporto tra le due parti non è bilanciato. L’uomo e la tecnologia non viaggiano alla stessa velocità, né tantomeno si muovono sugli stessi binari: più noi arranchiamo, più la invidiamo e la temiamo.
È il concetto di vergogna prometeica ideato dal filosofo tedesco Günther Anders nel lontano 1956. Nell’opera L’uomo è antiquato spiega come l’uomo della civiltà tecnologica, novello Prometeo, sia subalterno alle macchine da lui stesso create, e per questo provi soggezione, smarrimento e imbarazzo. La vergogna prometeica dipende proprio dal dislivello tra prodotti meccanici ed essere umano: se le prime sono ripetibili in serie e massimamente efficienti, lo stesso non si può dire per il secondo, fragile e mortale per natura.
Il genere umano, da sempre incline a superare i propri limiti, non si è però rassegnato e ha cercato anzi una risposta concreta alla vergogna prometeica sfruttando la stessa evoluzione tecnologica, che di fatto oggi mira sempre più alla fusione uomo-macchina. Il processo è distopico e al tempo stesso semplice e intuitivo: se la tecnologia ci sta sorpassando, non ci resta che modificarci a sua immagine e somiglianza attraverso un percorso di disumanizzazione e robotizzazione. Ecco che le innovazioni degli ultimi anni, ma soprattutto quelle a cui assisteremo nei prossimi, hanno un unico e ambizioso obiettivo: aumentare le abilità umane per ridurre il gap in continua crescita tra noi e le macchine.
“Nel 2030 diventeremo ibridi, connessi al cloud con nanorobot,” ha dichiarato Ray Kurzweil, direttore del reparto Ingegneria a Google, durante la Exponential Finance Conference tenutasi a New York nel 2015. “Gradualmente, stiamo fondendo e potenziando noi stessi,” ha spiegato. “Dal mio punto di vista, è nella natura stessa degli esseri umani: noi trascendiamo i nostri limiti.” Oltre a essere uno dei più grandi informatici al mondo, Kurzweil è uno stimato scienziato e futurologo, un uomo le cui previsioni, dal 1990 a oggi, si sono rilevate esatte nell’86% dei casi – e le restanti, ci tiene a sottolineare, non sono errate, ma semplicemente devono ancora verificarsi. Il crollo dell’URSS, l’esplosiva crescita di Internet, il boom dei telefoni cellulari e la vittoria del computer sull’uomo nel gioco degli scacchi sono le previsioni più azzeccate presentate nel suo libro L’era delle macchine intelligenti (1990) – la diffusione delle auto che si guidano da sole, che si aspettava di vedere in libera circolazione entro il 2009, è stata prevista con un anticipo di appena qualche anno.
Dovremo attendere per sapere quanto sia veritiera la profezia sull’uomo-ibrido fornita da Kurzweil. Per ingannare l’attesa possiamo seguire i progressi della società Neuralink di Elon Musk, impegnata a sviluppare un’ambiziosa tecnologia in grado di creare connessioni dirette tra il nostro cervello e il computer. L’obiettivo è proprio quello di aumentare le capacità dell’intelligenza umana, che solo fondendosi con il software potrebbe tenere il passo con i progressi dell’intelligenza artificiale. E se Neuralink al momento ci sembra pura fantascienza, non mancano progetti più realistici a indicarci la direzione che stiamo intraprendendo. Pensiamo alla realtà aumentata, la tecnologia che sovrappone digitale e reale per permettere all’uomo di ottenere informazioni che non potrebbe mai raggiungere utilizzando solamente i cinque sensi. Di nuovo, si tratta di assimilare le capacità umane a quelle delle macchine: da qui l’appellativo “great equalizer” coniato da Michael Porter, professore dell’Harvard Business School.
La differenza tra visori per la realtà aumentata e smartphone è sostanziale: mail, telefonate, GPS e notifiche non compariranno più sul cellulare, ma appariranno direttamente davanti ai nostri occhi. Non dovremo più prendere in mano lo smartphone per collegarci, ma dovremo togliere il visore per scollegarci e tornare alla realtà, quella umana. I dispositivi del futuro ci saranno addosso, non più intorno, e potranno eliminare (o forse assecondare) un grande disturbo psicologico della nostra epoca. Stiamo parlando della Fomo, acronimo di “Fear of missing out”, ovvero la paura di perdersi qualcosa del mondo virtuale e dei social network. Chi ne soffre, oggi controlla il cellulare in media 150 volte al giorno perché teme di essere “tagliato fuori”. Con i visori saremo così immersi nella rete che ci dimenticheremo della distinzione tra il mondo reale e quello virtuale.
Ma mentre facciamo i nostri passi in avanti e ci allontaniamo dalla nostra natura, la tecnologia non si ferma certo ad aspettarci. E a dettare il ritmo serrato del progresso, siamo sempre e comunque noi esseri umani. Sono passati giusto cent’anni dalla pubblicazione del capolavoro di Mary Shelley, Frankenstein o il moderno Prometeo, e la questione creatura-creatore non potrebbe essere più attuale. Esattamente come lo scienziato protagonista del romanzo, noi umani creatori siamo incapaci di domare la nostra creatura. Ancora più paradossale è il fatto che siamo consapevoli del nostro limite, ma non possiamo fare a meno di spingere la tecnologia a crescere e migliorarsi. Abbiamo appena assistito alla presentazione shock di Google Duplex, la versione sofisticata di Google Assistant, un’intelligenza artificiale in grado di fare conversazioni e prenotazioni al nostro posto. Nel test effettuato durante il Google I/O 2018, le conversazioni sembravano del tutto naturali e umane, con tanto di intercalari e pause dubitative tipiche del dialogo tra due persone al telefono.
Sempre Kurzweil, parlando della superiorità dell’intelligenza delle macchine rispetto a quella umana, ha dichiarato che nel 2045 raggiungeremo la cosiddetta Singolarità Tecnologica, ovvero il momento in cui il progresso tecnologico accelererà oltre la capacità di comprendere e tenere il passo degli essere umani, che verranno dunque messi da parte. Che ci piaccia o meno, a quel punto dovremo arrenderci o diventare cyborg, perché il nostro cervello non ci basterà più. Ma già oggi siamo in qualche modo subordinati rispetto alle macchine. Senza di loro ci sentiamo persi, inutili e inadeguati. E anche se percepiamo in prima persona i problemi di questo progresso smodato, ovvero una realtà sempre più alienante, spersonalizzante e stressante; anche se vorremmo fare un passo indietro e gestire la nostra vita in maniera più umana, non lo facciamo. Perché rinunciare a tutto questo significa tagliarsi fuori completamente, e non siamo disposti a restare in panchina. In ambito lavorativo, oggi dobbiamo lavorare più ore per essere sufficientemente operativi e veloci, e dunque mantenere il nostro posto: per molti è meglio lavorare 50 ore al giorno che non lavorare affatto. Lo smartphone non è più uno strumento per comunicare, ma l’oggetto attraverso cui sentiamo di far parte della realtà. Se non sei internet, non esisti. E non esistere è peggio che vivere un’esistenza alienante. Ecco perché abbiamo paura a spegnerlo.
Tutto questo a scapito della nostra umanità. E chi non sarà in grado di adattarsi, verrà schiacciato. A dirlo senza troppi giri di parole è lo stesso Elon Musk: “Gli uomini devono diventare cyborg se vogliono rimanere indispensabili.” E il fatto che siamo proprio noi a creare robot e intelligenza artificiale per una vita e un futuro migliore, appare ormai un dettaglio privo di importanza.