La verità sull’incidente nucleare dell’8 agosto scorso in Russia, avvenuto nel Mar glaciale artico a ridosso del Circolo polare e al largo di una delle basi militari coperte dal segreto di Stato, non verrà mai alla luce, nonostante le intelligence occidentali tengano da tempo d’occhio le manovre di Mosca nell’area. L’Agenzia nazionale atomica russa (Rosatom) ha ammesso nella sostanza la contaminazione radioattiva solo a distanza di due giorni dall’esplosione che, come documentato da alcune immagini satellitari, ha probabilmente coinvolto il reattore di uno dei missili russi sperimentali a testata e propulsione nucleare durante un test. Si tratterebbe del Burevestnik (Skyfall per la Nato) che nel marzo 2018 il presidente Vladimir Putin ha presentato al mondo descrivendolo come inarrestabile e in grado di raggiungere qualsiasi punto del mondo. Il 10 agosto, con un prudente giro di parole, la Rosatom ha comunicato che l’esplosione nei pressi della base navale russa di Nenoksa ha riguardato una “fonte isotopica di energia per un motore a combustibile liquido”, come quella dei reattori del missile Burevestnik. Intanto, come dimostrano i dati dei ricercatori indipendenti del Comprehensive Nuclear-Test-Ban Treaty Organization, quattro stazioni russe che monitorano i livelli di radiazioni nell’aria hanno smesso di funzionare.
Le autorità del Cremlino minimizzano ancora di più, forse anche per mascherare delle falle a livello militare. La notte dell’incidente, le trasmissioni delle televisioni russe si sono interrotte per una cinquantina di minuti e la notizia ha poi avuto uno spazio molto ridotto nei telegiornali, nonostante le sette vittime (cinque scienziati e due militari) e vari feriti. Per i ritardi e le omissioni seguiti ai fatti di Nenoksa anche il New York Times ha rievocato la tragedia di Chernobyl del 1986, nonostante i livelli molto più bassi di radiazioni rilasciati nel’incidente di quest’estate. Quanto accaduto è preoccupante, se inserito nella cornice della corsa agli armamenti e alle tecnologie atomiche che Putin ha avviato per contrastare l’Occidente e soprattutto gli Stati Uniti, sempre più visti come una minaccia agli interessi internazionali russi.
Non a caso anche le accuse di Donald Trump contro Putin sull’incidente dell’8 agosto hanno sortito l’effetto opposto di uno stop: un paio di settimane dopo aver seppellito gli scienziati morti a Nenoksa – che si è scoperto formavano l’élite dell’Istituto di fisica sperimentale di Sarov – la prima centrale atomica galleggiante al mondo Akademik Lomonosov è salpata il 23 agosto dal porto russo di Murmansk, sul Mare di Barents, per una traversata di settimane nell’Artide. A detta degli ambientalisti il bestione da 21.500 tonnellate e due reattori da 35 megawatt ciascuno (in grado di fornire energia elettrica a una città di 50mila abitanti) è una “Titanic Nucleare”.
La nuclearizzazione del circolo polare artico non è iniziata quest’estate: anche diverse navi rompighiaccio russe, parte della flotta atomica civile di Murmansk, sono a propulsione nucleare e di conseguenza con un’autonomia molto superiore rispetto a quelle alimentate a carburante di tutti gli altri Stati. Lo stesso meccanismo, installato su un missile da crociera a testata nucleare come il Burevestnik, lo rende effettivamente in grado di rigenerarsi continuamente e di colpire ogni angolo della Terra. Il Burevestnik sarebbe anche in grado di evitare i sistemi antimissile della Nato perché capace, come affermato da Putin, di volare “a bassa quota e con un raggio praticamente illimitato”. Nei piani del presidente russo, la nuova tecnologia è uno strumento di deterrenza formidabile al pari del mini siluro sottomarino senza pilota Poseidon (Kanyon per la Nato) a propulsione e testata nucleari ed equipaggiato con bombe al cobalto-60, caratterizzate da un raggio di esplosione relativamente limitato, ma da un alto potenziale contaminante.
Il gemello navale del Burevestnik, con l’esplosione del suo carico di isotopi tossici, è in grado di “raggiungere i porti americani” e di scatenare onde alte 500 metri, contaminando migliaia di chilometri quadrati di costa. Tanto il Poseidon quanto il Burevestnik sono invisibili ai radar. Il Pentagono dispone delle immagini dei test di entrambi gli armamenti russi (anche precedenti a quelle diffuse da Putin), e non dubita né della loro costruzione né del loro potenziale distruttivo. Il sospetto della Nato, alimentato anche dal giallo sull’incidente di Nenoksa, è che queste armi a propulsione nucleare non siano affatto pronte per l’uso come sostiene Putin, ma continuino a essere testate senza successo, con morti e ingenti danni ambientali e per la salute nelle aree coinvolte.
Negli Stati Uniti già tra gli anni Cinquanta e Settanta si era tentato di superare la tecnologia dei missili terra-aria facilmente intercettabili. Gli esperimenti per armi nucleari a propulsione nucleare furono interrotti perché “molto pericolosi, più facili a dirsi che a farsi e con alte probabilità di incidenti”, ha raccontato l’ex sottosegretario alla Difesa di Ronald Reagan Lawrence Korb. Secondo l’intelligence statunitense tra novembre del 2017 e febbraio del 2018 almeno quattro missili Burevestnik si sarebbero schiantati nei mari artici di Kara e di Barents, già tomba dei 118 membri dell’equipaggio del sottomarino a propulsione nucleare Kursk affondato nel 2000. In queste due regioni russe, oltre alle basi militari, si concentrano numerosi impianti offshore per estrarre gas e petrolio, e alcune città portuali con decine di migliaia di abitanti. Proprio nell’area meridionale del Mar glaciale artico sarebbero state inviati nel 2018 navi e sottomarini attrezzati per raccogliere i reattori persi con lo schianto dei missili. Dopo l’8 agosto questo è avvenuto anche nelle acque di fronte a Nenoksa, dove i media locali hanno dato la notizia dell’arrivo di una rompighiaccio specializzata nel recupero di rifiuti radioattivi.
Negli stessi giorni il James Martin Center for Nonproliferation Studies di Washington ha reso nota la presenza nella stessa zona di una nave della Rosatom usata in un precedente test per il Burevestnik. Intanto l’Istituto di fisica di Sarov ha ammesso l’esistenza di ricerche in corso per “piccole fonti di energia da materiali radioattivi”, cioè mini reattori nucleari della potenza di alcuni kilowatt. L’intelligence Usa è convinta che i picchi di radioattività al Circolo polare artico dell’autunno 2017 siano stati provocati proprio da un test fallito del Burevestnik. Anche tra l’8 e l’11 agosto 2019 nel città portuale da quasi 200mila abitanti di Severodvinsk, a una cinquantina di chilometri da Nenoksa, l’agenzia meteorologica nazionale russa ha registrato radiazioni di 16 volte superiori alla norma, solo raddoppiate secondo i dati forniti dalla Rosatom. Anche nel peggiore dei casi, i fisici rassicurano che un’impennata di radiazioni su questa scala non può essere paragonata alla pioggia di isotopi cancerogeni seguita all’esplosione di Chernobyl: un missile è molto più piccolo di una centrale nucleare e le radiazioni di un suo reattore sono circoscritte nel tempo e nello spazio. L’innalzamento dei valori tra Nenoksa e Severodvinsk non avrebbe sforato le soglie di tolleranza umana, e variazioni di rilievo non sono state rilevate nelle vicine Norvegia e Finlandia.
Nonostante la minaccia appaia remota per l’Occidente, non si può rimanere indifferenti alle centinaia di migliaia di russi che vivono in decine di mini Fukushima, esposti alle contaminazioni dei continui test atomici. Dopo l’incidente, gli abitanti di Severodvinsk e i circa 450 abitanti del villaggio di Nenoksa si sono rinchiusi nelle loro case dopo aver accumulato scorte di pastiglie di iodio contro le radiazioni, come ai tempi di Chernobyl. Per loro il copione del 1986 si è ripetuto: tenuti all’oscuro dell’accaduto per diversi giorni, all’alba del 14 agosto avrebbero dovuto essere evacuati da Nenoksa con un treno speciale per non meglio precisate “attività militari”, poi annullato senza fornire ulteriori spiegazioni. Stando ai media locali, anche i medici dei pazienti della base curati all’ospedale del capoluogo Arcangelo sarebbero stati trasferiti con loro a Mosca per visite approfondite.
Anche se le autorità non confermano, ci saranno altre Nenoksa in futuro. Dal ritiro di Trump e poi di Putin dal Trattato sul controllo dei missili balistici (Inf), siglato tra Reagan e Gorbačëv nel 1987, la proliferazione nucleare è in piena espansione, soprattutto nella regione artica ricca di risorse e nuove rotte navali aperte con lo scioglimento dei ghiacci. Nella ventina di basi militari disseminate lungo il cosiddetto Passaggio a nord-est, in questi anni Putin ha ammassato 10mila uomini e le navi della Flotta del Nord (che conta una quarantina di sottomarini e altrettante navi da guerra) per bloccare la corsa delle potenze rivali. La base russa più settentrionale, come ricordano con i dati di rapporto per l’Ispi dell’autore di inchieste e reportage dall’estremo Nord dell’Arctic Times Project Marzio G. Mian, è stata inaugurata nel 2017 nella remota Terra di Francesco Giuseppe.
La grande Russia, affacciata su oltre due terzi dell’Artide orientale, che rivendica come suo territorio, crede di poter sfruttare a suo vantaggio il riscaldamento globale e che l’arsenale nucleare schierato nell’estremo nord sia a prova di iceberg e di eventi climatici estremi. In diverse regioni artiche vige anche un permesso speciale di ingresso dell’Fsb per i siti strategici: tutto, come a Nenoksa, è coperto dal segreto militare. Eppure, a causa delle ripercussioni su scala globale dei cambiamenti climatici che hanno come epicentro proprio il Polo Nord, la comunità internazionale non può permettere che il Mar glaciale artico diventi un deposito di stoccaggio dei rifiuti nucleari di Vladimir Putin. Gli isotopi radioattivi rilasciati dalle esplosioni nei test nucleari – non solo russi – come per il Burevestnik, o nei diversi incidenti a sottomarini come il Kursk, non sono devastanti nel breve periodo come la nube rilasciata da Chernobyl, ma si accumulano nel corso degli anni.
Lo fanno anche nei ghiacci polari, principale riserva di acqua dolce del Pianeta, come ha evidenziato di recente uno studio dell’Università di Plymouth. Le particelle delle radiazioni non scompaiono quando i valori nelle zone colpite tornano nella norma o semplicemente togliendo le scorie nucleari dal mare, ma finiranno un giorno nella catena alimentare, al pari di altre sostanze cancerogene. Per questo, fatti preoccupanti come quello accaduto a Nenoksa lo scorso 8 agosto devono mettere in allarme l’intera comunità internazionale, per l’impatto che nel lungo periodo possono avere nella vita di ognuno di noi.