Tra AlphaGo, il supercervello creato dagli ingegneri di Google, e Adam, il robot umano troppo umano immaginato da Ian McEwan in Macchine come me, c’è un mondo di mezzo: il nostro. Nel 2016 un computer ha battuto il campione del mondo di Go, un gioco che per complessità, strategie e tasso di imprevedibilità si riteneva fino a quel punto dominio esclusivo dell’essere umano. Se della storica sconfitta a scacchi nel 1997 di Garry Kasparov a opera di Deep Blue ci eravamo fatti una ragione (gli scacchi sono un sistema chiuso e le opzioni sono finite, anche se sull’ordine delle migliaia), con Go è stato diverso. In questo antico gioco inventato in Cina le opzioni possibili alla prima mossa sono 361 (20 negli scacchi) e alla seconda sono 130mila (400 negli scacchi), ma quel che più conta è che in quel gioco entrano in campo modelli che a detta di studiosi e maestri vanno oltre la semplice computazione. O almeno così si è pensato fino a quando AlphaGo ha battuto 4 a 1 Lee Sedol, ultimo tra gli eroi caduti sul campo di una paradossale resistenza dell’uomo a se stesso. Un sé potenziato quanto trasfigurato dalla tecnologia, come Adam, il robot descritto da McEwan nel suo ultimo romanzo.
Ambientata in un passato venato di anticipazioni dal futuro (definito “retrotopia”), McEwan racconta la storia del giovane londinese Charlie Friend, che nei primi anni Ottanta spende l’intera eredità ricevuta dalla madre per comprare uno dei primi 25 androidi messi in commercio, 13 Eve e 12 Adam. Sono l’avanguardia dell’intelligenza artificiale, lo zenith di una ricerca che grazie agli sviluppi della computer science guidata da un Alan Turing ancora in vita è riuscita a porre le basi per la fabbricazione di macchine intelligenti, sensibili e coscienti. Adam compone haiku, si appassiona di Shakespeare e Montaigne, diventa persino rivale in amore di Charlie. “Mentre lo guardavo negli occhi – riflette Charlie in un passaggio del libro – cominciai a sentirmi scombussolato, insicuro. Nonostante il netto spartiacque tra esseri viventi e inanimati, restava innegabile che io e Adam eravamo vincolati alle stesse leggi fisiche. Chissà, forse la biologia non mi garantiva nessuno status speciale, forse significava ben poco ripetersi che la figura in piedi davanti a me non era viva a tutti gli effetti”. Stranito e circondato da una città in conflitto, stretta tra folle impaurite dalla robotizzazione del lavoro e leader rampanti guidati dalla volontà di governarla, Charlie riesce a incontrare Turing nel suo laboratorio di King’s Cross. “Centinaia di eccellenti studiosi – gli ricorda Turing – si unirono a noi per sostenere lo sviluppo di una forma di intelligenza artificiale generale in grado di evolvere in un sistema aperto”. Aperto come lo è il linguaggio e come può esserlo quel caos di incertezza ed equivoci che è la vita. “È questo che fa funzionare il suo Adam”, spiega il padre dell’informatica a Charlie. Ma a proiettare lo sguardo sulle conseguenze della convivenza tra umani e robot è lo stesso Adam: “Le conseguenze delle macchine intelligenti sono di tale immensa portata che non possiamo prevedere che cosa voi abbiate inaugurato. Una delle apprensioni è che si riveli uno shock e un affronto vivere in compagnia di soggetti più intelligenti di voi stessi”.
è Andando oltre la fiction, dobbiamo ricordarci che le macchine intelligenti sono già tra noi. Accanto a star come Alpha Go, migliaia di macchine lavorano già ogni giorno per predire cambiamenti climatici o elaborare imaging a risonanza magnetica, sono impegnate a risolvere calcoli per noi inaccessibili, non solo nel senso che non saremmo mai in grado di elaborarli, ma anche che non riusciamo nemmeno a capirli. Noi diamo delle linee guida, ma ormai le macchine lavorano in autonomia. Come dice il professore di filosofia della scienza Paul Humphreys in Extending Ourselves, i processi che conducono a questi risultati ci risultano “opachi” ed è così da più di 40 anni: i progressi di scienze come biologia molecolare, genetica, meteorologia, neuroscienze e ingegneria genetica sono stati resi possibili grazie a modelli informatici che non ci sono “analiticamente trasparenti”. Per questo andrebbe “abbandonata l’idea che le abilità epistemiche umane siano l’arbitro ultimo della conoscenza scientifica”. “Il dominio del cognitivo va ripensato”: queste menti artificiali sono sistemi conoscitivi che ci rendono accessibile quello che alla nostra mente è inaccessibile.
Queste macchine intelligenti vivono tra noi. Si moltiplicano i robot di servizio utilizzati come receptionist, i robot “badanti”, i mediatori robotici utilizzati per usi terapeutici ed educativi. Paro, per esempio, è un cucciolo di foca artificiale utilizzato con successo per fornire assistenza psicologica nella pet therapy: dotato di sensori sottocutanei, reagisce quando viene accarezzato, risponde se chiamato, può produrre comportamenti emergenti e quindi imprevedibili al suo stesso programmatore, potenzialmente infiniti e anche molto sofisticati. Paro riesce così a suscitare una relazione di empatia anche individuale con gli umani che entrano in contatto con lui. Vale lo stesso per Kaspar, che a differenza di Paro ha sembianze antropomorfe (ma non troppo per non generare inquietudine) e da anni viene utilizzato con successo come “facilitatore” delle interazioni tra bimbi autistici e i loro interlocutori (genitori, insegnanti, terapisti). Questi robot interagiscono, comprendono esigenze e soddisfano bisogni, intercettano stati d’animo e possono generarne di nuovi nei loro interlocutori.
Sono come noi? Abbiamo a che fare con delle altre menti? I filosofi Paul Dumouchel e Luisa Damiano in Vivere con i robot. Saggio sull’empatia artificiale, uscito nel 2019 per l’editore Raffaello Cortina, ci spiegano che l’interrogativo non ha senso se formulato in questo modo. Al cospetto della varietà di artefatti che stanno entrando nelle nostre vite, i due ricercatori ci invitano a ripensare il rapporto tra sistemi cognitivi naturali e artificiali, tra la nostra mente e quella di oggetti che pur non essendo come noi non esitiamo a definire smart. Un esempio? Una persona affetta da lieve demenza non ricorda più l’indirizzo del museo che vuole visitare e fa ricorso all’agenda dove ha segnato il numero del taxi, lo chiama e si fa accompagnare. È più o meno l’esempio che hanno fatto Andy Clark e David Chalmers nel celebre articolo The extended mind, in cui ipotizzano la teoria della “mente estesa”: l’idea è quella per cui se il processo mentale di ricordare l’indirizzo del museo viene supportato da un supporto fisico diverso (il taccuino) rispetto alla memoria biologica, allora possiamo parlare di estensione della mente. La mente degli uomini ha la peculiarità di dilatarsi al di là di cranio e pelle e innestarsi su pezzi di mondo. Una tesi affascinante, ma sbagliata, almeno secondo Dumouchel e Damiano. La teoria della mente estesa sostiene che le cose diventano mente nel momento in cui la mente se ne serve. E se invece le cose, alcune per lo meno, fossero esse stesse “menti” con cui noi possiamo entrare in contatto?
Il signore con lieve demenza chiama il taxi e si fa accompagnare al museo. Nel processo vengono impiegate le capacità cognitive del tassista, del navigatore della sua auto e dei sistemi automatici di elaborazione delle informazioni per la gestione del traffico collegati al suo Gps. Questo signore per arrivare a destinazione mobilita una rete cognitiva eterogenea all’interno della quale “noi esseri umani siamo sistemi di un tipo particolare, ma non siamo i soli, né i migliori, né lo è il criterio del cognitivo”, per Dumouchel e Damiano. Se è vero che non pensiamo solo con la nostra testa, che la mente fa parte di un corpo legato a sua volta a un ambiente, se è vero che la mente è tutt’altro che un fenomeno esclusivamente interno – una specie di elaboratore incastrato nel cranio –, ma un fenomeno emergente da una rete complessa in cui il dentro e il fuori (neuroni, organismo, ambiente) sono intrecciati, allora viene meno l’idea di una mente pura, di una cognizione disincarnata, e si mette in crisi lo scenario dell’esclusività del pensiero, aprendo al concetto di pluralismo cognitivo.
La mente nasce dalla vita ed è un fenomeno distribuito e relazionale. Se ogni sistema vivente è un sistema cognitivo, come hanno insegnato Humberto Maturana e Francisco Varela, biologi che hanno rivoluzionato l’epistemologia, l’interrogativo sulla sua eterogeneità si fa ancora più forte di fronte a sistemi cognitivi non viventi. “Riconoscere l’eterogeneità del dominio cognitivo esige di non negare la differenza [tra noi e le macchine] e al tempo stesso di non trasformare in abisso ontologico la distinzione tra mente umana, intelligenza degli animali o delle macchine. È sufficiente rinunciare alla dicotomia in favore del pluralismo”, scrivono i due ricercatori. Per capire meglio le ragioni di questo abbandono può aiutarci Cartesio, il teorico del Cogito e della dicotomia tra pensiero (dell’uomo) ed estensione (delle macchine).
Per arrivare al “Penso dunque sono”, alla certezza di un pensiero che può fare da fondamento a ogni altra conoscenza perché segna la priorità della relazione del soggetto con se stesso rispetto a ogni conoscenza del mondo, Cartesio ricorre al dubbio iperbolico. Sono certo, ragionava Cartesio, che i lati di un quadrato siano quattro, ma se invece fosse un genio cattivo a farmelo credere? Come faccio a essere sicuro di quello che penso di conoscere? Cartesio risolve il dubbio scrivendo “s’egli m’inganna; e m’inganni fin che vorrà, egli non saprà mai fare che io non sia nulla, fino a che penserò di essere qualche cosa”. Ecco il “Penso dunque sono”, la tesi di Cartesio divenuta poi dogma tra i cartesiani per cui, poiché l’unica cosa di cui non si può dubitare è il cogito, la certezza di ogni cosa non può che aggrapparsi al soggetto pensante e il mondo non può che venire dopo il (mio) pensiero.
E invece no, sostengono Maturana e Varela. Gli scritti di Cartesio suggeriscono anche interpretazioni diverse, meno rigide. Si pensi all’esperimento del “Genio maligno”. Il dubbio gioca infatti un ruolo fondamentale nel ragionamento di Cartesio perché è attraverso l’errore (anche solo immaginato) che posso avere coscienza di avere un punto di vista sul mondo, di essere io stesso un punto di vista. Fino a che vedo e penso le cose, per me quelle cose sono il mondo: non c’è differenza tra la mia prospettiva e la realtà. Ma se vivo l’esperienza dell’errore mi rendo conto che quello che io vedo o penso può non coincidere con ciò che mi circonda. È qui che insieme alla consapevolezza di poter sbagliare scopro anche di avere un punto di vista sul mondo. Di più, scopro di essere parte di esso. Arrivo al pensiero dopo essere passato per il mondo.
La lettura dei due studiosi rovescia completamente quella tradizionale e ci fa capire come la mente, anche con Cartesio ridotta a bandiera del computazionalismo, non sia la scena sulla quale si mostra il mondo, ma solo uno dei tanti attori in gioco. “Al pari della crescita di una pianta o di un animale, la mente non è una cosa, ma una dinamica. È una serie di eventi che ha luogo nel mondo”, scrivono i due neuroscienziati. La mente è una relazione tra sistemi cognitivi. Tra questi ci siamo noi, gli animali e in modo sempre più diffuso anche i robot. In attesa di capire se e quando avremo amici come Adam, ammesso di poterceli permettere, non ci resta che continuare a fare esercizio con i nostri Siri o Alexa.