I prossimi 11 anni dovrebbero essere quelli della grande transizione energetica verso le fonti rinnovabili, segnati dall’abbandono dei combustibili fossili e dalla riduzione dei livelli dell’anidride carbonica in atmosfera. È quello che raccomandano gli scienziati per mantenere l’aumento delle temperature entro 1,5 gradi rispetto alla media preindustriale e affrontare conseguenze climatiche più contenute rispetto agli scenari previsti in assenza di una seria politica globale di contenimento. Non abbiamo più scelta né tempo da perdere. Davanti a dichiarazioni e prese di posizione delle istituzioni di diversi Paesi del mondo, potremmo pensare che questi avvertimenti siano serviti a qualcosa. Eppure un’agenzia di consulenza affidabile e affermata nel settore dei dati sull’energia come la norvegese Rystad Energy descrive uno scenario ben diverso. Dal report commissionato dal Guardian, infatti, emerge che le 50 maggiori compagnie petrolifere al mondo – tra le quali compare anche l’italiana Eni – immetteranno sul mercato 7 milioni di barili di petrolio al giorno nei prossimi 10 anni in aggiunta alla produzione attuale. Tra di loro, Shell e Exxon Mobil accresceranno la produzione di oltre il 35% entro il 2030, cioè nel periodo cruciale per concentrare gli sforzi nel mitigare l’emergenza climatica.
Le proiezioni prevedono, per i 12 anni compresi tra il 2018 e il 2030, un aumento medio dell’8% nella produzione da parte delle compagnie petrolifere maggiori, alla faccia delle politiche di tagli ai combustibili fossili; e si prevede che almeno 14 delle 20 maggiori compagnie petrolifere pomperanno più idrocarburi nel 2030 di quanto abbiano fatto nel 2018. Una parte consistente di queste hanno sede negli Stati Uniti che, con una crescita di Bp (British Petroleum), Chevron e ConocoPhillips e il ruolo centrale dei giacimenti del bacino Permiano, vedranno il solo Texas produrre di qui al 2030 più petrolio e gas dell’intera Arabia Saudita. Il Paese della penisola araba guida comunque la classifica della Rystad Energy con la Saudi Aramco. Sono inoltre in fase di studio – quando non già in costruzione – i progetti per nuovi impianti in Argentina, a largo della Guyana, in Siberia, nel mare di Barents e in Kazakistan, con investimenti delle compagnie petrolifere calcolati dalla Ong Global Witness in 4.900 miliardi di dollari.
Tra le compagnie con partecipazione statale, di qui al 2030, la Shell aumenterà la sua produzione del 38% tra greggio e gas naturale, mentre ExxonMobil del 35%, Bp del 20%, Total del 12% e Qatar Petroleum addirittura del 58%. Il maggiore produttore petrolchimico resta però Saudi Aramco, che produrrà gas e petrolio equivalenti a 27 miliardi di tonnellate di anidride carbonica, seguita nell’ordine da Gazprom, Iranian National Oil Co, ExxonMobil, Rosneft, Shell, PetroChina e Bp. Complessivamente, il danno ambientale causato dai 50 maggiori colossi petrolchimici in 12 anni sarà l’equivalente di 225 miliardi di tonnellate di anidride carbonica, cioè il 38% del tetto massimo di emissioni fissato per contenere l’aumento di temperatura a 1,5 gradi. Con la giustificazione che il 90% delle emissioni attribuibili a 20 grandi colpevoli deriva dall’utilizzo dei loro prodotti (petrolio, carburante per aerei, gas naturale e carbone termico) e “solo” il rimanente 10% da attività di estrazione, raffinazione e distribuzione dei carburanti, i portavoce di alcune compagnie dicono di non essere responsabili di cosa fanno i consumatori con i loro prodotti. La faccia tosta non li assolve dalla responsabilità di aver contribuito al 35% di tutte le emissioni mondiali di anidride carbonica e metano correlate all’energia, per un totale di 480 miliardi di tonnellate di anidride carbonica emesse dal 1965 a oggi. Questa cifra è parziale, dato che prende in considerazione solo le 20 maggiori compagnie registrate e solo per il periodo in cui anche la politica e l’industria hanno iniziato ad ammettere il legame tra cambiamento climatico ed emissioni di gas serra legate alle attività umane. Gli scettici possono consultare il documento pubblicato proprio nel 1965 dalla presidenza degli Stati Uniti, allora di Lyndon Johnson, intitolato Restoring the quality of our environment.
Ampliando la prospettiva con cui si guarda a questi dati emerge che le emissioni di anidride carbonica e metano prodotte dai maggiori 90 produttori di carbonio sarebbero responsabili di metà dell’aumento delle temperature e di un terzo dell’innalzamento del livello dei mari tra il 1880 e il 2010. Nonostante questo non sembrano avere intenzione di fermarsi, anche se la prima delle azioni imprescindibili secondo la scienza dovrebbe essere proprio abbandonare – o comunque tagliare di netto – il ricorso ai combustibili fossili, per affidarsi completamente alle fonti rinnovabili e mantenersi entro i limiti stabiliti dagli Accordi di Parigi. Limiti che ci permetterebbero di evitare il peggio: entro fine secolo l’innalzamento del livello dei mari sarebbe di 10 cm inferiore a quello causato da un aumento di 2 gradi della temperatura, mentre i ghiacci dell’Artico in estate si scioglierebbero completamente una volta al secolo (invece di almeno una volta a decennio) e “solo” il 70 – 90% delle barriere coralline morirebbe, rispetto alla totale scomparsa che si verificherebbe con un aumento superiore ai limiti previsti a Parigi. Siamo già al punto in cui ci resta da scegliere tra uno scenario catastrofico e uno poco allettante, che possiamo realizzare solo con una transizione – definita dal report dell’Iccp “rapida e ambiziosa” – nell’approvvigionamento di energia, nell’industria, nello sfruttamento dei terreni, nelle costruzioni, nei trasporti e nella vita delle città.
Le emissioni di anidride carbonica causate dall’uomo dovranno calare entro il 2030 del 45% rispetto ai livelli del 2010 per raggiungere lo “zero netto” intorno al 2050. La ricerca dell’Iccp delinea quattro percorsi possibili per mantenere le soglie entro 1,5 gradi e in tutti la quantità di anidride carbonica di origine umana immessa in atmosfera deve essere ridotta tagliando le emissioni (attraverso il passaggio a energie rinnovabili e veicoli elettrici, l’efficienza energetica, il riciclo dei rifiuti e la riduzione del consumo di carne) e tramite il riassorbimento delle emissioni con la riforestazione e la cattura e lo stoccaggio del carbonio.
I dati parlano chiaro: le azioni dei singoli cittadini sono importanti, ma non servono a nulla se la politica non intraprende percorsi seri e immediati, agendo con decisione. Le dichiarazioni, davanti alle proiezioni sui numeri dell’estrazione del petrolio, sono parole al vento per rabbonire chi protesta per l’ambiente in tutto il mondo. Non abbiamo il tempo per aspettare e vedere se quel preoccupante scenario si concretizzerà, ma il fatto che nessuna delle compagnie citate dal Guardian abbia contestato le proiezioni della Rystad Energy è un indizio eloquente. Nonostante ciò, quasi tutte sono impegnate nel proporre all’opinione pubblica una loro nuova immagine, con una monumentale operazione di greenwashing che ha molto il sapore della beffa. La Shell è lodata spesso per il suo ruolo di leadership ambientale tra le altre grandi compagnie petrolifere, per il supporto agli Accordi di Parigi e i suoi progetti di espansione nel campo delle rinnovabili, che assorbono tra uno e due miliardi su un totale annuale di 25 – 30 miliardi di dollari di investimenti della multinazionale.
Anche altre compagnie stanno investendo nelle rinnovabili, ma si tratta di azioni inutili a migliorare l’ambiente se accompagnate da un aumento dell’estrazione di petrolio e gas. Rendono però a livello di immagine: secondo un report del 2019 di Influence Map, ExxonMobil, Shell, Chevron, Bp e Total hanno speso oltre un miliardo di dollari in tre anni in campagne che sostengono il loro supporto alla difesa del clima e che screditano le notizie scomode sul climate change. Nei soli Stati Uniti hanno investito 17 milioni di dollari in poco più di un anno (da maggio 2018 a ottobre 2019) in campagne pubblicitarie su Facebook. Chevron – che ha alle spalle una tradizione di greenwashing – e Shell hanno fatto molto per presentarsi come aziende con un occhio di riguardo per l’ecologia, ma anche l’italiana Eni è stata segnalata per pubblicità ingannevole per uno spot in cui esagerava l’ecosostenibilità del proprio carburante. Le cinque maggiori compagnie petrolifere quotate sul mercato hanno speso in totale 200 milioni di dollari per rallentare, controllare e bloccare le politiche che affrontano il climate change. Nel 2015 Chevron, Exxon e Bp hanno sostenuto ciascuna con mezzo milione di dollari la campagna elettorale di Donald Trump, noto negazionista dell’emergenza climatica, anche se quello tra governi e produttori di petrolio è un legame sedimentato ben prima dell’attuale presidenza degli Stati Uniti: i Paesi del G20 firmatari degli Accordi di Parigi – Italia compresa, anche se si attende un cambio di marcia – continuano a finanziare in vario modo il settore petrolifero, rendendo nei fatti inutile il loro impegno nel tutelare l’ambiente e il futuro del Pianeta.
Avere permesso che una manciata di aziende distruggessero il Pianeta a miliardi di persone è il grande fallimento morale del nostro sistema politico, secondo il climatologo statunitense Michael E. Mann. In molti si sono chiesti come mettere un argine a questa situazione. Lorne Stockman, dell’organizzazione Oil Change International, non ha dubbi: considerando che le compagnie petrolifere stanno semplicemente ignorando gli avvertimenti della scienza e agendo in direzione opposta, sintetizza: “Questo ci presenta una scelta semplice: chiuderle o affrontare un disastro climatico estremo”. Cosa sceglieremo di fare?