Alla fine si è dovuto arrendere anche Donald Trump. Dopo aver ignorato per lungo tempo quella che è stata definita la peggior tragedia sanitaria della storia recente degli Stati Uniti, superiore in termini numerici anche a quella dell’Aids negli anni ’90, l’autunno scorso il Presidente ha dichiarato pubblicamente che l’epidemia di oppioidi in corso nel Paese è “un’emergenza”. Trump ha in realtà mantenuto un profilo basso, evitando di parlare di “emergenza nazionale”, il che avrebbe implicato lo stanziamento di una serie di risorse per far fronte alla situazione e fornire aiuto alla sempre più ampia platea di tossicodipendenti. Ma ha comunque dovuto dare un primo passo, anche perché la situazione si fa ogni giorno più grave: alcuni ricercatori della Washington University hanno trovato tracce di oppioidi perfino nei molluschi del mare di Seattle, sintomo che la popolazione locale sta abusando sempre più di queste sostanze.
I farmaci oppioidi sono un pilastro nella terapia del dolore, grazie al potente effetto analgesico che esercitano sul paziente. Tra questi ci sono per esempio codeina, morfina e fentanyl, ognuno dei quali ha proprie specifiche caratteristiche e potenza. Si tratta di farmaci essenziali nel trattamento del dolore cronico e di quello acuto-moderato, sia di origine neoplastica – e cioè tumorale – sia di altro tipo, come per esempio il dolore post-operatorio. Farmaci i cui principi attivi sono in grado, tuttavia, di creare dipendenza. Negli Stati Uniti il boom di prescrizioni dello scorso decennio ha indotto un effetto a catena che, unito alla facile reperibilità di questi medicinali nei centri commerciali e nei negozi, ha portato all’attuale “emergenza”. Nel 2016 le morti collegate all’uso di oppioidi sono state oltre 42mila, mentre oggi, ogni giorno, muoiono in media 42 persone per overdose da farmaci antidolorifici. La situazione americana non è però tanto imputabile alle sostanze in sé, quanto a un sistema privo di filtri tra venditore e consumatore, alla totale assenza di iniziative di sensibilizzazione sul tema e a un contesto socio-economico di insoddisfazione, disoccupazione e mancanza di prospettive.
Mentre gli Stati Uniti devono confrontarsi con questa enorme massa di psicodipendenti, in altri Paesi l’utilizzo di farmaci oppioidi è molto scarso, tanto da aver indotto istituzioni internazionali e operatori di settore a lanciare l’allarme – l’utilizzo pro capite di morfina è infatti un indicatore utilizzato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità per definire la qualità della terapia del dolore cronico da cancro. L’Italia risulta l’ultimo Paese in Europa per utilizzo di farmaci oppioidi, complice una diffidenza generale che fa sì che la nostra spesa pro capite nell’ambito sia pari a 1,6 euro, contro i 5 della media europea e i 10 della Germania. “Questi farmaci sono un’importante risorsa da difendere,” ha spiegato Roberta Pacifici, direttrice del Centro nazionale dipendenze e doping dell’Istituto superiore di sanità. “Vigilare sulla prescrizione sconsiderata di oppiacei è importantissimo per evitare che diventi l’anticamera di una situazione come quella degli Stati Uniti. Ma altrettanto importante è che questi farmaci arrivino a chi ne ha necessità.”
Se la prescrizione eccessiva di farmaci oppioidi e la troppo facile reperibilità sono un problema, come dimostra il caso statunitense, la somministrazione a goccia di questi farmaci in Paesi come l’Italia desta dunque uguale preoccupazione, per il semplice fatto che va contro la normativa nazionale. Nel nostro Paese la legge 38 del 2010 tutela chi soffre in maniera cronica e sancisce il diritto all’accesso alla terapia del dolore e alle cure palliative per tutti i cittadini. “Le cure palliative,” spiega l’Associazione Europea per le Cure Palliative, “consistono nell’assistenza attiva e totale dei pazienti terminali quando la malattia non risponde più alle terapie e il controllo del dolore, dei sintomi, degli aspetti emotivi e spirituali e dei problemi sociali diventa predominante.” Non soffrire è insomma un diritto in Italia, qualunque sia lo stato di malattia in cui ci si trova, eppure, come certificato dall’associazione Vivere senza dolore, meno del 20 % degli italiani è al corrente della normativa che regola le cure palliative.
A contribuire a questo scenario ci sono anche le istituzioni. Nel 2015 l’allora ministro per la Salute Beatrice Lorenzin ha dichiarato una “forte preoccupazione per l’aumento del consumo di oppiacei” in medicina, t “Negli ultimi anni,” spiegano Roberto Leone e Lara Magro, ricercatori presso l’Università di Verona, “si è registrata nel Regno Unito una tendenza simile a quella americana, con un aumento del consumo di oppioidi, sebbene a livelli inferiori e senza un incremento segnalato di uso improprio o di decessi.” Il sistema britannico, spiegano ancora i ricercatori, ha messo in atto una serie di misure quali linee guida, tavole rotonde, training, monitoraggio, ricerca, finalizzate a una prescrizione equilibrata di quei farmaci. “La situazione inglese è un chiaro esempio, viste anche le somiglianze del sistema sanitario nazionale, di come possa essere gestita, anche a livello italiano, una buona e accurata prescrizione di analgesici oppioidi senza incorrere in fenomeni di abuso, dipendenza o addiction.” L’Italia, va detto, non corre gli stessi pericoli degli Stati Uniti, per il semplice fatto che la legislazione in termini di distribuzione di farmaci è molto diversa: il rischio è dunque più teorico che concreto e il sistema italiano ha tutte le carte in regole per garantire un’applicazione corretta della normativa sulla terapia del dolore.
Il nostro contesto sanitario continua tuttavia a essere caratterizzato da un alto livello di oppiofobia. Gli stessi problemi li vivono quotidianamente i pazienti italiani trattati con cannabis terapeutica. Legale dal 2007, grazie all’inclusione di derivati della cannabis in una tabella ministeriale, a undici anni di distanza la terapia cannabinoide continua a essere possibile per poche persone. Da una parte manca la sostanza, a causa della scarsa produzione nazionale e dei frequenti ritardi nelle importazioni dall’Olanda. Dall’altra persiste quel tabù d’impronta proibizionista che identifica come droga tutto ciò che deriva da piante come canapa e oppio, nonostante la ricerca scientifica ne abbia confermato l’alto valore terapeutico. L’esistenza di medici obiettori che si rifiutano di prescrivere questo tipo di medicinali ne è una prova.
Gli ostacoli principali a una piena applicazione della terapia del dolore hanno radici di tipo culturale: quelli di natura etica si intrecciano alla morale cristiana e allo statuto che il dolore riveste in essa. Il tema ritorna di frequente nei testi sacri e nei proclami cristiani. Nel 1984, ad esempio, Papa Giovanni Paolo II diceva che “Tutti coloro che soffrono sono stati chiamati a diventare partecipi della sofferenza di Cristo. Così come sono stati chiamati a completare con la propria sofferenza quello che manca ai patimenti di Cristo.” Anche oggi non si perde occasione di ricordare l’importanza del dolore nella vita terrena. “Il cristiano non anestetizza il dolore, ma lo vive nella speranza che Dio ci donerà una gioia che nessuno ci potrà togliere,” ha detto di recente Papa Francesco, sottolineando come “vissuto con gioia e speranza [il dolore] ti apre la porta alla gioia di un frutto nuovo.” Il dolore è dunque un valore, e tra più importanti, per il Cristianesimo.
La cattiva nomea che ancora oggi si porta dietro la terapia del dolore in Italia sembra anche essere frutto dunque di questa cultura della sofferenza. Tanto dal lato del medico, quanto da quello del paziente, permane spesso una resistenza all’idea di combattere il dolore, la cui unica medicina è la rassegnazione, insieme l’affetto dei cari e alla speranza. La sofferenza diventa, nel senso comune d’ispirazione cristiana, un passaggio fondamentale della vita, una tappa da non respingere ma piuttosto da sopportare, un passaggio necessario per temprare lo spirito; da male da combattere, si trasforma nell’incipit di una gara di sopravvivenza. L’oppiofobia tipicamente italiana è solo un capitolo di questa storia. In occasione del Convegno sulle Cure Palliative del febbraio scorso, Papa Francesco ha ricordato le parole di Pio XII, che aveva legittimato la somministrazione di analgesici per alleviare dolori insopportabili non altrimenti trattabili. Allo stesso tempo, però, ha sottolineato come il criterio etico non cambi: la terapia del dolore deve essere “un estremo rimedio,” che “richiede attento discernimento e molta prudenza.” Un’apertura parziale, che lascia più luci che ombre sull’opportunità di un utilizzo totale e libero delle cure palliative.
Notizie come quella del prete di Cremona, che ha contestato la famiglia di un uomo sottoposto a cure palliative, non stupiscono. Sono figlie di un sistema che riduce la ricerca scientifica ad amoralità, la legge italiana a carta straccia, il benessere fisiologico, per quanto temporaneo, a peccato. Un sistema che in tempi recenti ha privato molte persone di una morte dignitosa, costringendole a lunghe migrazioni per porre fine alla sofferenza in un Paese diverso da quello in cui si è nati e cresciuti. Un sistema che fa muro davanti a certi percorsi terapeutici perché il valore dell’uomo sta anche nella sopportazione della sofferenza, nel saper dare un senso al dolore, senza che esso venga eliminato artificialmente. Quelli che definiscono progressista la visione di Papa Francesco, con la sua parziale apertura alla terapia del dolore, non si rendono conto che abbiamo ancora a che fare con un conservatorismo anacronistico. Nel 2018 la laicità dello stato deve scorrere naturalmente, senza che tutto debba passare dal potente filtro dell’etica vaticana. Che afferma di operare in nome del benessere dell’individuo, ma che finisce per esserne causa di sofferenza.