Perché imprenditori e startupper usano l'Lsd per diventare più creativi e produttivi
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Una volta, a rendere più produttivi c’era il caffè, fedele amico di notti insonni di studio o di lavoro. Poi sono arrivate le smart drugs: sostanze psicoattive (ma legali) in grado di migliorare le capacità cognitive e la memoria. Adesso l’ultima moda tra i professionisti della Silicon Valley è il microdosing, cioè l’utilizzo a bassissimo dosaggio di droghe psichedeliche (in questo caso illegali). Secondo i fruitori abituali, microdosi di queste sostanze aiuterebbero a migliorare la concentrazione, ad alleviare i sintomi della depressione e persino a contrastare le dipendenze. C’è chi, come il giornalista di Vox Baynard Woods, ha provato il microdosing per combattere la dipendenza da internet, e sostiene che in parte abbia funzionato.

Il metodo del microdosing è stato introdotto da James Fadiman, psicologo e scrittore americano, e si basa sulla convinzione che gli acidi possano aiutare a superare alcuni problemi mentali e a vedere il mondo in modo diverso. Secondo questa teoria, se una dose “piena” provoca allucinazioni, l’assunzione di un decimo di essa, ogni 4 giorni, garantirà l’assenza di allucinazioni e di esperienze traumatiche, assicurando però tutti i benefici. Fadiman studia le droghe psichedeliche e i loro effetti sin dagli anni Sessanta, e nel 2011 ha scritto un libro intitolato The Psychedelic Explorer’s Guide: Safe, Therapeutic, and Sacred Journeys, una guida all’uso terapeutico di sostanze come Lsd, psilocibina, Dmt e iboga.

Le ultime tre sono sostanze naturali: la psilocibina è contenuta naturalmente in alcuni funghi dei generi Psilocybe e Stropharia e ha proprietà allucinogene ed euforizzanti. La Dmt (dimetiltriptammina) è una sostanza presente in diverse piante come l’acacia e la mimosa, e l’iboga è un arbusto africano, contenente sostanze psicoattive nella corteccia e nelle radici. L’Lsd, invece, è un allucinogeno semisintetico: deriva dall’acido lisergico, un alcaloide con funzioni psicoattive contenuto in un fungo parassita della segale. È stato sintetizzato in laboratorio per la prima volta da Albert Hoffmann, un chimico della Sandoz di Basilea, nel 1938, ma le sue proprietà allucinogene sono state scoperte solo cinque anni dopo, per puro caso. Nel 1943, infatti, Hoffmann fece cadere per errore qualche goccia di Lsd sulla mano, e sperimentò uno stato di coscienza alterato che gli permise di ipotizzare il potenziale psicotropo della sostanza. Il chimico decise allora di sperimentarla su se stesso, assumendone una dose piuttosto forte. Tornando a casa cominciò a sentire una significativa alterazione di coscienza, seguita da visioni di forme e colori caleidoscopici. Subito i ricercatori della Sandoz ne ipotizzarono l’utilizzo in ambito psichiatrico: il farmaco contenente Lsd, il Delysid, venne utilizzato per anni per il trattamento della schizofrenia e della depressione. Nel giro di pochi anni, l’Lsd uscì dagli studi psichiatrici per diffondersi nei circoli intellettuali. Diventò poi un fenomeno di massa nella cultura hippie degli anni Settanta, quando le giovani generazioni ne facevano uso per fuggire dalla realtà.

 

 

Oggi invece, a usarlo prima delle normali attività quotidiane sono i giovani professionisti, che la propria realtà vogliono viverla al meglio: molti di coloro che hanno provato il microdosing riferiscono di sentirsi più attivi, più vivaci e più creativi, di “funzionare” meglio sul lavoro, insomma. Secondo gli entusiasti del microdosing, il protocollo funziona davvero.

Dal 2011, Fadiman, sul suo sito, risponde alle richieste di chi vuole provare il microdosing, fornisce loro quel protocollo – ma non le sostanze – e raccoglie le testimonianze di tutti coloro che l’hanno sperimentato. A farne richiesta sono persone da tutto il mondo, ma la maggior parte di esse si concentra nell’area di San Francisco, dove il “consumatore tipo” è un professionista smart poco più che ventenne. Difficile però capire quante siano effettivamente le persone che ne fanno uso: sebbene ci siano numerosi forum su Reddit frequentati da utilizzatori e curiosi (uno dei quali anche in Italia), gli unici dati pubblicati sono quelli in mano a Fadiman, che li ha presentati allo Psychedelic Science , un convegno a Oakland promosso dal Maps (Multidisciplinary Association for Psychedelic Studies), un’associazione no-profit per l’uso controllato delle droghe psichedeliche. I dati presentati da Fadiman, raccolti tramite un questionario presente sul sito, riguardano 418 volontari di età compresa tra i 18 e i 78 anni. Tre quarti dei partecipanti ha citato la depressione come ragione principale della scelta di sperimentare il microdosing, che secondo Fadiman contribuirebbe a farli dormire e vivere meglio, secondo ritmi più regolari. Sui forum, invece, i pareri sono discordanti: c’è chi sostiene che il microdosing migliori la concentrazione e la produttività, chi invece non ha avuto nessun effetto e anche chi ha riportato effetti negativi, come ansia o insonnia.

Se poi si tratti solo di un effetto placebo o meno, questo è ancora da stabilire. Proprio per questo motivo Fadiman, sta cercando – per ora con scarso successo – di ottenere veri trial clinici, per verificare se l’effetto benefico sia solo nella testa delle persone o se sia davvero misurabile scientificamente. Per ora, il primo studio sul microdosing è ancora in fase di avvio – ammesso,  che vengano raccolti abbastanza fondi e che possa essere considerato uno studio attendibile. Anche in questo caso, infatti, arriva da una fondazione no-profit inglese che promuove l’uso delle sostanze psichedeliche, la Beckley Foundation. La direttrice, Amanda Feilding, ha annunciato di voler reclutare 20 partecipanti che dovranno testare un certo numero di dosi di Lsd e battersi contro un’intelligenza artificiale al gioco di strategia Go, all’interno di un macchinario per la risonanza magnetica attraverso cui i ricercatori monitoreranno il flusso di sangue al cervello. Questo dovrebbe permettere di verificare se davvero c’è un aumento della funzione cognitiva e, nello stesso tempo, di verificare l’effetto placebo ed eventuali effetti indesiderati.

Il fatto che per il momento non ci siano veri studi scientifici in merito e che a occuparsi del microdosing siano solo associazioni a favore della liberalizzazione di queste sostanze non rassicura gli scettici. Eppure la scienza si è occupata spesso delle potenzialità terapeutiche delle sostanze psicoattive: uno studio pubblicato nel 2006 sulla rivista Neurology afferma che l’Lsd sarebbe utile per la cura della depressione e della cefalea a grappolo; una ricerca del 2012 della Harvard Medical School fa notare invece che l’assunzione di Lsd potrebbe aiutare nel trattamento contro l’alcolismo; uno studio della Johns Hopkins University afferma che le droghe psichedeliche possono ridurre il disagio psicologico: utilizzando i dati raccolti dal 2008 al 2012 dalla National Survey on Drug Use and Health, i ricercatori hanno osservato che i regolari utilizzatori di psilocibina e Lsd avevano meno possibilità di sviluppare disagi psicologici e pensieri suicidi rispetto a chi non ne faceva uso. Lo stesso team di ricercatori, guidato da Matthew Johnson, ha continuato a studiare le droghe allucinogene, ipotizzandone un uso futuro nella terapia contro la dipendenza dal fumo e nel trattamento della depressione nei pazienti oncologici. Johnson afferma infatti che, nel giro di dieci anni, le terapie a base di psilocibina e Lsd saranno approvate dalla Fda, l’ente governativo statunitense che si occupa della regolamentazione dei prodotti alimentari e farmaceutici. Più di recente, nel 2016, uno studio del Center for Brain and Cognition dell’Universitat Pompeu Fabra di Barcellona, in collaborazione con l’Imperial College di Londra, ha mostrato per la prima volta, attraverso scansioni di risonanze magnetiche, gli effetti sul cervello causati da dosi massicce di Lsd: l’aumento di attività delle cellule, e l’alterazione delle connessioni cerebrali. Lo scopo, secondo la neuroscienziata Selen Atasoy, è quello di capire il meccanismo con cui la sostanza agisce sul cervello, ancora in parte sconosciuto, ed eventualmente di valutarne la somministrazione per il trattamento delle malattie mentali, ma ovviamente non prima di averne verificato gli effetti secondari.

Già, gli effetti collaterali. Secondo Charles Nichols, docente di farmacologia all’Università della Louisiana, che di recente ha pubblicato una review sull’utilizzo delle droghe psichedeliche come farmaci, serve cautela. Il loro utilizzo a scopo farmaceutico richiede uno stretto controllo medico, perché queste sostanze alterano le connessioni cerebrali per un periodo di 8-10 ore, interferendo con neurotrasmettitori come la serotonina e riducendo la stabilità delle connessioni tra le cellule. Anche Erowid, un’organizzazione no-profit americana che analizza gli effetti delle droghe psicoattive, mette in guardia contro l’uso sconsiderato di Lsd: sebbene difficilmente possa portare alla morte, ci sono comunque degli effetti secondari di cui tener conto: tanto per cominciare, in persone predisposte può scatenare sintomi psicotici, o provocare depressione, ansia, pensieri suicidi. Tutto il contrario, quindi, degli effetti benefici elencati da Fadiman e dalle varie associazioni pro-droghe psichedeliche, che al momento restano gli unici a parlarne in questi termini (basandosi tendenzialmente su questionari e aneddoti). Anzi, l’unico studio scientifico che ha esaminato l’effetto di microdosi di psilocibina sul cervello, non ha evidenziato nessun beneficio a livello cognitivo, se non, in minima parte, sulla creatività.

L’impressione che molti hanno è che l’unico motivo dietro ai discorsi sulle presunte virtù di questo metodo sia la volontà di liberalizzare le droghe psichedeliche per essere liberi di utilizzare acidi in modo legale. Insomma, se proprio avete delle scadenze urgenti da rispettare e volete migliorare la vostra produttività lavorativa, l’Lsd non è la soluzione: forse è meglio che continuiate a fare affidamento sul caffè.

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