Lo stress è diventato nel corso di pochi decenni uno dei disturbi più diffusi nella società occidentale, una condizione endemica e quotidiana che non sembriamo più in grado di arginare. Secondo una ricerca di Assosalute l’85% degli italiani soffre di disturbi legati allo stress, mentre uno studio dell’Anxiety and Depression Association of America ha rilevato che più di 40 milioni di statunitensi (circa 18% della popolazione) presenta sintomi riconducibili all’ansia. Questi numeri sono aggravati dall’incidenza potenziale della sindrome da burnout, che colpisce più facilmente chi soffre già di ansia, stress o depressione. Nel maggio 2019 l’Organizzazione mondiale della sanità ha classificato il burnout come “sindrome”, riconoscendone l’esistenza dopo decenni di studio. Secondo l’Oms, anche se non si tratta di una condizione medica, ha un livello di pericolosità tale da diventare una condizione cronica e difficilmente curabile.
A soffrire di sindrome da burnout è soprattutto chi svolge una professione di tipo assistenziale come poliziotti, vigili del fuoco, infermieri e insegnanti. I primi sintomi del burnout sono stati osservati proprio in ambito sanitario: il primo a occuparsene fu lo psicologo Herbert Freudenberger che introdusse il termine burnout nel 1974 per indicare lo stress emotivo degli infermieri costretti a interfacciarsi con colleghi e pazienti per lunghi periodi di tempo. Nel 1980, con il libro Burnout: The High Cost of High Achievement, Freudenberger iniziò a diffondere il concetto anche tra il pubblico, individuando le cause del disturbo nell’elevata pressione sul luogo di lavoro.
Nell’arco di 40 anni il burnout è diventato una minaccia riconosciuta non solo per la salute dei professionisti e delle persone con cui si interfacciano quotidianamente, ma anche per il buon andamento dell’economia. Per il sistema sanitario, ad esempio, la sindrome è la causa di un progressivo deterioramento del servizio e di un abbassamento degli standard qualitativi. L’inefficienza, lo spreco di risorse, l’insoddisfazione degli utenti hanno inevitabilmente un impatto economico, sia perché è maggiore il numero di cause intentate per malasanità, sia perché il sistema deve provvedere a curare gli operatori affetti da burnout. Uno studio recente negli Stati Uniti ha dimostrato che la sindrome costa alla sanità circa 4,6 miliardi di dollari ogni anno.
Anche la scuola è un settore molto colpito dalla sindrome: secondo un’indagine condotta su 1500 professori dall’Osservatorio nazionale salute e benessere della Lumsa, il 67% degli intervistati presenta sintomi del burnout dalla gravità medio alta. Nel 53% dei casi gli insegnanti ritengono di aver fallito la propria missione educativa, cosa che si traduce in abuso di alcool e psicofarmaci e nello sviluppo di un approccio cinico inadatto a chi deve rapportarsi quotidianamente con il mondo dell’educazione. La direttrice dell’Osservatorio Caterina Fiorilli sostiene che “I soggetti più a rischio sono quelli con alle spalle 10 – 15 anni di lavoro, in genere più donne che uomini, con una maggiore concentrazione nelle scuole secondarie del Nord. Paradossalmente chi ama molto il suo lavoro si ammala di più, perché ha maggiori difficoltà a staccare la spina nella vita extrascolastica”. Come se non bastasse, il burnout può tradursi in patologie più gravi: “Chi soffre di burnout è più esposto a patologie somatiche, oncologiche, cardiovascolari o psichiatriche, come ansia e depressione, e vede diminuire le sue capacità affettive e relazionali”, conclude Fiorilli.
Se gli insegnanti sono a rischio, non va meglio per i loro allievi. Gli studenti italiani vedono la scuola come un luogo performativo e competitivo che causa loro ansia. In una ricerca del 2016 dell’Osservatorio nazionale adolescenza condotta a pochi giorni dall’inizio del nuovo anno scolastico su un campione di 1700 studenti, l’85% ha ammesso di essere nervoso al pensiero di rivedere professori e compagni, il 61% ha sostenuto di non dormire bene la notte e il 56% di soffrire di stanchezza, dolori allo stomaco, mal di testa, dolori al collo e alla schiena. La condizione si aggrava tra gli studenti universitari: l’American College Health Association Survey ha rilevato che, stando a una ricerca del 2015, l’86% degli studenti statunitensi intervistati ha dichiarato di sentirsi sovraccarico, mentre l’82% si descrive come “emotivamente esausto” e il 35% si sente così depresso da non riuscire a fare niente.
Le dichiarazioni descrivono alla perfezione i sintomi del burnout: nel 1975 la psichiatra Christina Maslach ha indicato fra i sintomi principali una perdita di interesse vissuta dal malato nei confronti dei compagni, dei colleghi di lavoro, dei clienti, dei pazienti assistiti. A questo si accompagnano episodi di spersonalizzazione, svuotamento emotivo, mancanza di adattamento nel luogo di lavoro. Chi è affetto da burnout si mostra cinico, scostante, depresso o rabbioso, inefficiente nelle proprie mansioni. La psichiatra ha messo a punto il Maslach Burnout Inventory, un test che misura i sintomi della sindrome seguendo i parametri di depersonalizzazione, realizzazione personale e soddisfazione emotiva, ovvero le tre aree dell’umore interessate maggiormente dal burnout. Grazie a questo test è possibile circoscrivere e quantificare la condizione di stress e capire il livello di gravità del disturbo.
All’origine del burnout c’è una combinazione di fattori soggettivi e ambientali, come spiega la dottoressa Marina Osnaghi: “Lo stress in realtà è qualcosa di biochimico, naturale, che tutti produciamo. È un insieme di sostanze che il cervello produce per obbligarci ad agire, e questo viene supportato da ogni tipo di emozione (gioia, rabbia, delusione ecc.). Lo stress, quindi, di per sé è sano”. I problemi sorgono quando si moltiplicano gli input dell’ambiente circostante e il livello di stress diventa insostenibile. Il primo passo per impedirgli di trasformarsi in qualcosa di più pericoloso è riconoscere il disturbo in quanto tale: “Bisogna prima di tutto – sostiene la dottoressa – ammettere di essere stressati, avere il coraggio di dirlo. La frenesia può essere uno dei primi allarmi. Tra gli altri sintomi si annoverano le dimenticanze o il commettere errori stupidi, oppure il soffrire di piccoli disturbi cronici che indicano dei livelli troppo alti di stress”.
Bisogna anche fare molta attenzione all’incontro nocivo tra contesto lavorativo e nuove tecnologie. Gli smartphone e la casella mail sempre a portata di mano hanno compresso i tempi di risposta e moltiplicato i feedback che riceviamo quotidianamente, con un maggior carico di informazioni da gestire. Per questo l’’iperconnessione è diventata un nuovo fattore di stress nelle realtà aziendali. Per Carlos Manuel Soave, direttore di Hays Italia, i professionisti devono tenere sotto controllo l’abuso di tecnologia: “Le aziende hanno approfittato degli ultimi ritrovati tecnologici, offrendo ai propri dipendenti modalità di lavoro più smart e flessibili. C’è però un rovescio della medaglia: con device sempre online e una reperibilità spalmata sull’arco dell’intera giornata, è cresciuto notevolmente il volume di chi soffre o ha sofferto di vere e proprie crisi di burnout”. Allungando la giornata lavorativa e portando il lavoro a casa, si diventa sempre reperibili e investiti di responsabilità, con la pressione e lo stress che aumentano al punto tale da diventare ingestibili.
Curare la sindrome da burnout richiede un processo lungo: bisogna diminuire il carico delle proprie mansioni, rallentare i ritmi lavorativi e trovare il modo di prendersi delle pause dall’ambiente causa di stress. Purtroppo non è sempre possibile prendersi del tempo per se stessi, quando sono richieste performance spesso insostenibili. Per questo la responsabilità psicofisica dei dipendenti dovrebbe essere a carico del datore del lavoro, con una legislazione che tuteli la salute, anche emotiva e mentale, sul luogo di lavoro. Nel 2008 in Francia è stata introdotta una legge che obbliga i datori di lavoro a rispondere dello “stress da lavoro correlato” dei propri dipendenti, facendo un primo passo verso il riconoscimento della gravità del problema. Negli ultimi anni, inoltre, è stata aperta una clinica psichiatrica, diretta dal dottor Thierry Javelot, che si occupa della salute mentale di chi lavora nel settore sanitario. In Italia la situazione è ben diversa, se si pensa che tra il 2010 e il 2014 sono stati indennizzati 132 casi di stress dovuto al troppo lavoro, una cifra irrisoria rispetto alle percentuali dei lavoratori colpiti da burnout. Questo perché la sindrome non è inserita nelle tabelle Inail che regolano gli indennizzi tra aziende e dipendenti.
Nonostante le istituzioni italiane non siano ancora riuscite a cogliere la gravità del problema, il burnout è una realtà sempre più evidente che riduce l’efficienza dei lavoratori e impoverisce il loro stato emotivo, diventando uno stigma a livello personale e sociale. Fingere che si tratti solo di un fastidio passeggero, senza riconoscere la responsabilità dei datori di lavoro, significa condannarsi a una vita da automi in una società che ha dimenticato del tutto il suo lato umano.