Gli italiani hanno più paura della psicoterapia che degli psicofarmaci. In un Paese dove ammettere di essere in terapia da uno psicologo o uno psichiatra è ancora considerato un tabù, gli psicofarmaci sono diventati una scorciatoia per combattere i disturbi mentali. Secondo uno studio condotto dall’Istituto di Fisiologia Clinica del Cnr, circa sette milioni di italiani tra i 15 e i 74 anni – il 15,1% della popolazione – ne fanno uso almeno una volta nel corso dell’anno. Questa percentuale non tiene conto del consumo di psicofarmaci senza prescrizione, come quelli comprati sul mercato nero, soprattutto dagli adolescenti. Il boom del consumo, legale e illegale, va affrontato senza pregiudizi e disinformazione, considerando che anche tra i politici l’argomento è del tutto ignorato.
Il termine psicofarmaco comprende sottocategorie così distanti tra loro da rendere facili fraintendimenti e confusione. Le principali categorie di psicofarmaci sono cinque: antidepressivi, ansiolitici, antipsicotici, stabilizzanti dell’umore e stimolanti. Secondo l’ultima relazione dell’Agenzia Italiana del Farmaco del maggio 2018 sono gli antidepressivi gli psicofarmaci più consumati in Italia, con il 6% della popolazione che ne ha fatto uso nel corso del 2017. Gli antidepressivi più comuni sono gli Ssri (inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina), una classe che comprende alcuni tra i farmaci più venduti al mondo, come fluoxetina (Prozac), paroxetina (Daparox) e sertralina (Zoloft), affiancati di recente dagli antidepressivi di seconda generazione, come gli Snr (Iinibitori della ricaptazione della serotonina-norepinefrina) e le Imao (inibitori delle monoamino ossidasi). I dati sull’utilizzo di questa categoria di farmaci sono destinati ad aumentare, considerando che l’Oms (Organizzazione Mondiale della Sanità) ha affermato che la depressione nel 2030 sarà la patologia più diffusa nel mondo.
La relazione dell’Aifa ha messo in luce anche un aumento dell’8% nel consumo di ansiolitici, in particolare delle benzodiazepine, che da anni hanno superato i barbiturici nei trattamenti per l’ansia e gli attacchi di panico. I più comuni sono diazepam (Valium), alprazolam (Xanax), lorazepam (Tavor) e bromazepam (Lexotan). Secondo il rapporto Osmed dell’Aifa, gli italiani spendono circa 350 milioni di euro l’anno in ansiolitici, confermando un dato in crescita costante, soprattutto tra gli under 35 sempre più colpiti da ansia e senso di isolamento.
Gli psicofarmaci agiscono sul sintomo, non sulla paura o su altre componenti emotive. Nel caso di un disturbo da attacchi di panico, ad esempio, gli ansiolitici possono tamponare i sintomi della psicopatologia, ma non agiscono alla radice della psiche. Per la psichiatra Liliana Gandolfo gli psicofarmaci vanno sempre integrati con “Una psicoterapia mirata in relazione alla patologia, impostando un piano terapeutico dove è utile anche il confronto tra diversi operatori. Il farmaco può essere una stampella, è utile nel momento critico per non far cadere il soggetto, ma poi è necessario un tipo diverso di lavoro, per muovere gli arti e camminare con le proprie gambe. In tal senso negli ultimi decenni ci sono stati molti cambiamenti: un tempo alcune rigidità della psicanalisi non contemplavano l’assunzione del farmaco durante il trattamento, mentre adesso l’apertura è arrivata anche in quel campo”.
Nonostante gli ottimi risultati nella cura di gran parte delle patologie psichiatriche, per molti gli psicofarmaci restano placebo con l’aggravante degli effetti collaterali. Per smentire queste convinzioni, l’Università di Oxford ha realizzato il più imponente studio su questa tematica, durato sei anni. La ricerca ha coinvolto 116mila persone e alternato antidepressivi e placebo, mostrando come i primi siano molto più efficaci nel contrasto delle patologie depressive. Per i ricercatori, il dibattito sugli psicofarmaci e la loro efficacia è stato condizionato da questioni ideologiche, nutrite da un pregiudizio mai raggiunto da altre tipologie di farmaci. Giorgio Racagni, direttore del Dipartimento di Scienze farmacologiche dell’Università di Milano, ha spiegato che “Per la depressione – progressiva, cronica, ricorrente, con idee di suicidio – gli antidepressivi dimostrano un’efficacia del 70-80%, specie se integrati con la psicoterapia. A parte gli antibiotici, che raggiungono praticamente il 100% quando si assume quello giusto, le altre tipologie di farmaci hanno sempre un 20-30% di malati che non rispondono”.
I preconcetti sugli psicofarmaci si accompagnano a quelli sulla terapia psichiatrica che li utilizza. Lo psichiatra Giuseppe Minutolo spiega che sul disturbo psichiatrico ancora si fa fatica ad accettare determinate situazioni, soprattutto per un retaggio del passato: “Se prima il farmaco aveva un effetto contenitivo, adesso si è entrati in un livello curativo. Soltanto che alcuni trattamenti possono continuare a vita, come mantenimento, con alcune collateralità che preoccupano l’utenza, che all’inizio del trattamento non sa con certezza quando questo finirà. Abbiamo effetti collaterali che esistono, sta all’accortezza del medico che li prescrive bilanciare efficacia e tollerabilità, cercando con l’assunzione del farmaco di garantire equilibrio e una buona qualità della vita”. È fondamentale capire che non è il farmaco a essere prodigioso o dannoso, ma l’uso che se ne fa. Interrompere una terapia può portare ai sintomi dell’astinenza e a pesanti scompensi chimici, per questo è importante seguire un processo graduale sotto la supervisione di uno specialista. Secondo il dottor Minutolo, “Nel caso delle dipendenze esistono protocolli medici, si evitano gli effetti di rimbalzo sostituendo il farmaco con molecole più tollerate e poi scalando gradualmente. Bisogna però partire dall’inizio ad avere coscienza dell’assunzione, anche perché spesso alcuni farmaci sono erroneamente autoprescritti – come le benzodiazepine – e non c’è un percorso seguito dal medico. Questo causa scompensi e problemi equiparabili alle tossicodipendenze. Anche perché la ricerca è in continua evoluzione e tutto è studiato dettagliatamente. Una nuova molecola va analizzata e testata per anni prima di essere immessa sul mercato, ma se il soggetto si affida ad autodiagnosi e autoprescrizioni il rischio di incorrere in collateralità è elevato”.
Polarizzare il dibattito sugli psicofarmaci sminuisce il loro valore scientifico senza tenere in considerazione la loro continua evoluzione, soprattutto se pensiamo che il primo antidepressivo a essere messo in commercio fu l’iproniazide nel 1952. Secondo Paolo Girardi, che insegna psichiatria all’Università Sapienza di Roma, gli psicofarmaci sono sottoposti a stigma, quando si tratta invece di farmaci studiati ancor più a lungo rispetto alle altre medicine, con una sperimentazione media che oscilla tra i 12 e i 14 anni. Per Girardi, nella cura delle malattie della mente non si può rinunciare ai vantaggi derivati dall’azione farmacologica ed è necessario combattere i troppi pregiudizi che ancora li circondano. Pur con i loro pesanti effetti collaterali, gli psicofarmaci sono uno degli strumenti migliori per contrastare le malattie psichiche, destinati ad avere un ruolo preponderante per combatterne diffusione nel futuro prossimo. La priorità è intervenire sulla cultura che accompagna il loro utilizzo, rendendo le persone consapevoli che non si tratta di pillole miracolose, ma di una parte fondamentale di terapie organiche da portare avanti consultando degli specialisti.