Le prime vittime del cambiamento climatico sono gli indigeni. E noi li abbiamo abbandonati.
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Privati delle loro terre e costretti a spostarsi da deforestazione, innalzamento dei mari, costruzione di infrastrutture e conflitti derivanti dalla scarsità di risorse, i popoli indigeni – di cui il 9 agosto si celebra la Giornata mondiale – sono i più vulnerabili al cambiamento climatico, di cui non hanno responsabilità, dato che le loro civiltà si basano su una gestione equa e non eccessiva delle risorse e sul massimo rispetto del territorio e della popolazione animale. Molti popoli indigeni sono minacciati, come sottolinea Raffaella Milantri, scrittrice esperta del tema, soprattutto a causa di isolamento, mancanza di comunicazione con i governi statali e discriminazioni. A ciò si aggiunge oggi la distruzione dell’ambiente naturale in cui vivono e da cui dipende la loro stessa esistenza. Non hanno alcuna sicurezza: basti pensare che solo 23 Paesi al mondo hanno ratificato la Convenzione169 dell’ILO (l’International Labour Organization dell’Onu) che garantisce per iscritto ai popoli indigeni e tribali diritti umani e libertà fondamentali, tra cui il diritto all’identità culturale e alle tradizioni comunitarie, quello alla partecipazione alle decisioni che li riguardano e l’uguaglianza davanti alla giustizia. L’Italia è tra i Paesi che non l’hanno ratificata

L’Unione Europea, sempre secondo Milantri, dovrebbe fare di più, ad esempio per quanto riguarda il flusso turistico europeo verso i territori popolati da queste civiltà, strettamente connesso al tema ambientale. In Lapponia – la terra del popolo sami, che è l’unico popolo indigeno d’Europa, cioè l’unico la cui presenza è attestata in quello stesso luogo fin dalla Preistoria – sempre più strutture si stanno dotando della certificazione di sostenibilità ambientale (Sustainable Arctic Destination), dato l’incremento del turismo che è allo stesso tempo un’opportunità di sviluppo economico e un fattore di rischio ambientale. Nella Lapponia finlandese negli ultimi anni si è avuto un boom di visite con un aumento del turismo del 9% tra 2016 e 2017 e di un ulteriore 3% l’anno dopo. I sami sono particolarmente interessati a promuovere un modo di viaggiare volto davvero a conoscere il territorio e a rispettarlo, a maggior ragione in un ambiente così estremo, in cui è necessario essere consapevoli della fragilità dell’equilibrio naturale 

Eppure neanche la Finlandia ha ratificato la convenzione ILO 169 e il processo di riconciliazione tra governo nazionale e sami –  a seguito delle discriminazioni e della brutale assimilazione imposta nel dopoguerra – sembra essersi interrotto. I sami sono tra i popoli più colpiti dal surriscaldamento globale perché vivono di pastorizia di renne che, a causa della pioggia che ormai spesso sostituisce la neve, seguita da bruschi cali di temperatura che la fa ghiacciare, non riescono più a scavare la neve alla ricerca di muschi e bacche. Avrebbero bisogno di un’alimentazione artificiale, perdendo la tradizionale pastorizia basata sul semi-addomesticamento che rispetta appieno abitudini e ritmi di vita degli animali.

I permessi concessi dai governi nazionali alle compagnie di estrazione dei metalli e legname hanno già colpito il territorio lappone. Nonostante il governo finlandese debba interpellare quello sami per tutte le questioni legate al suo territorio e alla sua cultura, infatti, alla fine prende le decisioni autonomamente. Lo sta facendo con il progetto di ferrovia, che dovrebbe essere inaugurato entro il 2030, tra la città di Rovaniemi e il Mar Glaciale Artico, e che prevede anche una direttrice verso il porto norvegese di Kirkenes. Questa, oltre al turismo dissennato, rappresenta l’altra grande minaccia a questo popolo, e si lega a doppio filo al cambiamento climatico, da un lato contribuendovi con il disboscamento (oltre a essere realizzato per sfruttare soprattutto il gas e il petrolio del Mar di Barents) e dall’altro perché ne è una conseguenza, dato che risponde agli accresciuti commerci con l’Asia dovuti allo scioglimento dei ghiacci e in particolare con la Cina, che ha annunciato l’intenzione di creare una “Polar Silk Road”, un prolungamento a nord della Belt and Road Initiative

Dall’altra parte del mondo le stesse risorse (petrolio, gas naturale e legname) minacciano gli Ashaninka, il popolo indigeno più numeroso del Sud America che usa la natura per procurarsi cibo, medicine e materia prima per artigianato e costruzioni, ma sempre in modo rispettoso ed ecosostenibile. Marishöri Najashi Samaniego Pascual, rappresentante ashaninka, racconta che, a seguito della scomparsa della pianta da cui traevano il tessuto per gli abiti tradizionali, lei e le altre donne ashaninka ora, per trovarla, devono addentrarsi nella foresta, talvolta attraversando le terre degli agricoltori, con i cattivi rapporti che  conseguono dall’attraversare una proprietà privata. Gli Ashaninka già nel 1992 iniziarono a opporsi all’invasione dei commercianti di legname e dei trafficanti di droga nel loro territorio, costituendo un avamposto grazie a cui la foresta della Terra Indigena Kampa del Rio Amônia, in Brasile, è rimasta quasi intatta. Da allora hanno abbandonando le coltivazioni tentate precedentemente, rendendosi conto che danneggiavano il terreno accelerando la deforestazione e sostituendole con l’agroforestazione e altre pratiche sostenibili. Recentemente hanno creato un Congresso binazionale che riunisce le comunità di Perù e Brasile, con cui hanno censito la popolazione ed evidenziato i loro maggiori pericoli, tra cui la siccità nella stagione estiva e le precipitazioni oggi più scarse nella stagione delle piogge. Nel 2007, su una porzione di territorio degradato acquistata, hanno realizzato la Yorenka Atame School, dedicata all’educazione alle pratiche sostenibili, in collaborazione con le popolazioni vicine. 

Ashaninka

Nel 2008 per far sentire la propria voce presso il segretariato dell’Onu sul cambiamento climatico (UNFCCC), i popoli indigeni di tutto il mondo – fino a quel momento mai davvero presi in considerazione sui temi di clima e risorse – hanno costituito l’International Indigenous People’s Forum on Climate Change (IIPFCC). Tra di loro c’erano i rappresentanti delle tribù indigene del nord America, che rappresentano probabilmente  i primi rifugiati climatici, costretti a spostarsi da erosione del terreno, straripamento dei fiumi e scioglimento dei ghiacci. Il National Congress of American Indians è attivo nella sensibilizzazione sui rischi climatici affrontati dalle tribù e sul loro attivismo: la tribù Nisqually, nello stato di Washington, ad esempio, fa pressione anche sulle forze governative per un’azione condivisa, impegnandosi nella difesa del delicato ambiente dello stretto di Puget, complesso sistema di estuari fluviali e paludi, e habitat naturale del salmone, per loro fondamentale. Fatica a preservare la normale vita del salmone anche la tribù Quinault che, più a nord, cerca di prevedere gli effetti del cambiamento climatico per attuare strategie di adattamento e da anni attua un piano per controllare l’andamento dei fiumi in piena, grazie ai tronchi d’albero. Poco ascoltati, i popoli indigeni meritano più peso, sia perché corrono i maggiori rischi dei cambiamenti climatici, sia per il loro apporto alla difesa dell’ambiente, grazie alla loro conoscenza del territorio e delle risorse, e soprattutto la loro secolare capacità di convivere con la natura senza impattare sull’equilibrio ambientale. 

Pescatori della tribù Quinault

Una ricerca del 2016 del Rights and Resources Initiative del Woods Hole Research Centre dimostra, infatti, che il riconoscimento effettivo dei diritti dei popoli indigeni sarebbe il modo più efficiente e meno costoso di salvare l’ambiente e in particolare le foreste. Laddove è stata riconosciuta la loro proprietà sulla terra, infatti – come avvenuto in Brasile con il territorio degli Ashaninka da parte del presidente Itamar Franco nel 1992 – la deforestazione ha subito un calo, per poi accelerare di nuovo in anni più recenti. Secondo lo studio i popoli indigeni investono, al mondo, circa 4 miliardi di dollari l’anno per la conservazione dell’ambiente, di cui un miliardo per le foreste, eppure loro sono criminalizzati o non riconosciuti. Metà delle terre minacciate cadono sotto i diritti consuetudinari indigeni, ma solo il 10% di queste è legalmente riconosciuto come indigeno: sul resto queste popolazioni non hanno voce in capitolo. 

Lo scenario di oggi non è positivo. Negli Stati Uniti – dopo Obama, che nel 2014 stanziò 10 milioni di dollari per l’adattamento indigeno ai cambiamenti climatici – Trump ha dato nuovi permessi all’oleodotto Keystone a cui dal 2015 le popolazioni Lakota, Dakota e Nakota si oppongono. Circa il 40% degli attivisti assassinati al mondo a causa del loro impegno sono membri di popoli indigeni: nel 2014 quattro leader ashaninka sono stati uccisi dai trafficanti; in Brasile dall’elezione di Bolsonaro sono aumentate le minacce dei trafficanti nelle terre indigene e i fondi per la difesa forestale e per il Funai (il Fondo per gli Affari Indigeni), già tagliati dall’ex presidente Michel Temer, oggi sono sotto seria minaccia. ll gruppo di lavoro della Piattaforma delle Comunità Locali e dei Popoli Indigeni, istituito durante la Conferenza delle Nazioni Unite sul Clima COP24, però, a giugno 2019 ha lavorato a un piano d’azione per il biennio 2020-2021 che sarà discusso alla conferenza COP25 di Santiago del Cile nel dicembre prossimo. E c’è la speranza che la comunità internazionale inizi seriamente a prendere in considerazione le minacce patite da queste popolazioni prima che da tutte le altre, e a riconoscere i suoi meriti nella difesa dell’ambiente, perché hanno molto da insegnarci.

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