La fibromialgia è una malattia reale. Ma le donne che ne soffrono non vengono prese sul serio. - THE VISION
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La sera del 14 settembre del 2017, pochi minuti dopo aver dato forfait al festival musicale Rock in Rio, Lady Gaga annunciava su Twitter di essere stata ricoverata in ospedale a causa di “dolori terribili”. L’anno successivo la sofferenza era diventata così insostenibile da costringerla ad annullare le ultime dieci date del suo tour europeo, nonostante il “profondo dispiacere di non potersi esibire”. Il pubblico si dimostrò comprensivo e solidale, anche perché la notizia non giungeva del tutto inaspettata: nel 2017, due giorni prima di rinunciare al concerto brasiliano, la cantante aveva twittato: “Soffro di fibromialgia: spero di aumentare la consapevolezza su questa malattia”.

Lady Gaga

La fibromialgia – dal greco “fibro” (tessuti fibrosi), “moyos” (muscoli) e “algos” (dolore) – è una malattia cronica che provoca un aumento della tensione e della rigidità muscolare in tutto il corpo, con una conseguente sensazione di dolore persistente e diffuso. Colpisce fra il 2 e il 4% della popolazione mondiale e in Italia è la terza sindrome reumatologica più diffusa: ne soffrono circa due milioni di persone, delle quali 9 su 10 sono donne. Il disturbo può comparire in modo graduale, alternando periodi di miglioramento ad altri di peggioramento, oppure insorgere a seguito di un evento scatenante, come un’infezione o un trauma – fisico o psicologico. Non è riconducibile ad alcuna lesione o infiammazione dei tessuti, tanto che esami del sangue, radiografie o risonanze magnetiche risultano utili solo per escludere la presenza di altre patologie. Oltre a impedire un corretto funzionamento dell’apparato digerente, con disturbi che vanno dal reflusso gastroesofageo al colon irritabile, il costante irrigidimento dell’apparato muscolo-scheletrico può indurre affaticamento, emicrania, disturbi del sonno, difficoltà a provare piacere sessuale e problemi cognitivi. Da un punto di vista psichico completano il quadro ansia, depressione e attacchi di panico. L’eterogeneità dei sintomi, però, rende la patologia particolarmente ardua da diagnosticare, ragione per cui la sua prevalenza effettiva potrebbe essere gravemente sottostimata.

La ricerca ha associato la manifestazione di un’eccessiva sensibilità agli stimoli, anche quelli che di solito non sono dolorosi, ad alcuni squilibri neurochimici nel sistema nervoso centrale. Nei pazienti affetti da fibromialgia, infatti, i livelli dei neurotrasmettitori deputati al controllo del dolore facilitano la sua trasmissione e bloccano, allo stesso tempo, la sua inibizione. I meccanismi che causano queste anomalie sembrano spiegabili solo in parte dalla predisposizione genetica, mentre rimane da chiarire la presenza di fattori che, insieme all’irrigidimento muscolare, potrebbero giustificare l’insorgenza degli altri sintomi. Nel complesso, le certezze sull’origine della malattia sono, a oggi, estremamente limitate e a farne le spese sono soprattutto le donne, che come abbiamo visto costituiscono la quasi totalità delle persone colpite.

Tensioni in ambito personale, familiare o lavorativo sono state associate alla riacutizzazione del dolore e con corpo e mente logorati dalla patologia anche la capacità di gestire stress, affaticamento o sbalzi ormonali – ostacoli che tutti incontrano – si riduce e così la prevalenza dei disturbi psichiatrici nei pazienti con fibromialgia è notevolmente superiore rispetto alla media della popolazione. Nello specifico, il rischio di sviluppare disturbi d’ansia – soprattutto di tipo ossessivo-compulsivo e post-traumatico da stress – aumenta di almeno 5 volte, mentre la prevalenza di depressione sfiora il 90% dei casi. Il dolore costante, il peggioramento della qualità di vita, la carenza di sonno e soprattutto la difficoltà a ottenere una diagnosi finiscono per far insorgere una depressione “reattiva” (conseguente alla malattia). Secondo alcuni ricercatori, i sintomi della fibromialgia innescherebbero infatti una serie di pensieri negativi e catastrofici circa il proprio futuro e la possibilità di guarigione, i quali, incrementando a loro volta i sintomi depressivi, attivano un circolo vizioso che rinforza e mantiene la patologia.

Uno dei fenomeni che rende molto difficile il riuscire a ottenere una diagnosi corretta – requisito indispensabile per potersi poi sottoporre a una terapia e soprattutto per vedere i propri diritti riconosciuti – non viene ostacolato solo dall’invisibilità della malattia, ma anche dalla sua somiglianza per certi aspetti alla depressione. Le donne, infatti, hanno circa il doppio delle probabilità degli uomini di ottenere una diagnosi di questo disturbo. Tale divario sembra in parte dovuto a un’interazione fra fattori biologici e ambientali: una maggiore produzione di cortisolo, “l’ormone dello stress”, contribuirebbe infatti a rendere le donne più inclini a patire situazioni di tensione, anche da un punto di vista psichico. Allo stesso tempo, la pressione a conformarsi a un ideale predefinito di mascolinità induce gli uomini a dissimulare eventuali disagi emotivi o dell’umore (relegati come vuole lo stereotipo a una sfera femminile), con serie conseguenze per la loro salute mentale. Nella fibromialgia, quindi, il pregiudizio sociale per cui le donne sono più inclini a riportare problematiche psichiatriche impedisce una corretta interpretazione dei sintomi.

Come evidenziato dalla Fondazione ISAL, istituto specializzato nella ricerca sul dolore, per la categoria medica il dolore femminile è implicitamente meno rilevante di quello maschile, nonostante una predisposizione biologica porti le donne ad accusare sindromi dolorose più gravi, più frequenti e di maggior durata rispetto agli uomini. Anche la dottoressa Alessandra Graziottin, direttrice del Centro di Ginecologia dell’Ospedale San Raffaele di Milano, in occasione della campagna cittadina per la sensibilizzazione sul dolore acuto e cronico femminile ricordava che “[le donne] ricevono molta meno attenzione diagnostica e terapeutica, ritrovandosi così costrette a soffrire di più e più a lungo, con l’avanzare dell’età”.

Che in ambito sanitario le donne godano di poca credibilità è noto. La giornalista statunitense Maya Dusenbery, analizzando il gender gap della ricerca medico-scientifica secondo una prospettiva storica, racconta il confronto obbligato che le donne hanno sempre dovuto subire rispetto alle aspettative che la società riponeva in loro come mogli e madri, ma anche come pazienti. Nel primo caso, quando la presenza di patologie dolorose croniche – come vulvodinia e fibromialgia – rendeva impossibile soddisfare i criteri dettati dallo stereotipo della donna performante, disponibile, instancabile e accudente, esse si ritrovano costrette a combattere non solo la malattia, ma anche lo stigma che la accompagnava, primo fra tutti quello associato all’isteria. Come se un dolore tanto intenso da risultare invalidante, la stanchezza cronica e lo sconforto che nasce dal non riuscire a intravedere una soluzione ai propri problemi non fossero abbastanza, l’incapacità di provvedere alle incombenze della vita quotidiana e di avere una vita sessuale soddisfacente – a causa del dolore e della difficoltà a raggiungere l’orgasmo – contribuiscono a generare nelle donne colpite dalla malattia un senso di inadeguatezza sempre più totalizzante. A tutto ciò si aggiunge l’ulteriore frustrazione dettata dall’essere costantemente ignorate o sottovalutate e incomprese in quanto pazienti bisognose di cure.

Maya Dusenbery, foto di Caitlin Nightingale

Nella maggior parte dei casi, come scrive Dusenbery, l’unica possibile origine del dolore viene considerata quella psicosomatica, come se peraltro non fosse altrettanto grave ma semplicemente una fantasia, un capriccio. Questo purtroppo è uno scenario ancora attuale, dal momento che non è raro che le pazienti con fibromialgia vengano liquidate dai medici con affermazioni del tipo “Provi a rilassarsi” o “Lei è sana come un pesce”, come riportano alcune testimonianze sul web. Nella migliore (e più rara) delle ipotesi la donna che lamenta dolore viene creduta, ma la scarsa disponibilità di conoscenze scientifiche adeguate le impedisce comunque in molti casi una tangibile possibilità di guarigione. Più in generale, invece di indagare la causa del problema, si finisce spesso per tamponare i sintomi, ricorrendo al temporaneo effetto palliativo di farmaci antidolorifici o antiepilettici – che si sommano agli antidepressivi – peraltro non privi di effetti collaterali. Per questo motivo, oggi, in quelle realtà sanitarie in cui la sensibilità nei confronti di questa problematica sta aumentando, si preferisce sempre di più adottare un approccio multidisciplinare che coinvolga, oltre a una combinazione di farmaci, terapie psicologiche per la gestione dello stress, dolce attività fisica e riabilitazione. Il problema è che un simile percorso terapeutico, se non viene sostenuto dal Sistema sanitario, ha costi anche molto elevati, che non tutti i pazienti si possono certo permettere.

La fibromialgia è stata riconosciuta dall’Oms come una patologia nel 1992, mentre nel 2009 il Parlamento Europeo ha invitato i singoli Stati a promuovere la ricerca e favorire l’accesso ai trattamenti, estendendo alla fibromialgia le agevolazioni previste per le altre malattie invalidanti. Nonostante le battaglie portate avanti dall’Associazione CFU Italia (Comitato Fibromialgici Uniti), però, in Italia non è ancora stata inserita nei Livelli essenziali di assistenza (Lea), rendendo l’accesso alle cure e agli esami diagnostici particolarmente gravoso sul piano economico. La patologia non possiede nemmeno un codice identificativo, quasi a celarla dietro a un’invisibilità legale che ricorda quella dei suoi sintomi. Le persone con fibromialgia non vengono considerate malate dalle istituzioni e sono ritenute sane dalla collettività. Nel frattempo, private di qualsiasi forma di tutela, sono spesso costrette a lasciare il lavoro.

La senatrice Paola Boldrini, vicepresidente della commissione sanità, il mese scorso ha annunciato che è arrivato il momento di inserire questa malattia fra quelle a carico del Sistema sanitario nazionale. Il provvedimento, però, non basterà da solo a migliorare la situazione se non sarà accompagnato da una maggior consapevolezza medica in grado di apprezzare la fondatezza dei sintomi e un percorso terapeutico progettato ad hoc. È necessario a questo proposito un cambio di prospettiva rispetto alla percezione sociale e scientifica del dolore femminile. Non possiamo più permetterci di aspettare.

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