La sezione “persone che potresti conoscere” di Facebook non è un posto ospitale. Chi ha il malsano coraggio di cliccarci solitamente ci troverà: a) la propria psicanalista; b) un uomo sorridente di mezza età che molto probabilmente risiede a Karachi; c) persone con nomi buffi che si prestano a pun ancor più buffi, tipo questo. Il che detto così si limiterebbe a essere un sipario piuttosto simpatico, se non fosse che a volte i suggerimenti smettono di essere macchiette divertenti con cui riempire un apposito album fotografico per diventare dei perplessi interrogativi.
Una domanda del genere deve essersela per forza fatta Kashmir Hill, giornalista di Gizmodo, quando tra gli improbabili suggerimenti ha visto comparire il nome di Rebecca Porter. Non aveva idea di chi fosse, le amicizie in comune erano inesistenti, ma il cognome era lo stesso del nonno biologico – che non aveva mai incontrato. Vinta dalla curiosità, l’aggiunge e inizia una tranquilla chiacchierata. L’intuito di Hill non l’aveva tradita: Rebecca Porter aveva infatti sposato il fratello del nonno mai conosciuto, 35 anni fa. Tutto bello e forse anche un po’ romantico, fin qui. Ma in che modo l’algoritmo di Facebook è riuscito a collegare le due donne?
La risposta non è semplice, considerata la reticenza con cui il colosso di Zuckerberg discute le proprie dinamiche interne. In effetti, il PYMK (People You May Know) algorithm viene definito dalla maggior parte dei giornalisti che se ne sono occupati una scatola nera. Nessuno è ancora riuscito a capirne con precisione il funzionamento. Le risposte date dai portavoce dell’azienda sono parziali, superficiali, quando non del tutto evasive. La spiegazione più ragionevole potrebbe essere questa: i servizi di profilazione sono una delle fonti principali di introiti per Facebok, e non ci vuole un grosso sforzo logico per capire l’importanza di mantenere il proprio vantaggio competitivo in un mercato in cui molte altre aziende, vedi LinkedIn o Twitter, offrono lo stesso genere di servizio.
Il 28 giugno 2016 la Hill aveva pubblicato un articolo in cui sosteneva che Facebook stesse utilizzando la geolocalizzazione degli utenti per migliorare i propri suggerimenti. Menlo Park inizialmente conferma (due volte, stando a quanto riporta Hill), precisando però che questo sarebbe solo uno dei fattori che determinano chi compare nella sezione “persone che potresti conoscere”, per poi fare dietrofront e dire che no, assolutamente, la geolocalizzazione non viene usata. Il che però non spiega in che modo il padre di un ragazzino con tendenze suicide, dopo aver frequentato un incontro di supporto, il giorno dopo si sia trovato tra i suggerimenti un altro dei genitori presenti.
Kashmir Hill, che da qualche mese ormai tiene d’occhio la sezione “persone che potresti conoscere”, scaricando e stampando di volta in volta la lista di suggerimenti che le viene proposta (circa 160 nomi al giorno), ha tentato più volte di chiedere delucidazioni sul funzionamento dell’algoritmo. Dopo aver ragionevolmente ipotizzato che lo spunto per queste serie di nomi arrivasse da blocchi di informazioni vendute da data broker, un portavoce le risponde in modo piuttosto secco che “Facebook non utilizza informazioni di fornitori di dati per la sezione ‘persone che potresti conoscere’”. Nel frattempo raccoglie testimonianze di gente che con quella sezione non ha avuto interazioni del tutto felici. Hill racconta del caso di una prostituta, Leia (ovviamente uno pseudonimo), che ha visto comparire tra le “persone che avrebbe potuto conoscere” alcuni dei propri clienti. Questo nonostante avesse usato la massima cautela sul social, registrandosi con un indirizzo email accademico e non facendo mai menzione della propria professione. C’è poi il caso di una psichiatra che si è vista suggerire molti dei propri pazienti come possibili amici, due dei quali a loro volta sono comparsi l’uno nella lista di suggerimenti dell’altro. O quello di un avvocato che racconta di aver cancellato il proprio account dopo che tra le possibili amicizie aveva trovato il nome del difensore di una controparte in uno dei casi di cui si era occupato. I due avevano corrisposto solo tramite l’indirizzo email di lavoro, che Facebook non avrebbe avuto modo di ottenere per cessione volontaria dell’utente, visto che quest’ultimo non aveva dato il consenso per la condivisione dei proprio contatti.
Tutto ciò è possibile perché oltre all’enorme mole di dati che forniamo volontariamente, Facebook immagazzina tutta una serie di altre informazioni su di noi e sui nostri contatti, che va a costituire il cosiddetto “shadow profile”. Immaginate un ipotetico iceberg, la cui punta sono i dati che cediamo di nostra spontanea volontà: ne rimane una gigantesca porzione nascosta, che è appunto utilizzata dal social non solo per decidere chi sarà la prossima persona a cui chiederemo l’amicizia, ma anche per arricchire il nostro pacchetto di preferenze e caratteristiche personali – pacchetto che andrà a migliorare le targhettizzazioni delle inserzioni.
Come vengono raccolte queste informazioni? Stando a quanto riporta Hill, nel momento in cui si decide di utilizzare il servizio “Trova amici” si accetta di trasmettere tutti i propri contatti a Facebook. Il che significa: numeri di telefono (se si utilizza l’app per mobile), indirizzi email (se si usa in desktop o da cellulare), nomi ed eventuali soprannomi degli intestatari. Avete appena ceduto a terzi tutta la vostra rubrica. Questi contatti vengono quindi messi a confronto e incrociati. Se anche un solo indirizzo email e numero di telefono tra quelli che avete appena ceduto è presente nella rubrica di un qualsiasi altro utente – che deve però a sua volta aver accettato di condividere i contatti – allora sarete reciprocamente suggeriti come amici. Se il vostro nome è salvato nella rubrica di un user che dà il proprio consenso per caricarla online, il vostro contatto entrerà nel sistema con il vostro nome e cognome, che voi abbiate o meno deciso di caricare i dati su Facebook.
Tornando al caso dell’avvocato citato prima, com’è possibile che gli sia stato proposto come amico un altro legale con cui ha corrisposto solo tramite la propria mail lavorativa? Non serve nemmeno che l’avvocato in questione decida di condividere i propri contatti. Basta che un qualsiasi altro utente abbia quella mail salvata sotto il nome del legale e che la condivida con Facebook. A questo punto il sito, avendo il suo nome, cognome e indirizzo email, è in grado di metterlo in contatto con qualsiasi altro utente in possesso di quella stessa mail. Nel caso in questione, il legale di controparte.
Gli shadow profile non sono una novità. L’iniziativa Europe v. Facebook aveva presentato un reclamo formale già nel 2011 (vi vengono elencate sette istanze in cui Facebook, con sede in Irlanda, avrebbe violato la legge irlandese per la protezione dei dati personali), ma la questione è esplosa nel giugno 2013, quando un bug colpì il social media rendendo pubblici indirizzi email e numeri di telefono privati di 6 milioni di utenti. Molti fra questi non avevano condiviso volontariamente le proprie informazioni. Scaricando il proprio file personale da Facebook, si potevano vedere non solo i dati “ufficiali” relativi alla propria lista di amici, ma anche i loro shadow profile. Il bug, insomma, ha dimostrato l’esistenza di un profilo ombra la cui esistenza si ipotizzava già da un paio di anni.
Pensate a tutti i numeri che avete salvati in rubrica. Pensate a tutte le persone che avete visto una volta e di cui avete salvato il contatto, per un motivo o per l’altro. Se voi o le persone in questione caricate le vostre rispettive info su Facebook, i vostri profili saranno aggiornati. E così i suggerimenti diventeranno sempre più accurati, fino a includere qualsiasi pittoresco individuo che per qualche ragione ha anche un solo contatto in comune con voi. Tale profilo finirà per costituire una sorta di cronologia della vostra rubrica, con tutte le informazioni annesse a quest’ultima.
Complice una piattaforma che non sempre dà prova di tutta la trasparenza che decanta, siamo convinti che tutto ciò che Facebook sa di noi sia frutto di interazioni dirette e delle nostre scelte consapevoli. In molti casi, purtroppo, ciò si rivela un clamoroso errore.
Questo è uno di quei casi. L’elenco di “persone che potresti conoscere”, in realtà, non è altro che una delle possibili dimostrazioni di ciò che Facebook potrebbe conoscere su di voi.