Per essere immortali basta avere un profilo Facebook

Qualche mese fa il Sun ha dichiarato che Facebook “Supera il più grande cimitero del mondo, Wadi-us-Salaam in Iraq, luogo di riposo di appena cinque milioni di persone”. La dichiarazione teneva conto di un censimento reale: quello dei “morti digitali”, ovvero gli utenti Facebook di cui, post mortem, sopravvive il profilo come una lapide virtuale. Ma la lapide Facebook, al contrario della sua tradizionale controparte granitica, è in costante mutamento: continua a contare visite, a riempirsi di frasi affettuose e di emoji a forma di cuori sgargianti da parte di amici e familiari, che al contrario dei tradizionali fiori cimiteriali non perdono forma e colore a causa dell’incuria, del fisiologico ritorno alla vita di chi subisce il lutto. Non solo. Il parente del defunto, sempre che quest’ultimo abbia dato il consenso a quest’operazione, detta “memorialization”, continua spesso ad amministrarne la pagina Facebook, ringraziando gli amici della vicinanza, appropriandosi di quello spazio affettivo che esisteva tra il morto e i suoi cari come fosse il suo. E nel frattempo, mentre la vita affettiva del morto viene occupata – il che spesso avviene in modo abusivo, non “memorializzato”, nel caso che Facebook non abbia riscontrato il decesso, i dati che il morto ha lasciato su internet nel corso della sua vita virtuale resistono e si moltiplicano. La mole di dati – di veri e propri frammenti di sé, desideri e pensieri, idee, emozioni, gusti, hobby, connessioni sociali, partecipazioni ad eventi – raggiungerebbe, in un nativo digitale, che dunque ha cominciato a depositare pezzi di se stesso in rete già in giovanissima età, una tale quantità da costituire un vero e proprio alter ego della persona.

È dunque bizzarro che noi, storicamente ossessionati dall’aldilà, non ci curiamo di ciò che di noi resterà nell’aldiqua. I nostri dizionari definiscono la morte come la “Cessazione della funzioni biologiche degli organismi”, ma che ne sarà di tutto ciò che di noi non cesserà mai, e sarà anzi alimentato dal rimpolparsi continuo delle connessioni, costantemente riportato a galla nel web? Prima di internet, l’unico canale socialmente riconosciuto di comunicazione con il morto era il ricordo, e avveniva solo nelle nostre teste. Adesso i morti ci attraversano, dividono con noi lo spazio frammentato del web e ci confondono su cosa sia effettivamente in vita e cosa no. Facebook ci ripropone ogni giorno i nostri ricordi, in modo invasivo e indiscriminato, senza fare differenza tra i vivi e i morti. Così capita che ci mandi la foto di un nostro amico defunto, dicendo: “Ti sei dimenticato di Tizio Caio? Scrivi ora sul suo diario”.

E cosa succederebbe se venissimo hackerati, se dopo la morte nei nostri dati si inserisse una persona esterna, manipolandoli e utilizzandoli ai propri scopi, un po’ come succede già a fini pubblicitari, una sorta di equivalente digitale di una possessione? Le implicazioni legali di operazioni del genere, così come quelle “metafisiche”, ci sono ancora oscure, ma la loro impellenza è stata dimostrata dall’emergere di servizi di archiviazione elettronica che, tra le varie opzioni, consentono di stabilire cosa accadrà ai nostri dati digitali dopo il nostro trapasso. Le religioni si sono costruite intorno allo sforzo di dividere vita e morte, ma che cosa diranno della nostra imminente e immanente morte digitale?

Black Mirror ha provato a rispondere ad alcune di queste domande. Nell’episodio “Torna da me”, la compagna di un uomo morto in un incidente ricorre a un’app che permette a tutti i dati lasciati da lui in vita di organizzarsi in una personalità coerente, che interagisce con lei e alla fine viene integrata in un corpo umano di silicone. Il corpo di questo alter ego in tutto identico all’amato, a cui mancano però dettagli che erano insignificanti nella vita ma che diventano fondamentali nel discriminare il vivo dal suo doppelgänger sintetico – come ad esempio i piccoli vizi di comunicazione – verrà infine conservato dalla moglie in soffitta. Impossibile gettarlo via come un oggetto, ma nemmeno amarlo come una persona: il marito si trova così in un limbo tra l’uomo e la sua riproduzione tecnologica.

Sembra di aver trovato la “valle perturbante”, l’uncanny valley teorizzata Masahiro Mori, solo che non riguarda più esclusivamente i robot. Ora ci troviamo tutti lì, dove vivo e non vivo si confondono: su Facebook, su Twitter, sulle dating apps, i luoghi virtuali in cui quasi tutti abbiamo esportato gran parte delle nostre interazioni sociali, sostituendoli alle piazze, ai locali, ai luoghi dove dovevamo davvero affrontare l’altro e non immaginarlo. Siamo immersi in algoritmi che anziché mostrarci il diverso, che è fonte di conoscenza e confronto, ci mostrano solo contenuti simili a quelli che abbiamo già dimostrato di apprezzare. È nata così una nuova solitudine, non quella da mancanza di comprensione ma quella dal suo eccesso: il riflettersi continuo, narcisistico, che ci lascia cupi e vuoti come lo schermo nero di uno smartphone a batteria esaurita.

Da un punto di vista informatico, la morte digitale non è davvero diversa dalla vita digitale: la pagina Facebook del defunto viene amministrata da un parente che interagisce come avrebbe fatto il morto, ed è ancora inondata di testo. Anche da un punto di vista relazionale le differenze non sono poi così marcate: quanto di noi uccidiamo nelle nostre relazioni sui social o sulle dating apps? Tinder, Grindr, Wapa non sono piazze ma cimiteri: luoghi dove, anziché conoscere e farci conoscere, depositiamo di noi un falso io fatto di ciò che crediamo utile, interessante e affascinante. E la persona con cui interagiamo fa lo stesso: deposita in noi proiezioni, mancanze. Non è innamoramento, è infossamento: prendiamo la nostra infanzia, le nostre fantasie, le nostre aspettative e anziché metterle in gioco nella conoscenza dell’altro le riponiamo così come sono in un luogo inerte, una chat, una bara che chiamiamo con il nome del nostro partner virtuale, ma che della persona con cui comunichiamo ha solo ciò che vogliamo vedere.

Un’altra puntata di Black Mirror, “San Junipero”, descrive un territorio che è al contempo eterna luna di miele e aldilà virtuale: si muore, ma altrove si ama per sempre e in modo perfetto. Mentre il corpo marcisce sottoterra, la coscienza è conservata in un grande cimitero tecnologico e permette ai nostri sentimenti, pensieri, emozioni, a tutto il patrimonio psicologico della nostra esistenza di preservarsi – e, nelle connessioni, alimentarsi – in una località vacanziera piena di locali e di occasioni di svago. Si può scegliere l’epoca, il vestito, si può fare sesso e amare senza paura di essere contagiati da malattie o dal passato dell’altro. “È reale?” si chiede Yorkie, protagonista nerd dagli occhi azzurri, che nella realtà è un’anziana paralitica sul punto di morte. “Le nostre emozioni lo sono”, risponde la sua nuova amante, una riccia scatenata che ha perso figlia e marito e cerca una nuova vita fuori dal peso organico del dolore.

Nel seducente sogno di San Junipero eros e thanatos coincidono perfettamente, ed entrambe sono completamente smaterializzate. Saremo i tamagotchi di noi stessi, attenti a sentimenti e bisogni che saranno finti ma sempre coinvolgenti, ma non potranno mai farci davvero male. Poiché, come scrive Byung-Chul Han, “L’uguale non provoca dolore”. L’uguale, ovvero quello che il filosofo sudcoreano percepisce come il morbo della nostra epoca, è il tratto distintivo di “Un sistema che non riconosce la negatività dell’altro”. Nei vortici narcisistici della comunicazione in rete, dunque, “Si bramano esperienze vissute ed emozioni eccitanti in cui perà si resta sempre uguali. Si accumulano amici e follower senza mai incontrare veramente l’altro”.

Ed è quello che accade nell’idillio post-swipe delle dating apps, nelle settimane di estatica conoscenza virtuale: amando, pensando, desiderando attraverso uno schermo ci precipitiamo costantemente in un San Junipero perfetto e spettrale, un Ade dove non ci si può voltare indietro a guardare chi siamo veramente, pena la fine del gioco. Conosco molti psicoterapeuti che sono pieni di pazienti che soffrono di crolli nervosi dopo aver incontrato persone che non somigliavano agli spettri che la comunicazione virtuale aveva creato nella loro testa.

Questo perché la comunicazione digitale mette in campo un dominio pericoloso fatto di pseudo-sessualità – una sessualità astratta, che non corrisponde a quella realmente vissuta dall’individuo – e di tutta una serie di sub-personalità che sono solo frammenti della personalità reale e che spesso non sono integrate in essa, ovvero non si sono mai davvero manifestate. Così, mentre i nostri profili Facebook da vivi vengono superati da quelli dei morti, ed entrambi sono monumenti narcisistici a chi vi scrive, continuiamo a fare anche da morti quello che abbiamo fatto da vivi: contenere passivamente i desideri degli altri, mentre gli altri fanno lo stesso con i nostri, senza che la realtà si intrometta mai a mettere in campo la bellezza del reale.

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