Il disturbo borderline deve essere trattato per quello che è: la risposta a un trauma
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Il disturbo borderline di personalità (BPD) è una patologia molto stigmatizzata e incompresa. Secondo una recente ricerca, gli australiani con un BPD devono affrontare ostacoli considerevoli nell’accesso a cure economicamente sostenibili e di alta qualità. Per ogni 100 pazienti curati nei reparti psichiatrici, 43 hanno un BPD [anche in Italia alcuni studi hanno rivelato che il costo economico e sociale di questa patologia è più elevato di quello di altri disturbi psichiatrici, sia in termini di costi diretti che indiretti, ndr] persone che hanno questa malattia sono vulnerabili, impulsive e molto sensibili alle critiche, eppure continuano a trovarsi di fronte allo stigma e alla discriminazione quando vogliono curarsi.

Abbiamo fatto molti passi avanti dal tempo in cui le malattie mentali erano considerate un segno di debolezza, ma siamo ancora in ritardo rispetto al nostro atteggiamento sul BPD. Questo in parte deriva dal modo in cui inquadriamo la malattia, e anche dal suo stesso nome. Anziché un disturbo di personalità, sarebbe meglio pensare al BPD come a una complessa risposta ai traumi. È ora di cambiare il suo nome.

Quanto è comune il BPD?

Il BPD è molto comune e colpisce tra l’1 e il 4% degli australiani (in Italia, le persone affette da questo disturbo sono circa il 4% tra i giovani adulti, dall’1 al 3% tra gli adolescenti, ndr). È caratterizzato da sfasamento emotivo, coscienza instabile, difficoltà nel formare relazioni e ripetuti comportamenti autolesionisti. Molte delle persone che soffrono di BPD hanno alle spalle un passato molto traumatico, spesso vissuto durante l’infanzia, ad esempio attraverso abusi sessuali e fisici, situazioni di abbandono o separazione dai propri genitori o dai propri cari. Questo legame con il trauma – in particolare con l’abuso fisico e sessuale – è stato largamente studiato ed è stato riscontrato quasi ovunque nei pazienti con BPD. Le persone con questo disturbo che hanno alle spalle una storia di gravi abusi rispondono peggio alle cure di coloro che non li hanno subìti, e sono più inclini all’autolesionismo e al rischio di suicidio. Circa il 75% dei pazienti con BPD tenta il suicidio a un certo punto della sua vita. Uno su dieci riesce a commetterlo.

Il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DMS-V) non menziona il trauma tra i fattori diagnostici del BPD, nonostante il legame indissolubile tra le due cose. A questo si aggiunge il fatto che il BPD è visto come ciò che il suo stesso nome suggerisce: un disturbo di personalità. Invece, sarebbe meglio ripensare il BPD come un disturbo dello spettro post-traumatico, come il disturbo da stress post-traumatico. Le somiglianze tra le due patologie sono numerose. I pazienti di entrambe le malattie hanno difficoltà a regolare le loro emozioni, provano sentimenti persistenti di vuoto, vergogna e colpa, e hanno un elevato rischio di suicidio. 

Perché il nome è un problema

Etichettare le persone con un BPD come persone che hanno un disturbo di personalità può minare la loro già fragile autostima. “Disturbo di personalità” si traduce nella mente della maggior parte delle persone come un difetto di carattere, e questo può creare o esasperare un radicato senso di inutilità e di disgusto verso se stessi. Questo fa sì non solo che le persone con un BPD si vedano ancor più negativamente, ma anche che le altre persone, incluse quelle a loro più vicine, facciano lo stesso.

Anche il personale medico, spesso ha un atteggiamento negativo verso le persone con il BPD, in quanto le considera manipolatrici o non disposte ad aiutare se stesse. Siccome a volte può essere difficile gestirle e i pazienti tendono a non rispondere subito al trattamento dei dottori, questi, insieme agli infermieri e altri membri dello staff spesso reagiscono con frustrazione o disprezzo. Questi atteggiamenti sono molto meno frequenti nel personale che lavora con persone che soffrono di disturbo post-traumatico da stress o da altri disordini legati al trauma

Cosa potrebbe fare un cambio di nome?

Correlare in modo esplicito il BPD al trauma potrebbe alleviare parte dello stigma e del danno associati a questa diagnosi, e potrebbe portare a una risposta nelle cure più soddisfacente e a risultati migliori. Quando le persone con un BPD si accorgono che gli altri si allontanano da loro o le trattano con disprezzo, possono rispondere con l’autolesionismo o con il rifiuto delle cure. I medici in risposta potrebbero ulteriormente allontanarsi o diventare frustrati, cosa che perpetua gli stessi atteggiamenti negativi. A lungo andare, questo potrebbe condurre a quello che lo psichiatra statunitense Ron Aviram  e i suoi colleghi chiamano una “profezia che si auto-avvera e un ciclo di stigmatizzazione a cui contribuiscono sia il paziente che il terapeuta”.

Ripensare il BPD evidenziandone le cause aiuterebbe a curare quest’ultime e non i sintomi, e potrebbe ribadire l’importanza di prevenire in primis la violenza sui minori e l’abbandono. Se iniziamo a considerarlo come un disturbo legato a un trauma, i pazienti cominceranno a essere visti come delle vittime di un’ingiustizia passata e non come gli artefici della loro stessa sfortuna. Il BPD è una malattia difficile da curare, e l’ultima cosa di cui abbiamo bisogno è renderla più difficile di quanto sia per chi ne è affetto e per le loro famiglie.

Questo articolo è stato tradotto da The Conversation.  

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