Siamo tutti più o meno consapevoli di cosa serva per vivere bene: non fumare, bere poco alcol, una dieta equilibrata, sport, relazioni sane, un lavoro soddisfacente. Detta così, in un banale elenco non sembra nemmeno tanto difficile, a parte per l’ultimo punto. La realtà, purtroppo, è che molto spesso un bel po’ di questi precetti non è per nulla facile rispettarli. A nessun fumatore va davvero di smettere di fumare – a parte qualche rara eccezione – e nessuno ha voglia di mangiare solo riso integrale, verdure al vapore e qualche proteina. Per non parlare dello sport, che spesso è solo un’attività obbligatoria da svolgere per essere in pace con la propria coscienza, rinchiudendosi in qualche palestra-scantinato che più che un posto per stare bene sembra una gabbia per criceti taglia essere umano. Tenere insieme tutti i pezzi della ricetta per la vita sana è un gran casino. Negli ultimi anni poi, la rincorsa verso lo stato esistenziale di grazia in cui siamo contemporaneamente belli, in salute e felici ha preso il nome di wellness. Ad alimentare l’angoscia perenne che si prova quando ci si rende conto che si è in sovrappeso, si dorme male e ci si sta intossicando i polmoni con quintali di catrame, arriva questo tornado mediatico che ci sprona a prendere per le corna la nostra forma fisica e a investire in attività e prodotti che rivoluzioneranno il nostro il modo di stare al mondo.
Ci sono diverse declinazioni di questo state of mind, che si impone a volte come un vero e proprio credo religioso: c’è la branca più strettamente connessa al fitness, con tutto ciò che si lega al mondo dello sport, in particolare della palestra, con l’immancabile presenza di vaste collezioni di leggins e di petto di pollo alla piastra; c’è la fazione che si concentra più sull’aspetto alimentare, aderendo anche a movimenti che nascono per ragioni etiche, come il vegetarianesimo o il veganesimo; e poi, c’è l’universo del wellness femminile, dove si combinano filosofie orientali, pratiche di cosmetica alternativa, consumo e utilizzo di prodotti specifici volti a migliorare drasticamente il proprio stile di vita. In tutte le manifestazioni del concetto di wellness, spicca l’esigenza di cambiare la propria esistenza attraverso un provvedimento concreto, pragmatico. Mi sento brutto? Mi faccio il fisico in palestra. Mi sento intossicato dalla modernità della vita metropolitana? Mi iscrivo a un corso di yoga. Che alcune di queste opzioni siano effettivamente risolutive, è inutile negarlo. Io stessa da quando ho cominciato a fare attività fisica ho sentito dei miglioramenti nell’economia generale della mia esitenza, e mi impegno sempre a mangiare in modo che reputo sano – sigarette e alcol invece me le tengo strette per il benessere della mia salute mentale. Ma come molto spesso accade in questo presente all’insegna del consumo e delle strategie di marketing, anche il wellness e tutta l’aura divina che gli ruota attorno può finire col diventare una delle ennesime mode per fare incassi finché dura il trend e poi rimpiazzarlo con qualche altro prodotto da vendere.
La questione del benessere e dell’ossessione per la vita sana, dunque, se da un lato può oggettivamente migliorare il benessere mentale e fisico di una persona, dall’altro non solo rischia di diventare una trappola economica ma in certi casi alimenta anche quel sentimento diffuso di scetticismo verso tutto ciò che è ritenuto “tradizionale”, dai vaccini alle cure mediche. Si va dalla diffusione a macchia d’olio di ristoranti “green”, dove un’insalata con qualche seme di lino e un paio di pomodirini bio ti costa 12 euro, a eccessi in cui le pratiche alternative per riabilitare la propria esistenza in chiave anticonvenzionale diventano la base per vere e proprie sette. Di recente, un caso molto estremo, ad esempio, è stato quello di Mario Pianesi, un guru del macrobiotico che possiede centinaia di ristoranti e punti vendita indagato per aver costretto persone a seguire la sua dieta con la promessa di guarire malattie anche gravi, fino a ridurle in stati pietosi. Ma l’esempio più eclatante del wellness anti-sistema, basato su miscugli improbabili di una non meglio specificata “saggezza orientale” e pratiche discutibili condite da un sottofondo di “loro non ci dicono la verità sull’industria farmaceutica”, è quello dell’azienda milionaria di Gwyneth Paltrow.
Nata nel 2008 come semplice newsletter piena di consigli da donna a donna su vestiti, alimentazione e sessualità, Goop si è presto trasformata in un sito di lifestyle, ovvero un impero che fattura milioni grazie all’esigenza molto occidentale di usare tutto ciò che riguardi l’Oriente come una sorta di antidoto alle pressioni della modernità. Gwyneth Paltrow, la regina di questo castello dorato costruito con sale rosa dell’Himalaya e cristalli di giada, ha usato la sua immagine e la sua figura pubblica come mezzo per diffondere potenti rimedi contro lo stress della civiltà contemporanea. Il suo modo di apparire, probabilmente, ha contribuito non poco al successo di questa iniziativa commerciale così fruttuosa: G.P. è di una bellezza elegante, eterea, longilinea; ha un aspetto puro, bianco, pulito, e così sembra essere anche la sua vita. Molte donne l’hanno eletta a guida spirituale proprio grazie a questa sua iconografia mistica, una sorta di San Francesco dell’avocado e delle lavande vaginali. Goop è il new age 2.0, dove i freakkettoni che un tempo venivano percepiti come sporchi ammassi di capelli lunghi e patchouli ora sono influencer di un mondo senza stress, doppie punte e problemi intestinali. Lo stile di vita che promuove il sito è esclusivo, classista, nulla costa poco e nessuno si vergogna di questo palese elitarismo: Goop è un portale aspirational, il lusso non è una vergogna, né tantomeno lo è quello biologico, le donne hanno diritto di prendersi cura di loro stesse anche spendendo centinaia di dollari per un uovo di cristallo di giada da apporre dentro il proprio apparato riproduttivo per praticare ginnastica pelvica.
Oltre alla stonatura dovuta ai prezzi e alla patina di privilegio che abbonda nel business di G.P., il problema è che moltissimi prodotti e metodi che si trovano sul sito non hanno nessuna prova scientifica della loro efficacia. È come se l’attrice americana che ha chiamato sua figlia con il nome di un frutto fosse uno di quegli imbonitori che giravano per le piazze vendendo elisir di lunga vita ai passanti. Ha imbottigliato l’ansia di non essere abbastanza in salute, abbastanza in forma, sufficientemente idratate e toniche e l’ha rivenduta per diverse centinaia di dollari. Ma anche i lavaggi del colon da lei promossi – per quanto l’idea di purificare le propria budella possa sembrare geniale – necessitano di un’approvazione da parte della comunità scientifica, e spesso questo dettaglio manca. Quando Condé Nast, la famosa casa editrice statunitense, le ha proposto di trasformare Goop in un magazine, ben consapevole del potenziale commerciale di una rivista su diete detox e centrifugati, Gwyneth Paltrow si è opposta alla proposta di fact-checking delle ricette e delle pratiche che promuove nel suo sito, facendo saltare l’accordo. Eppure, non dovrebbe essere una richiesta così assurda vista la peculiarità di certi metodi spinti da Goop, come ad esempio la puntura di ape terapeutica – una donna è morta dopo averla usata – o la liberazione dal reggiseno in quanto potenziale causa di cancro.
Il punto è che la pseudoscienza promulgata da questo genere di realtà, in un momento storico in cui la diffidenza da tutto e tutti si traduce in scelte politiche tragiche, è l’ennesimo fattore che contribuisce a questo sentimento già diffuso di arroganza e di scetticismo. Se per curarsi dalle malattie non serve la medicina e non servono i medici ma bastano le bacche di goji e la terapia della terra, allora anche per fare politica o qualsiasi altra cosa non servono competenze specifiche ma solo un buon intuito e qualche nozione imparata su vecchi manoscritti cinesi. Se il wellness si deve tradurre in una presunzione di onniscienza riguardo a tutto ciò che è giusto e sbagliato fare con il nostro corpo, senza tenere in conto che esistono competenze acquisite in anni di studio e pratica, le conseguenze sono solo negative. È vero che le medicine non sono per forza sempre l’unica soluzione praticabile per migliorare il proprio stato di salute: non serve necessariamente imbottirsi di pillole per stare meglio, e i bravi medici – tradizionali, non guru promulgatori di qualche tendenza tanto appetibile quanto inconsistente – non fanno altro che ripetere questo concetto. Né schiavi di una dipendenza da un lato, né dall’altro, perché non è che se invece di dare i tuoi soldi a Big Pharma li dai a Gwyneth Paltrow allora hai cambiato un granché.