Dalla nascita stessa della filosofia gli uomini hanno iniziato a interrogarsi su cosa fosse davvero la coscienza, intesa come la consapevolezza che un individuo ha del mondo esterno e di sé, dei propri contenuti mentali e della capacità di provare esperienze. Spesso è stata proprio la coscienza la discriminante per stabilire se siamo o meno soggetti dotati di interessi e di diritti.
I nuovi progressi nel campo delle neuroscienze portano però sempre più studiosi a chiedersi se sia davvero così fondamentale. L’evidenza dimostra che i nostri cervelli elaborano le informazioni anche senza bisogno della coscienza, e che noi ci comportiamo di conseguenza. Una prima svolta radicale arrivò più di due secoli fa con il fisiologo e fisico tedesco Hermann von Helmholtz, che ipotizzò che molte delle operazioni cerebrali avvenissero senza esperienza consapevole. Elaborò questa ipotesi riflettendo sulla nostra capacità di valutare una scena visiva complessa con una velocità notevole e straordinaria accuratezza senza alcun pensiero cosciente. Secondo Giorgio Vallortigara, professore di Neuroscienze presso il Centre for Mind-Brain Sciences dell’Università di Trento, “Certe cose possono sembrare molto complicate: risolvere un labirinto, effettuare sottrazioni o addizioni. Questo però non vuol dire che gli organismi che le compiono siano consapevoli, dato che sono attività eseguibili in assenza di coscienza. Basti pensare a un’azione complicata quale prendere una palla. Si tratta di un’attività molto complessa, ma il mio sistema motorio la compie in maniera implicita, senza la necessità della consapevolezza”. Per Vallortigara esiste la possibilità che un animale possa agire in maniera adeguata senza che il suo comportamento sia accompagnato dalla coscienza: “Sembra plausibile che le esperienze siano diffuse nel regno animale, ma il mio mestiere è fare lo scettico. Dobbiamo considerare un fenomeno molto particolare: la cosiddetta visione cieca”. Si tratta della capacità di vedere che non è accompagnata dalla consapevolezza. In parole povere: vedi ma non sai di vedere.
Questo fenomeno è stato approfondito dallo psicologo britannico Lawrence Weiskrantz, interessato alle capacità di recupero delle funzioni nella corteccia visiva, area del cervello che elabora e decodifica le informazioni visive. Uno dei sui dottorandi, Nicholas Humphrey, si era occupato per sette anni di una di scimmietta privata della corteccia visiva, Helen. Lo scienziato la portava sempre con sé, la studiava e la addestrava, e in breve tempo potè notare uno spettacolare recupero di funzioni. La scimmietta non si comportava come una cieca, ma faceva tutto quello che fa un animale che vede, anche se priva della corteccia visiva. Helen poteva evitare ostacoli, catturare mosche e muoversi senza problemi, a patto che “si dimenticasse” della sua condizione, comportandosi cioè in maniera automatica. Se invece era stressata o agitata tornava a comportarsi come se fosse cieca. L’unico limite di Helen era l’impossibilità di poterla interrogare su cosa e se potesse davvero vedere.
Weiskrantz, insieme alla neuropsicologa Elizabeth Warrington, riuscì a scoprire le stesse capacità di Helen in individui umani resi ciechi da danni neurologici alla corteccia visiva. Si trattava di persone convinte della propria cecità. Alla domanda su cosa vedessero non sapevano rispondere, ma alla richiesta di indovinare gli oggetti davanti ai loro occhi, la maggior parte era in grado indicarne la posizione e, in alcuni casi, la forma o l’orientamento, per esempio atteggiando nella maniera appropriata la mano per afferrare un oggetto orientato orizzontalmente o verticalmente. In realtà queste persone non erano cieche, ma avevano una visione priva di coscienza. “È possibile che la condizione di Helen e delle persone affette dalla visione cieca sia normale in certi organismi, ovvero che esistano organismi che si comportano in maniera adeguata senza che tutto questo sia accompagnato da alcunché di consapevole. Questo ci deve anche far riflettere sulla facilità con cui viene attribuita una coscienza ad altri essere viventi”, sottolinea Vallortigara.
Uno dei cavalli di battaglia dell’attribuzione della coscienza di sé agli animali è il test dello specchio, ideato dallo psicologo Gordon Gallup nel 1970. L’esperimento consiste nel dipingere un segno sul corpo dell’animale, messo di fronte a uno specchio per registrarne la reazione (l’animale deve aver avuto precedenti esperienze con uno specchio). Per superare il test l’animale deve riconoscere che non si trova di fronte a un altro individuo, capire che quello che vede è il suo corpo e cercare di pulire il segno. Questa secondo Gallup sarebbe dovuta essere una dimostrazione che l’animale ha consapevolezza di sé. Ma Vallortigara ha una spiegazione molto più logica e semplice: “Il test dello specchio non dimostra per forza l’esistenza di una coscienza di sé, bensì di un mero apprendimento associativo.” All’inizio l’animale ha comportamenti ripetitivi, per esempio muovendo un arto davanti allo specchio, e può percepire la posizione del suo arto mediante la propriocezione, per poi metterla in relazione con il feedback di ritorno fornito dall’immagine visiva allo specchio. L’informazione visiva viene così associata all’informazione propriocettiva: l’arto che vedo muoversi è il “mio”, quello che “sento” muoversi.
La facilità con cui gli animali formulano l’associazione ha poco a che fare con l’autocoscienza. Se, per esempio, un animale rifiuta di guardare la propria immagine riflessa (come fanno molte specie di scimmie, dato che guardare direttamente un conspecifico è un atteggiamento per loro aggressivo) o se un animale preferisce impiegare altri sensi (per esempio l’olfatto, in un cane), ovviamente non avrà la facoltà di apprendere questa relazione propriocezione-visione e potrebbe essere considerato a torto come un animale incapace di avere coscienza di sé. Non bisogna confondere il possesso di capacità cognitive sofisticate con la prova che gli animali siano coscienti o consapevoli. Se un animale è molto intelligente non vuol dire che sia consapevole. Anche le dimensioni o le caratteristiche di complessità del sistema nervoso potrebbero non essere una discriminante efficace. Bisogna infatti considerare che nessuno studio è ancora riuscito a dimostrare che la complessità possa portare alla comparsa delle esperienze o della coscienza di sé.
Un esperimento importante che ha ridimensionato il ruolo del libero arbitrio, aspetto considerato fondamentale della nostra coscienza, è stato condotto da Benjamin Libet, misurando il tempo trascorso tra l’esecuzione di un atto e il momento in cui ci si rende conto di aver deciso di farlo. L’esperienza di una decisione segue di vari millisecondi l’avvio dell’attività cerebrale: è una ricostruzione a posteriori di qualcosa che è già avvenuto e non l’esito dell’esercizio del nostra scelta consapevole. L’esperimento è stato interpretato da molti come una prova empirica del fatto che il cervello si prepara all’azione prima che il soggetto diventi consapevole di aver deciso di compiere un movimento. La sensazione di aver fatto una scelta non avrebbe alcun ruolo causale nella produzione di quel comportamento. Ecco svelato il grande trucco della coscienza: farci credere che i nostri pensieri coscienti siano la causa delle nostre azioni. Forse, nel preciso momento in cui sperimentiamo una scelta, la nostra mente sta scrivendo una storia, inducendoci a pensare che una scelta sia stata fatta fin dall’inizio.
Una scoperta eclatante sulla questione è stata fatta da Roger Sperry che vinse il Nobel per la medicina nel 1981 scoprendo che, in un paziente con gli emisferi cerebrali separati, ogni emisfero ha una sua propria coscienza e che ci inventiamo storie plausibili per giustificare un’azione di senso compiuto quando la ragione ci sembra inaccessibile. Un tempo ai pazienti affetti da gravi forme epilettiche intrattabili con i farmaci si usava separare chirurgicamente gli emisferi cerebrali rimuovendo il corpo calloso. In questi pazienti ogni emisfero agisce autonomamente: l’emisfero destro vede e controlla la parte sinistra del corpo e viceversa. Alcune funzioni sono compartimentalizzate nel cervello, come per esempio il linguaggio nell’emisfero sinistro o le abilità visuo-spaziali in quello destro. Se si presenta un oggetto al campo visivo sinistro, mettendo per esempio una bottiglia nella mano sinistra del paziente, l’informazione sarà accessibile all’emisfero destro e il paziente saprà disegnare la bottiglia ma non dire come si chiama. Se si interroga l’emisfero sinistro, il paziente si inventerà una storia plausibile sul perché ha in mano quella bottiglia, dicendo per esempio “avevo sete”. Ma la verità è che non lo sa ed è inconsapevole di non saperlo.
La coscienza è dunque una sorta di interprete per giustificare un’azione compiuta: è l’ultima a sapere e a volte si inventa anche la vera ragione di un’azione. Se la coscienza non è altro che un racconto introspettivo che dà un senso ai nostri comportamenti, è lecito chiedersi se sia giusto chiamarla in causa per definire noi e altri esseri come individui dotati di uno status privilegiato. Forse. Ma sarebbe meglio considerarci speciali nella nostra complessità, un continuum tra emozione e ragione. Non è la coscienza in sé che determina chi siamo e le nostre scelte ma l’armonioso rapporto tra corpo, ambiente esterno e cervello.